Funerale del commissario PS Tandoy
Il delitto Tandoy (1960) è un
capitolo importante della storia “mafiosa” siciliana e dei rapporti
mafia-politica. Cataldo Tandoy, commissario di polizia e capo della Squadra
Mobile di Agrigento, viene ucciso nella città dei Templi alla vigilia del suo
trasferimento a Roma. Le prime indagini cavalcano la pista “passionale”: la
moglie del Tandoy, Leyla Motta, aveva una relazione con lo psichiatra Mario La
Loggia, direttore del manicomio di cui solo in seguito si conosceranno gli
orrori. Il La Loggia era fratello di Giuseppe La Loggia, il capo della corrente
fanfaniana in Sicilia, un vero e proprio vicerè dell'uomo politico aretino che
era in quel momento all'apice della sua potenza, ed era esponente di primo
piano della DC ad Agrigento. Quella indagine si rivelò un depistaggio, ma colpì
duramente le fortune politiche del clan La Loggia. Giuseppe, di cui è
tramandata la buona competenza in materia di legislazione finanziaria, passò in
seconda fila nella politica regionale; ebbe poi, come deputato, un ruolo nella
Dc nazionale e nell'attività parlamentare. La guida in Sicilia della corrente
fanfaniana passò in mano alla coppia palermitana Lima-Gioia, al tempo stretti
alleati e spalleggiati dal corleonese Ciancimino. In provincia d'Agrigento la
corrente dei La Loggia si indebolì a favore di quella di Di Leo e Giglia.
Nel 1963 le indagini sul “caso
Tandoy" ebbero la svolta che l'articolo qui ripreso racconta. Giorgio
Frasca Polara non si limita a riferire le notizie, ma collega, connette, rivela
retroscena, fa previsioni; soprattutto quella che – ancora una volta –
sarebbero “volati” gli stracci senza arrivare ai capi e ai mandanti, previsione
che regolarmente si verificò. Intanto arrivò la frana che mise in luce quali
devastazioni era in grado di produrre la commistione tra mafia, affarismo e
politica.
Frasca Polara, giornalista di razza
e scrittore, e “l'Unità” di quegli anni (il quotidiano era diretto da Alfredo
Reichlin) possono rappresentare tuttora un esempio di rigoroso giornalismo
antimafia, in un tempo in cui non solo i quotidiani siciliani, ma anche le
grandi testate nazionali erano campioni di reticenza. (S.L.L.)
Agrigento anni '60: il caso Tandoy e la mafia.
di Giorgio
Frasca Polara
Cataldo Tandoy, il commissario di
P.S. ucciso con due colpi di pistola la sera del 30 marzo del ’60 era un
ricattatore. Conosceva tutte le vicende 'criminose' della provincia di
Agrigento, gli autori di decine di omicidi, compresi quelli di carattere
schiettamente politico, poteva mandare in galera una folla di assassini e di
grossi personaggi della vita politica agrigentina. Per questo è stato ucciso.
Gli assassini materiali e gli uomini che facevano da collegamento con i
mandanti — dei quali ancora, si tace il nome, tentando di ignorarne resistenza
— sono già stati arrestati e probabilmente si accolleranno, pena la morte, la
responsabilità completa ed esclusiva del delitto.
Questi, per sommi capi, gli elementi
che stanno trapelando dal Palazzo di Giustizia dove, da questa estate, un
magistrato della Procura generale della Repubblica di Palermo ha ripreso le
fila delle indagini sul clamoroso delitto di tre anni fa.
La prima fase delle indagini si è
conclusa con la denunzia di nove mafiosi di Raffadali i quali — stando alla
tesi della Procura — avrebbero architettato e compiuto il delitto per eliminare
il solo uomo che conosceva i loro crimini. Secondo la Procura Generale la
causale del delitto risale ai contrasti tra i mafiosi di Raffadali scoppiati
intorno alla vendita di alcuni feudi della zona. Ma al di là del fatto di
cronaca, i nuovi sviluppi del caso Tandoy consentono di aprire più di uno
spiraglio su una scena costellata di commissari corrotti, di giudici indiziati
di omicidio, di poliziotti-delinquenti, di mandanti ancora nell’ombra; uno
sconcertante panorama, insomma, sul quale al più presto la commissione
parlamentare antimafia dovrà porre la massima attenzione, per accertare i
palpabili collegamenti tra potere politico, organi amministrativi e cosche
mafiose.
