03 gennaio 2019

IL CLIMA E L'UOMO



Il clima è spesso cambiato nel corso dei secoli con effetti importanti sulla vita delle persone e della società. Un libro racconta la storia “sociale” dell'inverno, fra le stagioni quella più complessa da gestire.

Marina Montesano

La stagione gelata, un cruccio nel corso dei secoli

Le stagioni e i cambiamenti climatici hanno giocato una grande influenza sulla storia umana, soprattutto nelle epoche preindustriali. Per esempio, nel corso del II secolo d.C. si era avviata una lunga fase di raffreddamento climatico dell’emisfero boreale del pianeta, che sarebbe culminata fra VI e VII secolo portando con sé un naturale peggioramento delle condizioni di resa agricola e quindi dei livelli di alimentazione e delle condizioni economiche, nonché, in conseguenza, un aumento delle malattie epidemiche favorite dall’abbassarsi dei livelli di difesa fisiologica negli esseri umani; questo peggioramento coinvolse in egual misura i due grandi imperi stanziali che si trovavano all’estremo occidente e all’estremo oriente della massa continentale eurasiatica: Roma e l’impero cinese.

Ciò aveva prodotto un progressivo contrarsi dei livelli demografici e lo spopolamento di alcune aree rurali, mentre in Asia centrale interi popoli nomadi, l’economia e la sopravvivenza dei quali dipendeva dai pascoli dei cavalli, dei cammelli e degli ovini, erano costretti a muoversi cercando di spostarsi verso le aree periferiche del macrocontinente eurasiatico, favorite da un più mite clima marittimo. Questi spostamenti furono avvertiti dai due grandi imperi abitati da popolazioni stanziali, dedite principalmente all’agricoltura, che si affacciavano sul Pacifico e sull’Atlantico. Verso la fine del primo millennio, un graduale miglioramento climatico invertì la tendenza. Il progresso delle tecniche agricole di quest’epoca fu accompagnato, a quanto sembra, anche da un miglioramento climatico che in effetti si registra già dai primi del X secolo e che sciolse anche i ghiacci del Mare del Nord, permettendo alle agili e leggere navi vichinghe di giungere fino in Islanda e in Groenlandia.
Fin dal IX secolo da molte parti dell’Europa giungono prove di un incremento demografico, che sembrerebbe denunziare un aumento della famiglia contadina. Il miglioramento climatico o può aver agito sulla società, contribuendo alla crescita demografica, in due modi: anzitutto grazie ai raccolti più abbondanti e alla fine delle carestie causate dal maltempo; e poi anche a causa della diminuzione delle malattie caratteristiche del clima freddo, che colpiscono soprattutto i bambini. L’intiepidirsi dell’aria e il miglioramento quantitativo del vitto non solo posero un argine alla mortalità infantile (del resto molto forte in tutta l’età preindustriale), ma alzarono in genere il livello della vita media. Oltre a ciò, le meno dure condizioni di vita dovettero incoraggiare le famiglie a diventare più numerose.

L’apice venne raggiunto nel corso del Duecento, poi agli inizi del Trecento un nuovo peggioramento. Nei primi due decenni del secolo, il continente europeo dovette affrontare una fase di raffreddamento e di generale peggioramento climatico. Le calotte polari presero di nuovo a espandersi e lunghe annate caratterizzate da piogge e da umidità si susseguirono sull’Europa, causando non solo l’infierire di malattie da raffreddamento che colpivano in modo grave soprattutto i bambini e gli anziani, ma anche una serie di cattivi raccolti agricoli, con conseguenti carestie e lievitazione dei prezzi. Il freddo e l’umidità portavano malattie e fame, ed entrambe queste cose determinavano una destabilizzazione anche socio-economica particolarmente forte tra i ceti meno abbienti che si trovavano già in una condizione generale di debolezza.

Verso la metà del XIV secolo, l’arrivo della peste dovette sembrare a molti il culmine di una catena di disgrazie, spesso attribuite ai peccati dei cristiani. Di nuovo, fra fine del Cinquecento e inizi del Seicento, raffreddamento ed epidemie tornarono a intrecciarsi: è il periodo detto «piccola glaciazione», caratterizzato da una forte crisi della società; basti pensare che il fenomeno della caccia alle streghe trovò il suo culmine proprio in quei decenni. Se oggi sono le estati bollenti a angosciare in quanto segno del mutamento climatico (indotto e non, o non solo, naturale), nelle epoche di cui si è detto erano gli inverni a preoccupare.

L’inverno: stagione centrale nella storia umana, potenzialmente minacciosa quanto affascinante, merita che le sia dedicata un’opera specifica qual è Inverno. Il racconto dell’attesa (il Mulino, pp. 210, euro 15) di Alessandro Vanoli. Si tratta di una storia culturale, non certo climatologica, perché sono le vicende umane a interessare: non solo quelle legate ai momenti di crisi, ma anche gli inverni «normali», che in certe aree potevano essere comunque terribili da superare.

Si parte dalla protostoria per arrivare al mondo classico cresciuto intorno al Mediterraneo, dove gli inverni erano certo più miti che altrove, ma abbastanza sentiti da lasciare belle tracce nella letteratura. Si arriva all’alba dell’età moderna, quando è impossibile sottrarsi al fascino degli inverni cristallizzati nella neve e nel ghiaccio dei paesaggi di Bruegel; e poi sino alla contemporaneità, con un occhio rivolto alle campagne di Russia: «il freddo come alleato», si intitola un paragrafo dell’Inverno di Vanoli. A chiudere il libro un invito alla scoperta di altri volumi che sono serviti all’autore come ispirazione per i molti quadri che compongono il suo lavoro. D’altra parte, è l’inverno a prestarsi meglio di ogni altra stagione alla lettura.

Il manifesto – 2 gennaio 2019

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