La globalizzazione capitalista e neoliberista produce insicurezza, razzismo e fascismo. Lo sperimentiamo ogni giorno nelle nostre città e non solo in Italia. (fv)
L’insicurezza del lavoro e le passioni tristi. Contributo per una riflessione antifascista
C’è tra gli esseri umani, almeno
quelli fuoriusciti dall’egemonia del pensiero magico o di quello religioso, la
credenza che una buona diagnosi sia indispensabile per una cura efficace. Fuor
di metafora, se abbiamo capito cosa è successo a Macerata e dintorni, potremmo
cercare di situare l’evento specifico in uno scenario che gli fornisca maggiore
intelligibilità. Non so poi, in realtà, se un tale tentativo possa favorire in
alcun modo migliori interventi terapeutici.
Quello che abbiamo visto a Macerata
e dintorni è il palesarsi di un terrorismo politico di matrice razzista e
neofascista, giustificato dalle forze politiche della destra che
concorrono oggi alle elezioni legislative. Non solo, ma questa giustificazione
ha una solida base nella società “civile”. (Non ho voglia di fare giochi di
parole, mi limito alle virgolette.) Quanto non può essere sottovalutato
nell’attentato di Macerata è che, intorno ad esso, si saldano per la prima
volta con forza elementi diversi: l’ideologia razzista (che caratterizza la
propaganda leghista dalle origini), l’ideologia nazifascista (che apparteneva
ancora un decennio fa a gruppuscoli marginali), il populismo autoritario di
Berlusconi (vecchio di più di vent’anni) e per finire un passaggio all’atto
terrorista (tentata strage su cittadini inermi), rivendicato teatralmente in
quanto tale. A ciò si aggiunga il fattore decisivo, l’imminente consultazione
elettorale per il governo del paese. (Nella storia italiana, il fascismo
mussoliniano ha avuto strada aperta nelle istituzioni dello stato anche grazie
a un cinico, idiota, argomento di realpolitik: meglio averli dentro il governo,
che fuori nella strade a provocare tafferugli.)
Mi fermo qui, perché non è mio
interesse valutare le conseguenze politiche prossime di tutto ciò, né il clima
“recente” che ha potuto favorire una tale situazione. Provo a fare qualche
passo indietro dalla scena del crimine. Una volta, nel vocabolario marxista,
che era un vocabolario di lotta sindacale e partitica, si parlava di contraddizioni
principali e contraddizioni secondarie. Oggi, tutto ciò che esce da quel
vocabolario, a meno che non venga formulato entro gruppi di fedelissimi, suona
di fronte a un uditorio più vasto come un frammento di enigmatica e
affascinante dottrina patristica. Ma quella faccenda di contraddizioni
principali e secondarie non si può, malgrado tutti i rischi d’incomprensione,
liquidare.
Proviamo quindi a mettere a fuoco
(ancora una volta) uno scenario più vasto. L’insicurezza che i cittadini delle
attuali democrazie liberali d’occidente conoscono è per lo più quella
legata alle condizioni lavorative e salariali. La battaglia che tutti noi
abbiamo combattuto o continuiamo a combattere, e con esiti diversi a seconda
dei destini e delle occasioni sociali, è quella relativa al lavoro: come
trovarlo, come tenerselo, come renderlo più tollerabile rispetto ai sogni di
felicità personale e familiare, come renderlo più redditizio in termini di
retribuzione salariale. L’insicurezza delle nostre vite, l’eterna minaccia che incombe
sui nostri progetti, da quelli più importanti e coinvolgenti (scegliere il
luogo in cui vivere, avere dei figli, ecc.), a quelli secondari (adattare alle
nostre esigenze lo spazio domestico, realizzare delle vacanze, ecc.), dipende
dagli esiti di questa battaglia. Alcuni sono consapevoli di averla persa, e
molto rapidamente; per altri è una condizione perpetua, una sorta di guerra di
posizione sfiancante tra arretramenti e avanzamenti; altri ancora – una cerchia
molto più ristretta – sentono di averla vinta, e godono di una relativa
sicurezza.