Ma torniamo, intanto, alla tesi
della magistratura. A Raffadali, nell’immediato dopoguerra, i mafiosi avevano
costituito un fronte unitissimo in difesa dei feudi. Del fronte facevano parte,
tra gli altri, Giuseppe Terrazzino (detto « Peppe Catamba»), Nino Galvano
(detto «Zarbo»), Gérlando Milia, i fratelli timbrici. Nino Bartolomeo e altri
che, più tardi, ritroveremo come preziosi galoppini della DC agrigentina e, in
particolare, dell’onorevole Di Leo e dell’onorevole Giglia, nonché amici intimi
di alcuni sottufficiali della stazione dei carabinieri del loro paese.
L’unità del gruppo va in malora
quando, sollecitati dalla preoccupazione degli espropri per l’attuazione della
riforma agraria, i proprietari terrieri cominciano, tra il ’48 e il ’49, a
cedere almeno una parte, dei loro feudi, incaricando i mafiosi di occuparsi
delle compravendite e delle transazioni. L’interesse, man mano che il giro
degli affari si allarga. divide i mafiosi. Scoppia la crisi e si susseguono i
delitti. La serie degli omicidi viene aperta da Stefano e Antonino
Tuttolomondo; poi, nel ’51, viene ammazzato Milia; nel ’52 prima il mafioso
Piriano e subito dopo «Zarbo». Si salvano i Limbrici, un fratello di Galvano,
il Bartolomeo e Giuseppe Terrazzino. Questi, malgrado i precedenti penali ma
grazie ai vincoli di amicizia con Tandoy, riesce ad aprire un bar in una zona
centralissima di Agrigento.
Il commissario, - che nel frattempo
è diventato capo della Mobile, si occupa a lungo della catena di delitti, ma non
arresta nessuno, pur sapendo tra l’altro che la vicenda delle terre non è che
una delle componenti, e probabilmente neppure la più importante, dei vasti
interassi della mafia agrigentina (traffico della droga, espatri clandestini,
terrorismo antipopolare, continua azione di sostegno alla DC e ai suoi più
famosi notabili). Ma Tandoy ha la memoria lunga e va in cerca di quattrini. Può
ricattare molta gente, soprattutto ora che — siamo giunti alla primavera del
’60 — sta per essere trasferito a Roma.
Siamo in grado di affermare che
polizia e magistratura hanno in mano gli. elementi che confermano questi fatti
e, in particolare, la doppia vita del commissario capo Tandoy, amico della
famiglia La Loggia, dell’onorevole Di Leo e persino di Genco Russo (in favore
del quale si adoperò per far sgombrare dagli affittuari le terre che il
capomafia e consigliere comunale d.c. di Mossomeli aveva comperato a Canicattì)
amico di mafiosi grandi e piccoli, poliziotto intemerato all’esterno,
ricattatore consumato per le sue vittime.
Crimine in appalto
Certo è che, ad un tratto, la mafia
decide di regolare i conti con Cataldo Tandoy, l’uomo che andava chiudendo nei
cassetti della sua casa enormi cifre di denaro, come ha accertato la
Magistratura. L’appalto del crimine — secondo la tesi della Procura generale —
viene dato a Nino Bartolomeo e a Giuseppe Galvano i quali si incaricano di
trovare gli esecutori materiali in Giuseppe Baeri e nei fratelli Luigi e Santo
Limbrici. Contro i cinque e altre figure secondarie è stato spiccato, verso la
fine dell’estate, mandato di cattura. Santo Limbrici è stato arrestato, tramite
l’Interpol, a Boston; gli altri — tranne Terrazzino che è ancora latitante —
sono già rinchiusi nel carcere di Agrigento.
Sin qui la tesi che, probabilmente
entro pochi giorni, la magistratura renderà ufficiale. Essa non farebbe una
grinza se non ci fossero un “suicidio” in più e molti altri interrogativi che.
almeno sino a questo momento, Tanno restare assolutamente nell’ombra
circostanze assai importanti e forse decisive.
