Il clima è spesso
cambiato nel corso dei secoli con effetti importanti sulla vita delle
persone e della società. Un libro racconta la storia “sociale”
dell'inverno, fra le stagioni quella più complessa da gestire.
Marina Montesano
La stagione gelata, un
cruccio nel corso dei secoli
Le stagioni e i
cambiamenti climatici hanno giocato una grande influenza sulla storia
umana, soprattutto nelle epoche preindustriali. Per esempio, nel
corso del II secolo d.C. si era avviata una lunga fase di
raffreddamento climatico dell’emisfero boreale del pianeta, che
sarebbe culminata fra VI e VII secolo portando con sé un naturale
peggioramento delle condizioni di resa agricola e quindi dei livelli
di alimentazione e delle condizioni economiche, nonché, in
conseguenza, un aumento delle malattie epidemiche favorite
dall’abbassarsi dei livelli di difesa fisiologica negli esseri
umani; questo peggioramento coinvolse in egual misura i due grandi
imperi stanziali che si trovavano all’estremo occidente e
all’estremo oriente della massa continentale eurasiatica: Roma e
l’impero cinese.
Ciò aveva prodotto un
progressivo contrarsi dei livelli demografici e lo spopolamento di
alcune aree rurali, mentre in Asia centrale interi popoli nomadi,
l’economia e la sopravvivenza dei quali dipendeva dai pascoli dei
cavalli, dei cammelli e degli ovini, erano costretti a muoversi
cercando di spostarsi verso le aree periferiche del macrocontinente
eurasiatico, favorite da un più mite clima marittimo. Questi
spostamenti furono avvertiti dai due grandi imperi abitati da
popolazioni stanziali, dedite principalmente all’agricoltura, che
si affacciavano sul Pacifico e sull’Atlantico. Verso la fine del
primo millennio, un graduale miglioramento climatico invertì la
tendenza. Il progresso delle tecniche agricole di quest’epoca fu
accompagnato, a quanto sembra, anche da un miglioramento climatico
che in effetti si registra già dai primi del X secolo e che sciolse
anche i ghiacci del Mare del Nord, permettendo alle agili e leggere
navi vichinghe di giungere fino in Islanda e in Groenlandia.
Fin dal IX secolo da
molte parti dell’Europa giungono prove di un incremento
demografico, che sembrerebbe denunziare un aumento della famiglia
contadina. Il miglioramento climatico o può aver agito sulla
società, contribuendo alla crescita demografica, in due modi:
anzitutto grazie ai raccolti più abbondanti e alla fine delle
carestie causate dal maltempo; e poi anche a causa della diminuzione
delle malattie caratteristiche del clima freddo, che colpiscono
soprattutto i bambini. L’intiepidirsi dell’aria e il
miglioramento quantitativo del vitto non solo posero un argine alla
mortalità infantile (del resto molto forte in tutta l’età
preindustriale), ma alzarono in genere il livello della vita media.
Oltre a ciò, le meno dure condizioni di vita dovettero incoraggiare
le famiglie a diventare più numerose.
L’apice venne raggiunto
nel corso del Duecento, poi agli inizi del Trecento un nuovo
peggioramento. Nei primi due decenni del secolo, il continente
europeo dovette affrontare una fase di raffreddamento e di generale
peggioramento climatico. Le calotte polari presero di nuovo a
espandersi e lunghe annate caratterizzate da piogge e da umidità si
susseguirono sull’Europa, causando non solo l’infierire di
malattie da raffreddamento che colpivano in modo grave soprattutto i
bambini e gli anziani, ma anche una serie di cattivi raccolti
agricoli, con conseguenti carestie e lievitazione dei prezzi. Il
freddo e l’umidità portavano malattie e fame, ed entrambe queste
cose determinavano una destabilizzazione anche socio-economica
particolarmente forte tra i ceti meno abbienti che si trovavano già
in una condizione generale di debolezza.
Verso la metà del XIV secolo, l’arrivo della peste dovette sembrare a molti il culmine di una catena di disgrazie, spesso attribuite ai peccati dei cristiani. Di nuovo, fra fine del Cinquecento e inizi del Seicento, raffreddamento ed epidemie tornarono a intrecciarsi: è il periodo detto «piccola glaciazione», caratterizzato da una forte crisi della società; basti pensare che il fenomeno della caccia alle streghe trovò il suo culmine proprio in quei decenni. Se oggi sono le estati bollenti a angosciare in quanto segno del mutamento climatico (indotto e non, o non solo, naturale), nelle epoche di cui si è detto erano gli inverni a preoccupare.
L’inverno: stagione
centrale nella storia umana, potenzialmente minacciosa quanto
affascinante, merita che le sia dedicata un’opera specifica qual
è Inverno. Il racconto dell’attesa (il Mulino, pp. 210,
euro 15) di Alessandro Vanoli. Si tratta di una storia culturale, non
certo climatologica, perché sono le vicende umane a interessare: non
solo quelle legate ai momenti di crisi, ma anche gli inverni
«normali», che in certe aree potevano essere comunque terribili da
superare.
Si parte dalla
protostoria per arrivare al mondo classico cresciuto intorno al
Mediterraneo, dove gli inverni erano certo più miti che altrove, ma
abbastanza sentiti da lasciare belle tracce nella letteratura. Si
arriva all’alba dell’età moderna, quando è impossibile
sottrarsi al fascino degli inverni cristallizzati nella neve e nel
ghiaccio dei paesaggi di Bruegel; e poi sino alla contemporaneità,
con un occhio rivolto alle campagne di Russia: «il freddo come
alleato», si intitola un paragrafo dell’Inverno di Vanoli. A
chiudere il libro un invito alla scoperta di altri volumi che sono
serviti all’autore come ispirazione per i molti quadri che
compongono il suo lavoro. D’altra parte, è l’inverno a prestarsi
meglio di ogni altra stagione alla lettura.
Il manifesto – 2
gennaio 2019
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