25 febbraio 2018

V. CONSOLO VISTO DA SEVERINO CESARI



“Nottetempo, casa per casa”

Un lume acceso nella notte di pece e di piume.
Dal «Sorriso dell’ignoto marinaio» al messia nero

di  Severino Cesari
Del romanzo di Vincenzo Consolo Nottetempo, casa per casa, che accosta e forse supera le sue narrazioni maggiori: Il sorriso dell’ignoto marinaio, 1976, e Retablo, 1987, stupisce non la chiacchierata complessità (tematica, stilistica) quanto la assoluta semplicità. Basta leggere, e purché non si confonda il linguaggio chiamato barocco, forma della precisione, con il gusto novecentesco per l’ornamento e il superfluo. Tutto qui è invece di spartana necessità. Lo scontro letterario considerato attuale è tra Verga e D’Annunzio. La scena è storica, con meticolosi dettagli che balenano al punto giusto, fili d’oro nell’ordito: Cefalù negli anni ’19, ’20 e ’21 del secolo, l’avvento del fascismo mentre il mago e satanista Aleister Crowley (la «Bestia») sbarca in Sicilia per fondare il suo tempio erotico-eretico, e gli anarchici invece, per definizione, se ne vanno (in Tunisia, in questo caso), sullo sfondo di più gigantesche migrazioni, con la grande industria nascente e i mestieri però ancora saldi e sapienti.
La tesi, o l’intuizione: quegli anni di passaggio e di generale follia sono non identici, ma analoghi ai nostri, di grande mutazione. Il romanzo è la trasformazione di questo teorema in un mondo coerente e minuzioso, evocato alla vita da un linguaggio che si fa foglia, apparizione, movimento lieve del vento, imprecazione, polifonia, arcaismo, arabismo, citazione, pertinenza di ogni lingua parola e nome, con amore ascoltati, con attenzione, a restituire la realtà, subitanea, impressionante, del colpo di zoccolo di un cavallo sulla pietra nel silenzio meridiano che non abbiamo mai conosciuto, la materna presenza della pomelia, o plumelia, «il fior bianco e avorio» - che carissimo dev’essere agli scrittori siciliani se anche di recente l’ha eletto protettore del suo Cambio di stagione Gianni Riotta, citando versi di Lucio Piccolo.
L’invenzione, geniale, che permette al teorema di diventare vita è aver fatto del protagonista, Petro Marano, uno sradicato come Mastro-don Gesualdo (il quale è nei fatti, appunto, un senza classe che porta anche nel nome - è ancora considerato mastro, non ancora riconosciuto soltanto don) il proprio bloccato destino. Petro è figlio di contadino diventato piccolo possidente, non accettato però dai borghesi di Cefalù, e di questo passaggio eroico, incompiuto e terribile porta il peso di dolore, malinconia, lupo manaro, male catubbo. Fin qui, sarebbe Verga. Petro però (anch’egli segnato, nel cognome: Marano, marrano) trasforma il passaggio doloroso e la stessa offesa (il suo avversario, don Nenè, gli viola la casa, squarcia le giare dell’olio, in mescolanza di proto-squadrismo e rivalità amorosa) in libertà: perché sceglie di non aderire al suo nuovo status, non rivendicarlo, non difenderlo, fuggire. Fuggirà anche dalla sirena dell’azione politica, dalla follia dell’anarchico Schicchi, speculare alla Bestia: pensiero e dinamite lo tentano, ma per poco. Ed è Petro l’unica figura che davvero si muove, attraverso le pagine del libro, e gli garantisce unità e fluidità, come nella bellissima entrata in Palermo da Palazzo Steri, multipla di voci, di folle, di scritte e slogan, le proteste e la nascente industria, il ricordo della sorella e le prostitute...
Come sempre in Consolo non c’è tuttavia, di tutto questo, narrazione classica. Il romanzo si compone per scivolamento e intarsio di quadri e scene l’uno sull’altro, con chiuse, suggelli che velocemente sciolgono l’azione o meglio la condensano o preparano, e incipit altissimi, dove l’impeto naturale di scrittura diventa sapienza, artigianato ritmico e poetico da costruttore di giare. Ma vanno letti anche con qualche beneficio di ironia: come se ogni volta comparisse in scena un angiolone con la tromba, ad annunciare: qui comincia il capitolo, pardon, il quadro, dove accadrà questo e questo, ma attento lettore: l’importante non è ciò che accade, è il mondo che stai costruendo...
Capitoli anche diseguali tra loro nel tentativo programmatico di rendere ogni volta un tema, un tono, un umore, un registro dominante: che sempre di gran lunga prevale sui «personaggi», e su ogni volgare «psicologia», come se il tutto dovesse poi fondersi in una compatta, diamantina, infinitamente scintillante allegoria, sfolgorante tappeto di nomi nel quale rivelarsi una divinità assente... O come se il libro intero fosse alla fine non libro, ma cosa solida: se il Sorriso era chiocciola, e il Retablo era retablo, che cosa è Nottetempo, casa per casa?