Cerchiamo di spiegarci. Se da questi
elementi emerge con sufficiente chiarezza che, dopo 43 mesi di equivoci
artatamente suggeriti, di suggestioni e di piste false, la strada buona è stata
finalmente imboccata non è però da sottacere il rischio che questa strada non
sia percorsa sino in fondo. Per impedire che questo accada riteniamo doveroso
rendere note tutte le informazioni di cui siamo venuti in possesso e che danno
un quadro esplosivo della vicenda.
Diciamo subito che la soluzione del
mistero della morte di Cataldo Tandoy è legata ad un «suicidio» alla siciliana
— del genere di quello di Pisciotta, - per intenderci —. avvenuto nella cella
di isolamento. numero otto della II sezione del carcere agrigentino di San
Vito. In quella cella, a metà agosto di quest’anno, fu rinchiuso un giovane
agricoltore di Raffadali, Carmelo Nocera, galoppino del 'deputato democristiano
al Parlamento nazionale Di Leo.
Il Nocera era una figura secondaria
di quel mosaico che, proprio in quei giorni, la magistratura andava componendo
per venire a capo del caso Tandoy. Un giorno, all’inizio di settembre, dopo il
rancio delle 13, il Nocera chiese un secondo piatto di minestra. Quando la
guardia tornò nella cella con la brodaglia il detenuto era morente. «Si è
impiccato », avrebbe detto poco dopo il medico del carcere.
Con che cosa si «era ucciso »
Carmelo Nocera? Le versioni sono contrastanti e smentite una dopo l’altra.
Dapprima si parla di una stuoia da
cucina, poi di «numerosi» fazzoletti, infine di un fazzolettone da contadini.
Ma l’unico mezzo per accertare la verità sulla strana morte — e cioè l’autopsia
— viene scartato e il cadavere, quasi di soppiatto, è restituito alla famiglia
per le esequie. «Lo hanno suicidato» è il commento della gente. E i precedenti
analoghi parlano chiaro in Sicilia: l’avvocato - capobanda Giuseppe Ortoleva,
diabetico, ammazzato in carcere con una pera... troppo zuccherina; Gasparino
Pisciotta, ammazzato nell’Ucciardone con il caffè alla « stricnina; Angelino
Russo (banda Giuliano) morto in cella dopo avere bevuto un bicchiere di vino «
tagliato » con la cicuta; Carmelo Lo Bartolo, guardiano del convento di
Mazzarino, «impiccatosi» in cella ad una corda - fissata ad una trave a poco
più di un metro da terra; il bracciante La Rosa strozzato nel carcere di
Mazzara del Vallo. ‘
In realtà Carmelo Nocera fu
ammazzato perché si era rifiutato di accollarsi la corresponsabilità del
delitto Tandoy. Anzi c’è anche chi ha avanzato un preciso sospetto - circa l’assassino
del detenuto: potrebbe essere la guardia carceraria addetta alla II sezione,
compaesano del Nocera.
Tandoy conosceva molto bene non
soltanto le vicende della malavita di Raffadali, ma quelle di tutta la
provincia. Quando cominciò a lavorare ad Agrigento, nell’immediato dopoguerra,
era un poliziotto pieno di entusiasmo e ricco di doti. Fu lui ad agguantare gli
assassini di Accursio Miraglia, il segretario della Camera del Lavorò di Sciacca
ucciso nel gennaio del 1947 dai sicari degli agrari. Ma questa fu la prima e
l’ultima volta in cui Tandoy cercò di andare a fondo nelle vicende della mafia
della provincia. Infatti gli assassini, che furono in seguito prosciolti dalla
magistratura, denunciarono il commissario accusandolo di avere estorto le loro
confessioni con la tortura. Ed è questo, probabilmente il nodo che spiega il
successivo atteggiamento del commissario che sa tutto di tutti, ma non mette in
galera nessuno: né gli assassini dei dirigenti sindacali e politici (tra
questi,“sono, oltre a 26 segretari di Camere del Lavoro e capilega comunisti e
socialisti, anche quattro democristiani caduti nella lotta senza quartiere tra
le fazioni del loro partito) né i protagonisti delle più feroci faide maliose,
come quella, per esempio, di Raffadali.