La novità storica di questa
condizione di battaglia per la sicurezza personale e familiare è che essa non
esce più, se non a sprazzi e in maniera passeggera, da una dimensione
individuale, ossia competitiva. Ciò che noi scontiamo, e non solo come
lavoratori di una certa classe, ma come società nel suo insieme, è la rottura
di un fenomeno pendolare nel mondo bellicoso del lavoro e del salario. La
battaglia per il lavoro nel corso della lunga storia dei movimenti, dei
sindacati, delle associazioni e dei partiti operai, ha sempre avuto almeno un
duplice versante: quello della competizione individuale e quello della
solidarietà collettiva. Quando il pendolo oscillava dal lato della solidarietà,
tutti gli affetti gioiosi e tristi della guerra di tutti contro tutti sul luogo
di lavoro si orientavano verso quella che è stata chiamata lotta di classe.
Questa conversione di energie fisiche e spirituali è stato un vero miracolo
conoscitivo e un progresso per l’intera umanità, di cui tutti dovremmo essere
grati non solo al marxismo, ma a tutte le altre componenti ideologiche che
l’hanno a vario titolo sostenuta.
Oggi non solo tutte le passioni
gioiose (di riuscita, di affermazione di sé, di volontà di potenza) sono
assaporate nel cerchio del destino individuale, ma anche tutte le
destabilizzanti passioni tristi (paura, rabbia, frustrazione). Il veleno
emotivo prodotto dalle battaglie quotidiane, sia che siano state vinte o perse,
o che abbiano garantito il semplice equilibrio, non trova nessuna forma di
catarsi collettiva, di condivisione e trasformazione. Questo veleno ci uccide a
fuoco lento, anche quando non ci uccidono gli insuccessi palesi sul campo. Il
pendolo delle passioni si è bloccato, la solidarietà della classe lavoratrice è
svaporata e tutto ciò in seguito a una storia specifica, a una concatenazione
di eventi, forse neppure troppo lineari, che vari studiosi marxisti e non hanno
cercato in questi anni di ricostruire.
Vivere in una società
ipercompetitiva come la nostra, è un incubo per tutti, questo è chiaro. Winner
e looser: abbiamo pensato a lungo che questo schematismo un po’
barbaro fosse una specialità esclusivamente statunitense. Oggi, in Europa,
siamo in grado di dimostrare di essere all’altezza di questa concezione così
poco sociale di società. L’ipercompetizione non è solo una situazione concreta,
che può essere verificata su quasi ogni luogo di lavoro: “se entro io, esce
lui” o viceversa. È anche un sistema mentale, che assegna a tutti l’imperativo
di distinguersi, di avere una qualche forma anche decaduta di successo, proprio
quando le condizioni materiali della vita diventano sempre più incerte. Un tale
sistema può funzionare se gonfia esageratamente le passioni gioiose di riuscita
individuale e rimuove dalla scena quelle tristi. I tristi non hanno tempo di
parola, accesso alla visibilità mediatiche, sono ininteressanti. (Chi perde,
insomma, ha sempre torto.) Ciò che invece galvanizza è l’elenco ininterrotto
non delle “persone di successo”, ma dei “momenti di successo” delle persone. Si
va prelevare minuziosamente ogni singola passione gioiosa per esporla,
amplificarla, saturarla, così come i programmi di elaborazione delle immagini
permettono di fare con i colori.
Chi si occupa delle passioni tristi,
ricadute nel cerchio angusto, della sfera individuale? Le passioni tristi non
sono mica cose “fotogeniche”, adatte alla spettacolo, alla spensieratezza, allo
sfavillio delle luci. È materia incandescente e torva, sono cose di cui ci si
vergogna e che si vorrebbe espellere da sé. Hanno del mostruoso le passioni
tristi, per questo nessuno ne parla, gli vuole dare udienza, visibilità.
Qualcuno però ha capito che queste
cose nascoste, oscene, intrattabili, possono essere straordinariamente
redditizie. Qualcuno ha cominciato a capire che sullo smaltimento dei rifiuti
affettivi individuali si può erigere un impero politico. C’è una straordinaria
merda che qualche cinico e spietato magone può trasformare in oro elettorale.
Tutti gli scarti affettivi che il mondo del lavoro produce, nell’attuale
organizzazione della società capitalistica, sono stati lasciati alle imprese di
smaltimento razziste e fasciste. Qui, però, vado già troppo velocemente, salto
passaggi, prendo scorciatoie. Affinché l’impresa di smaltimento degli affetti
tristi prenda la piega che ha preso oggi in Italia (e non solo in Italia), ci
vogliono diverse precondizioni. Una almeno provo a formularla.
