17 gennaio 2019

LA STORIA STRAORDINARIA DI JOYCE LUSSU



Joyce Lussu interviene in un comizio delle sinistre dopo la Liberazione
 La storia straordinaria di Joyce Lussu 

Laura Lilli

Seduta su una poltrona di vimini che le va giusta giusta, Joyce Lussu, 76 anni, indossa un ampio vestito marrone a fiorellini che sa vagamente di Tirolo. Sulla poltrona si appoggia indietro accavallando le gambe, si sporge in avanti accalorata, fuma due sigarette, beve un caffè, sorride a una nidiata di gattini acciambellati sul divano di fronte, fa un cenno alla nuora che le ha preparato il caffè. È a Roma per un giorno, per una lezione al liceo Visconti. Di solito vive nelle Marche, dove ha una casa di campagna sempre aperta agli amici.
“Mi piace cucinare per loro, cucinare in generale e mangiare. Una delle possibili storie della mia vita potrebbe essere quella del mio felice rapporto col cibo”. Così scrive anche all' inizio della sua autobiografia, Portrait (sottotitolo: Cose viste e vissute), pubblicato da Transeuropa con una raccolta di ben 116 fotografie che documentano la sua vita (pagg. 133 più foto, lire 26.000). Ma non si tratta, naturalmente, di un libro di cucina o di una storia casalinga. Al contrario, Joyce Lussu ha vissuto una delle più irriducibili e movimentate esistenze di contestatrice del nostro secolo: a partire dall'esilio a Parigi e dalla Resistenza, vissuta assieme al marito Emilio, lo scrittore rivoluzionario sardo, fino al Sessantotto europeo, alle rivolte di liberazione in Curdistan e in Angola, alla attuale militanza nei gruppi ecologisti.
Una grande e, a suo dire, divertente avventura politico-esistenziale. Perché divertente?
“Perché non sono i rischi che mettono in pericolo il nostro buonumore: è il nostro essere o meno in sintonia con noi stessi. A me, i miei genitori avevano insegnato a fare sempre quello che ritenevo giusto. A dar seguito alle intenzioni, insomma”.
I suoi genitori erano degli inglesi puritani?
“Non puritani, anche se certo non conformisti. Inglese, veramente, era mia madre; mio padre era italiano, con due nonne inglesi. Di tutte le donne della mia famiglia ricordo che calzavano comode scarpe basse e vivevano con determinazione. Determinazione che non mancava nemmeno a mio padre: figlio di un ricco proprietario terriero, si era ribellato alle consuetudini familiari, aveva tradotto Herbert Spencer, era vicino a Bertrand Russell: e a me tutto questo piaceva. Ho preso dalla famiglia un'imprinting psicologico-politico che non mi ha mai lasciato”.
E già la famiglia paterna cominciò ad aver noie coi fascisti...
“Oh, sì. Io personalmente cominciai a nove anni, perché fui sorpresa a scrivere sui muri Abbasso il fascio. Avevo dodici anni quando gli squadristi vennero a casa nostra. Si portarono via mio padre. Mio fratello quindicenne (lo storico Max Salvadori, ndr) li seguì di nascosto a distanza. Quando tornarono, mio padre era pesto. Dovemmo fuggire. Cominciò per noi una serie di peregrinazioni: prima in Italia (dove continuammo sempre ad andare e venire), poi all' estero. Trovammo un po' di pace in Svizzera, dove io frequentai una scuola inglese, forse finanziata da filantropi connazionali di mia madre, la Fellowship School. Amavo già tanto i cavalli, e in quella scuola li amai ancora di più”.
Cucina, cavalli... però poi sarebbe andata all' Università di Heidelberg.