Come si vede ce n’è abbastanza per
collocare la figura di Tandoy al centro di interessi ben più vasti e ben al di
là della ristretta cerchia maliosa di Raffadali; e ce n’è abbastanza anche per
ritenere che il delitto sia maturato in ambienti ben più «qualificati» di
quelli di un piccolo centro agricolo. In realtà sembra evidente che le vicende
della: piccola cosca di Raffadali sono state strumentalizzate da un grosso
cervello e che a questi uomini si voglia attribuire ogni responsabilità - per
coprire quella dei mandanti.
Bastano pochi fatti a dimostrarlo.
Ricordate quando, subito dopo il delitto, e partendo dallo scabroso ménage tra
la moglie di Tandoy e Mario La Loggia (fratello dell’ex presidente della
Regione), un magistrato dalla fertile fantasia credette di individuare nella
vicenda i presupposti di un delitto passionale e si ritrovò, più tardi, con un
pugno di mosche in mano? Sino a che punto il cherchez la femme era stato
ispirato da un regista capacissimo, in grado di suggestionare l’opinione
pubblica e di orientare cosi l’andamento stesso delle indagini con il preciso
scopo di fuorviarle dall’unico binario utile?
Certo è che, nel corso di questi
preziosi tre anni e sfruttando le indecisioni non sempre facilmente spiegabili
della polizia e della magistratura, i veri mandanti del delitto — tutt’altro
che passionale, dunque — , hanno avuto la, possibilità di far scomparire le
loro tracce e di organizzare prima l’esodo degli esecutori materiali, poi una
sottile ed abilissima distorsione dei fatti per accreditare la tesi — che è
ormai sul punto di- diventare ufficiale — secondo la quale il delitto è appunto
il frutto del «regolamento dei conti» in sospeso tra i mafiosi di Raf-fadali e
il commissario ricattatore.
Un «suicidio» da chiarire
Questo elemento in realtà esiste,
come si è visto, ma è soltanto la molla che. ha fatto scatenare un disegno più
vasto al quale erano interessati tutta la mafia agrigentina e, obiettivamente,
quegli uomini del partito democristiano più compromessi con le cosche.
A riprova di ciò si hanno le
sconcertanti circostanze che rivelano quale vasto apparato sia stato posto a
disposizione della piccola cosca di Raffadali. Intanto il gruppo non è isolato,
ma trae vita e vigore dallo stretto rapporto che lo lega all’apparato
provinciale deila DC e anche a quello locale. Tanto e vero che, nel corso delle
indagini, la Procura. aveva disposto l’arresto del giudice conciliatore - . di
Raffadali, Vincenzo Di Carlo, che da venti anni è segretario della sezione
democristiana del paese. Soltanto in un secondo tempo il Di Carlo è stato
rilasciato e destituito dalla carica che ricopriva — sembra incredibile, - ma -
e pur troppo vero — nell’amministrazione della giustizia.
Basterà poi aggiungere che Santo
Limbrici subito dopo il delitto è fuggito negli Stati Uniti con la assistenza
della polizia! Un cugino di Nino Galvano, «Zarbo», ammazzato nel 1952, era
infatti come maresciallo di P.S. nell’ufficio passaporti della questura di
Palermo prima che scoppiasse lo scandalo di questa estate e fosse arrestalo. Il
maresciallo in persona consegnò al Limbrici il documento falso con il quale il
« killer » riuscì a mettere piede in America.
In tutta questa faccenda, il
misterioso « suicidio » di Carmelo Nocera ha una sola spiegazione. Sollecitati
— da chi? ecco il drammatico quesito che la magistratura ha evitato di porsi —
ad accollarsi la piena e completa responsabilità dell’ideazione e soprattutto
della esecuzione del delitto Tandoy, non tutti i mafiosi arrestati si sono
dichiarati disposti ad accettare l’imposizione. Il Nocera, in particolare, ha
alzato la voce, ha minacciato di spiattellare la verità al magistrato, di fare
il nome del mandante, di compromettere nella vicenda quegli uomini che sono
riusciti sino ad ora a manovrare tutto, restando nell’ombra.
A questo punto Nocera, il testimone
incomodo e pericoloso, è stato ammazzato. Se non si fa luce su questo «suicidio
» il caso rischia di chiudersi senza raggiungere chi ha tenuto le fila della faccenda
sin dall’inizio.
“l'Unità”, 23 ottobre 1963
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