Illuminismo versus strani illuminati, ancora la luce, ma distorta, sole nero, estasi per opposte allucinazioni: la Bestia Crowley e la mistica rosminiana Angelina Lanza si sfiorano nel Duomo di Cefalù, nella luce che piove dal rosone contemplano la propria follia, speculare a quella del proprio complementare nemico... E l’unica figura portatrice di una visione d’insieme è diventato il perfetto Male, il finto Illuminato... Alla coppia Mandralisca-Interdonato (quest’ultimo, il rivoltoso che tenta alla politica l’illuminato malacologo) nel Sorriso, coppia che già in Retablo si era stracangiata (per usare un tipico verbo consoliano) in quella più stravolta Clerici-Isìdoro, una sorta di Prospero-Calibano, con l’ex frate isolano Isidoro come servo, ora si sostituisce una disseminazione di rapporti: nessuna forma di «coscienza generale», quale quella garantita da quei personaggi illuministi, voce e forma di superiore anche se contaminata e commossa serenità, è più possibile. C’è la coppia Petro-Cicco Paolo (l’unica «positiva», ma nella reciproca debolezza e infermità); oppure Petro-Schicchi, Petro-Janu, e a livello di opposizioni Petro-barone Cìcio o persino Petro-Crowley (uno che arriva da fuori per corrompere, l’altro che da dentro evade scoprendo la corruzione e la frattura, la scissione generale come decadimento dallo stato naturale: e dunque, la cultura, la salvezza, anch’essa come scissione).
È che l’altra coppia, quella del Sorriso, libro aurorale, funzionava riferita a un mondo di cui l’illuminista di turno poteva rimanere spettatore, anche se appassionato e dolente, come il barone Mandralisca di fronte ai fatti di Alcàra Li Fusi e il cavalier Clerici di fronte ai terremotati: ora, ed è questa la novità dell’ultimo romanzo di Consolo, siamo tutti dentro, tutti partecipi di follia.
Da qui la cupezza, l’incastonatura ferrea e urlante, perfino metallica, con suoni di inchiavardamento e prigionia, la melanconia feroce del libro come nell’angelo celebre del pittore, sparsi intorno gli strumenti degli umani saperi. Da qui si passa, non c’è più un esterno cui è affidata la comprensione generale, del testo o della vita, la comprensione generale si ha solo attraverso il dolore, il patimento di chi è scisso, solo stando nel magma, nella melma e tirndosene su.
Altra conoscenza non c’è, altro sapere, se non quello corroso e pronto a ogni ribalderia alla moda del barone Cicio, che tra polverosa biblioteca (una biblioteca alla Azzeccagarbugli, un elenco alla Cervantes; grande e ironica l’epica degli elenchi in Consolo) e angolo suo particolare dannunziano, fa già le prove estetiche e piccine del fascismo: «e collezionava stampe, libri, arnesi arditamente osés che dentro nel suo studio facevano l’enfer». Ed era già dunque predisposto, don Nenè, nella gran macchina combinatoria di Consolo, all’incontro con il vero infernale Crowley, perché c’è sempre bisogno di un laido, sensitivo servo che accolga Dracula; e predisposto poi, nonché alle arditezze della targa Florio, benemerita peraltro e descritta con gran senso di corale stupore e schiamazzo e allegria e incrocio di modernità e scaltrezza contadina (compaiono le prime gomme Pirelli, trasformate in suole da scarpe dopo l’incidente d’auto del barone) al picchia picchia generico e rozzo del santo manganello, sia pure per interposta servitù picchiatrice, non sia mai.

