13 gennaio 2019

GRAMSCI STUDIOSO DELLA CULTURA POPOLARE

L'immaginario rimosso dai «Quaderni del carcere». Cultura operaia, operetta, feuilletton e folklore in Gramsci 

Daniele Balicco



«Spesso a cuori e picche ansiose bocche/ chiedono la verità/ Principi e plebe vengono qua». Gramsci, nel 1918, già redattore dell'edizione piemontese dell'«Avanti!», canticchiava in continuazione questo refrain di un'operetta allora in voga, la Madama di Tebe di Carlo Lombardo. Ed era così appassionato di musica - adorava l'Operetta - che spesso scriveva gli articoli per il giornale solo dopo essere uscito da teatro a notte fonda sotto l'assillo disperato di Pastore che letteralmente glieli toglieva di mano dalla scrivania per mandarli subito in rotativa. Questo aneddoto, e molti altri, si possono piacevolmente ascoltare nel bel saggio sonoro che chiude l'ultimo lavoro di Cesare Bermani su Gramsci, intitolato Gramsci, gli intellettuali e la cultura proletaria (Colibrì, pp. 334, euro 19). Il volume raccoglie undici articoli pubblicati dal 1979 ad oggi e due Cd costituenti, per l'appunto, il saggio sonoro, appassionante ricostruzione della vita di Gramsci attraverso testimonianze dirette e documenti musicali. È bene ricordare subito che la storia orale, di cui Bermani è maestro indiscusso, mai come nel caso di Gramsci si rivela essere strumento conoscitivo congruente. E per almeno due ragioni. In primo luogo per la sua forma, perché la posizione di ascolto è il presupposto necessario della persuasione permanente. Gramsci, come tutte le testimonianze ricordano, sapeva ascoltare. La sua pedagogia - e si legga nel volume la bella testimonianza di Ettore Piacentini - partiva proprio dall'ascolto, era socratica, dubitante, persuadeva chiedendo continue precisazioni capaci di portare l'interlocutore fino alla coscienza di non sapere, primo e necessario passo verso una vera politicizzazione di se stessi. In secondo luogo, perché la raccolta di testimonianze dirette divenne, negli anni passati, strumento capace di aprire nuove strade all'interno di quel controverso campo di ricerca che furono gli studi gramsciani, per lo meno fin quando il Pci ne orientò studio e pubblicazione.
Certo, il quadro attuale è oggi profondamente mutato e un lavoro come quello di Bermani, così attento a ricostruire di Gramsci una fisionomia morale, intellettuale e politica altra rispetto a quella consegnata dalla vulgata togliattiana, può apparire eccentrico rispetto allo stato dell'arte della ricerca italiana contemporanea (basti solo pensare dove è stato relegato a Roma l'Istituto Gramsci, che, certo, per il peso internazionale che ha, in uno Stato serio, meriterebbe altri spazi, altre metrature, altra visibilità, altre strutture, altri fondi).
L'inattualità dell'impostazione di Bermani risponde quanto meno al sospetto che questo ridimensionamento della figura di Gramsci sia l'esito ultimo di una certa idea della conoscenza e dell'azione politica che il Pci e Togliatti promossero proprio attraverso la pubblicazione orientata degli scritti di Gramsci.
Del resto, se si dipana fino in fondo questo filo, l'evoluzione del Pci in Pds/Ds e oggi Pd appare sotto il segno della continuità, e non certo della frattura. Il lavoro di Bermani valorizza invece un altro Gramsci, anzitutto critico di un'idea di politica come categoria a se stante, attività separata. Si leggano le pagine dove l'autore ricostruisce il dibattito fra culturalisti e anticulturalisti e un Gramsci ancora giovanissimo già riflette sulla centralità dell'organizzazione politica della cultura intendendola come un terzo fronte di lotta accanto a quello economico e politico; o i due saggi pubblicati su «Primo Maggio» (Gramsci operaista e la letteratura operaia; Breve storia del Proletkul't italiano) dove emerge con chiarezza come Gramsci intenda la pedagogia politica in opposizione al modello didattico delle Università popolari del Psi; e come pratichi il suo ruolo di dirigente politico nella conoscenza diretta della vita operaia e dell'organizzazione del lavoro nella grande fabbrica.
Il punto di partenza della politica sta dunque nella capacità di leggere nei depositi creativi del senso comune, forme da liberare, educare, organizzare, universalizzare; e da non reprimere. Certo, è questo un Gramsci visto attraverso le lenti di quello straordinario laboratorio di etnografia politica della cultura popolare italiana che è l'Istituto Ernesto De Martino (e non a caso il volume di Bermani si chiude proprio con il saggio Due letture non canoniche degli scritti di Antonio Gramsci, un omaggio dello storico orale ai suoi maestri, Bosio e de Martino). Ma è proprio in questo Gramsci che si possono ancora trovare strumenti capaci di scardinare la narcosi mediatica del nostro presente. È incredibile, infatti, che in un universo culturale dominato senza controforze dalla propaganda - che è l'espressione della violenza politica nella comunicazione - nessuno senta il bisogno di tornare, anche solo come ricognizione preliminare, a riflettere su ruolo degli intellettuali, organizzazione della cultura, egemonia; e su come il senso comune riveli sempre, come l'iride, lo stato di salute del mondo sociale.
Nella stessa direzione si muove un altro bel volume da poco pubblicato da Carocci (Frammenti indigesti. Temi folclorici negli scritti di Antonio Gramsci, pp. 267, euro 19). L'autore è Mimmo Boninelli, collaboratore come Bermani, dell'Istituto Ernesto de Martino.
Scritto con un'attenzione minuta ai dati propria della grande tradizione filologica militante di Gianni Bosio, Boninelli cerca di capire se le note Osservazioni sul Folclore presuppongano in Gramsci una passione e una conoscenza approfondita della cultura popolare e folclorica italiana. Sei sono gli argomenti attraverso i quali l'intero corpus degli scritti di Gramsci (pagine giovanili, scritti politici, Lettere e Quaderni) è passato al setaccio: Sardegna e mondo popolare; religione popolare, credenze, magia; proverbi e modi di dire; narrazioni e storie; canti popolari e della protesta sociale; teatro popolare, teatro dialettale. Attraverso questo spoglio incrociato, emerge un'immagine sorprendente del pensatore sardo come curiosissimo osservatore e critico della vita quotidiana.

Il manifesto, 30 maggio 2008

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