“Lì aveva studiato anche mio padre. Era, allo stesso tempo, un ripercorrere il suo cammino e una possibilità di maggiore internazionalizzazione. Non essere provinciali era uno dei nostri motti. Tuttavia, in certo senso fu dura: vidi il nascere del nazismo da vicino. Nel maggio '32 Hitler annunciò il suo arrivo per un raduno. Io decisi di sfidarlo a un contraddittorio. Altro che contraddittorio! Già la notte prima la città fu invasa da nazisti con la divisa bruna, che occuparono strade e piazze accendendo bivacchi e cantando a squarciagola canzoni patriottiche. Durante la notte le canzoni patriottiche diventarono oscene, ma gli urli non smisero. Io e i miei amici cercammo di avvicinarci: Raus, raus! Fuori, Fuori!: ci cacciarono. Io corsi dai miei professori, i filosofi Jaspers e Rickert; ma mi delusero. 'Quando quei ragazzi si saranno sfogati, tutto tornerà come prima', dissero. La loro ottusità mi sconvolse. Tra le sue peregrinazioni italiane c'era anche la casa di Benedetto Croce a Napoli.... A Palazzo Filomarino bussai la prima volta quando avevo diciassette anni. In una borsa della spesa portavo un fascio di manoscritti: poesie, racconti, e un dramma in cinque atti a sfondo politico. Croce mi disse che avevo qualche talento (pubblicò una delle mie poesie sulla “Critica” e ne affidò una raccolta all'editore Ricciardi). Era piccolo, con la testa a pera e un grande naso. Leggeva così rapidamente che pareva succhiasse le parole. Era gentile, umano: personalmente ne ho un ricordo straordinario. Certo, fra le sue idee politiche e le mie non correva buon sangue. Pensava che le donne fossero inferiori agli uomini (io ero la classica eccezione), e aveva orrore del socialismo. Era un grande filosofo, ma anche un grande proprietario terriero, non molto diverso dai miei nonni a cui mio padre si era ribellato. Comunque, per tutta la vita siamo stati amici”.
E finalmente, a Ginevra, Joyce incontra Emilio Lussu, che viveva in clandestinità dopo una clamorosa evasione da Lipari. A Ponza, dove era andata a trovare suo fratello, i confinati le avevano dato un lungo messaggio scritto su una strisciolina di carta in caratteri minutissimi, da consegnare a Emilio Lussu e solo a lui, dovunque si trovasse. Joyce nascose il messaggio nel manico della valigia di fibra, e andò a cercare Lussu per l' Europa: Belgio, Alta Savoia e, appunto, Ginevra. Fu subito un grande amore.
“Lui fu sorpreso di incontrare latrice di pericolosi messaggi clandestini una ragazza di buona famiglia, proletarizzata dalla lotta e dall'emarginazione economica e sociale. Io, finalmente, mi trovavo davanti al prestigioso rivoluzionario: c'erano gli estremi, oltre che per un amore, anche per una robusta militanza comune. Ma dovetti aggiustargli intorno alla testa il concetto di casa. Non sarebbe stata, gli dissi, una palla al piede nella vita di un militante; al contrario, lui sarebbe stato uno scapolo molto più felice se avesse avuto una casa, una donna fissa e un figlio appena possibile. Vivemmo insieme nella Parigi degli esuli. Ma non che dal quel momento divenissimo inseparabili: ciascuno seguiva il ritmo dei suoi impegni. Io andai perfino a finire, in Inghilterra, in un campo-caserma per combattenti dei paesi occupati dalla Germania...”.
Però ha avuto figli, nipoti, è stata una delle antesignane del moto femminista
“Il privato è pubblico. Oh, sì. E il giorno più bello della mia vita è stato il 21 marzo del '71, quando è nato il mio primo nipote. Consiglio a tutti di diventare nonni. Che splendore l'infanzia rivisitata... Dopo l'instaurazione della legalità repubblicana, Joyce ed Emilio Lussu si stabilirono a Roma. Lui fu eletto senatore del Psi (era stato tra i fondatori del Partito Sardo d'Azione e di Giustizia e Libertà) lei continuò a suo modo l'intensa militanza politica. Andava alle assemblee di studenti nel '68. Ero sorpresa, dice, di essere l'unico adulto: quei ragazzi avevano speso tante energie per farsi sentire, e nessuno si chiedeva cosa gli passava per la testa?”.