Non è vero che il razzismo sale dal
popolo allo stato, e che lo stato, colpevole, se ne fa penetrare. Il razzismo,
come affetto personale, come passione triste individuale, è sempre legato a una
tara cognitiva, che la gente mediamente non possiede. È la tara delle
generalizzazione indebita. Un po’ di buon senso guarisce questo errore
cognitivo, che potremmo essere portati a fare in ogni ambito della nostra
esperienza quotidiana. Questa mousse di salmone mi ha intossicato, tutte le
mousse di salmone sono tossiche. Ovviamente, ci sono stati sempre dei gruppi
ristretti di persone adepti della tara cognitiva, ma ciò probabilmente in
ragione di altre circostanze molto specifiche. La crescita del razzismo come
fenomeno di portata sociale non mi sembra essere legato alla vicenda di focolai
ristretti di tale tara cognitiva, che poi – per contaminazione progressiva di
insiemi più grandi – divenga un’attitudine popolare diffusa, e come tale
destinata a trasmettersi anche alle istituzioni. Questo è probabilmente uno dei
modi, attraverso cui il razzismo si diffonde e moltiplica. L’altro riguarda
l’uso politico delle passioni tristi, che giacciono generalmente inutilizzate
nelle cavità cupe della sfera privata. Ma vi è anche il razzismo organizzato
dall’alto, per fini economici, di sfruttamento. È un sistema di discriminazione
che funziona a cavallo tra istituzioni e imprese, e che salvaguarda in vario
modo l’idea di una gerarchia “naturale” esistente nell’esercito della forza
lavoro, gerarchia che assegnerebbe a gruppi specifici di persone (identificati
per genere, etnia, religione o cultura) dei lavori scarsamente retribuiti. Non solo
in Italia, ma anche in altri paesi europei, l’invenzione giuridica
dell’immigrato illegale, che non data da alcuna emergenza geo-politica, offre
all’imprenditoria privata e persino pubblica un esercito di forza lavoro a
costi ridottissimi. Il campione assoluto della flessibilità sognata dal
più audace sostenitore del neo-liberismo è il lavoratore irregolare. Con lui,
tutti gli stramaledetti vincoli delle democrazie-liberali nei confronti delle
forme pre-moderne di servitù, posso finalmente saltare. La responsabilità
statale e imprenditoriale è quindi decisiva nel creare una prima condizione
tangibile di diversità (è uomo sì, ma non cittadino, è lavoratore sì, ma
fuorilegge) su cui la speculazione ideologica e politica razzista eserciterà la
sua presa.
Ma il meccanismo di discriminazione
di natura economica, e quello vittimario di natura ideologica, non devono farci
dimenticare cosa costantemente deve nascondere il discorso xenofobo e razzista.
Ogni volta che parlo di immigrati non parlo di lavoro, ogni volta che parlo
dell’insicurezza che deriverebbe da una minoranza straniera, taccio
sull’insicurezza che la maggioranza sperimenta ogni giorno sul luogo di lavoro.
In tutto ciò, quello che rimane reale nella fantasmagoria razzista sono le
passioni tristi, perché quelle sono già lì prima che lo straniero
compaia, prima che il capro espiatorio sia stato designato. Sono quelle che ci
portiamo dentro anche noi, con imbarazzo, anche se non cediamo alla tara
cognitiva e all’espulsione indiscriminata della rabbia.
Anche noi siamo incazzati. E abbiamo
un vantaggio su tutti i razzisti e i neofascisti: abbiamo individuato il
nemico, quello autentico. Sappiamo cosa produce la nostra insicurezza e quindi
paura, rabbia, frustrazione, vergogna. Ma abbiamo per ora un grosso, terribile
svantaggio. Non sappiamo come condividerle e orientarle in una lotta giusta,
che non sia solo fatta di rabbia, ma anche di gioia, non solo di paura, ma
anche di speranza, non solo di vergogna, ma anche di orgoglio. Il raggio delle
condivisione è sempre troppo corto. E ciò che si condivide è ancora troppo
gioioso. Anche le nostre di passioni tristi rimangono troppo spesso ignorate,
raminghe, inutilizzabili.
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