Joyce Lussu negli anni 80 del Novecento
Lussu morì nel ' 75. Fu terribile, dopo più di trent'anni trascorsi insieme. Tuttavia Joyce non rimase a casa a sedere sulle ceneri del marito. Aveva scoperto i movimenti di liberazione del terzo mondo, e ci si recava di persona. Le origini sociali, l'aspetto, l'aiutavano. Quando voleva conoscere un guerrigliero (che poi era anche un poeta) che si trovava in Africa o in Curdistan, o in prigione come Agostinho Neto, futuro capo dell' Angola, a Barcellona, o in un luogo di operazioni di guerra, aveva una sua tecnica precisa per raggiungerlo. Andava dall'ambasciatore italiano a chiedergli come avrebbe potuto fare. Il diplomatico le rispondeva che solo un personaggio locale di altissimo rango, per lui irraggiungibile, avrebbe potuto darle un permesso o un salvacondotto. Allora lei ci andava, con l'implicito avallo dell'ambasciata, e ostentava una tale ignoranza di politica che alla fine li otteneva. Nel caso di Agostinho Neto, a cui nella Lisbona di Salazar portò un contratto della Mondadori, tornando in Italia con un fascio di poesie di Neto, riuscì a creare un putiferio internazionale. Salazar infatti fece dimettere il capo della polizia politica, e concesse a Neto la libertà vigilata. Irriducibile, Joyce tornò a Lisbona per conoscere Neto personalmente; e l'ambasciatore d'Italia Grillo, uomo di spirito, come lei scrive, diede un ricevimento a cui intervennero anche alcuni oppositori portoghesi del regime. Fu uno scandalo che rimbalzò fino al nostro ministero degli Esteri. Emilio Lussu, presidente della commissione esteri del Senato, sostenne che era dovere di un ambasciatore mettersi in contatto, nel paese in cui è in missione, anche con gli oppositori del regime, per conoscere la situazione. Ma molti non la pensavano come lui. Si dovette far ricorso al presidente della Repubblica, che era allora Saragat, per ottenere un sì. Comunque Joyce Lussu fu espulsa dal Portogallo, e l'ambasciatore Grillo fu trasferito in Cecoslovacchia.
Signora Lussu, Neto, come Nazim Hikmet, era un poeta. Lei ha tradotto molti poeti di cui non conosceva la lingua. Come ha fatto? La poesia è un veicolo di conoscenza profetico e sintetico.
“È conoscenza e comunicazione, non uno sterile gioco linguistico. Attraverso la poesia ho studiato mondi diversi molto meglio che attraverso volumi di saggistica. Ho passato dieci anni a tradurre poesia del terzo mondo: certo, lavorando solo con poeti viventi. Si trova sempre una lingua in cui intendersi, e il poeta spiega benissimo perché ha usato quella data parola, perché ci tiene. Non si traduce la poesia fra sintassi, grammatica e vocabolario. Io ho tradotto Nazim Hikmet col testo a fronte, e nessun turcologo ha trovato da ridire. Ho tradotto poeti esquimesi, guineiani, vietnamiti, albanesi: esprimono mondi diversi dal nostro, ma in fondo, poi, dicono tutti le stesse cose”.
È stata la poesia che l'ha trattenuta dal fare carriera politica in parlamento? Non le sarebbe certo stato difficile, specie negli ultimi anni.
“Non solo la poesia. Avrei dovuto accettare lo squallido gioco delle preferenze e avrei dovuto soprattutto accodarmi a un partito della sinistra storica: e sono ancora tutti troppo ideologici. Una cultura alternativa si viene formando solo adesso. Io faccio politica come ho sempre fatto: dal basso”.

la Repubblica, 11 maggio 1988

Nessun commento:

Posta un commento