Allora, gli illuminati neri son gli unici illuministi rimasti nel tempo di pece e piume, in cui tutti siamo complici, e diverse follie ci attraversano: follia di vittima predisposta nell’innocente, follia colpevole e presto assassina in altri. Ma qui stiamo, e visto che la fuga verso l’araba Tunisia, possibile forse per Petro allora, oggi vale in tutta evidenza solo come scena, un po’ come per Ferreri la fuga finale nell’ultima scena di Dillinger è morto, allora, bisognerà rassegnarsi all’unica possibile e vera evasione: rendersi conto, e render ragione, dare nomi alle nuove cose che accadono, scrivere infine (o equivalenti: si intende, l’arte in generale) o provare a farlo. La letteratura, e l’arte come medicina non della ferita, ma nella ferita. Consolo non lo dice, ma va da sé: se Aleister Crowley è uno stregone di magia nera, tutto Nottetempo, casa per casa è invece nient’altro che questo: un lungo, complicato, fascinoso esorcismo, è una operazione legittima e alla luce del sole di magia bianca, completamente riuscita, che si accende e si svolge come chiocciola o arma a lento sviluppo chimico nella mente del lettore attento, per liberarci dal male. Non litania, ma preghiera. Lume o fiaccola o fuoco o lampada che mano di donna accende alla finestra, nel buio: come nel primo capitolo, mentre corre il licantropo nella campagna e come già prima nel Mastro-don Gesualdo, ai primi rumori dell’incendio di casa Trao le donne a sporgersi, col lume...
Spia linguistica di questa opposizione tra tenebre della depressione-follia-melanconia e lume incerto «di speranza, ma non di ragione», come lo stesso Consolo mi diceva in una conversazione recente, è l’ossessione dei derivati da katò, greco per giù, sotto: da male catubbo, del padre di Petro, licantropo nelle notti di luna, la scena su cui apre il romanzo, dato storico del dolore contadino senza sfogo, che diventa lupo mannaro, ed è poi malinconia: fino a catoio, e simili. Laggiù, in un catoio, finiva, o forse cominciava, il carcere-chiocciola del Sorriso, letterato dai graffiti di prigionieri. Ma come tutto è ambivalente in Consolo, maestro dell’inesistenza della verità se non nel retablo, nella chiocciola, nell’esorcismo, nel libro nel suo insieme: mai in una sua parte o personaggio, è proprio giù nel profondo della terra, è nel buio dell’ipogeo che si trovano tesori. Sono le bianche forme di marmo classico in Retablo, e sono qui, nella memoria di Petro con l’amico pastore, Janu ancora innocente, non corrotto ancora da Crowley, le misteriose figure angeliche che si staccano dalle pareti di un sotterraneo, ritrovato luogo sacro, lievi allegorie del tempo che c’era prima di questo storico, del tempo in cui le creature potevano incontrarsi, nella bellezza e nell’innocenza dell’amore e del linguaggio, prima delle partizioni in caste, doveri e mestieri, rituali e divieti, eden.
Non è la precisa certezza di avere questo nel cuore, ricordo o speranza, a guidare il «senza classe» Petro fuori da ogni pastoia o vincolo di nuova appartenenza, a trasformare in risorsa la sua mobilità obbligata, e in leggerezza di nomade l’eredità del dolore del padre, schiacciato dalla fatica di emergere?
«Pensò al suo quaderno. Pensò che ritrovata calma, trovate le parole, il tono, la cadenza, avrebbe raccontato, sciolto il grumo dentro. Avrebbe dato ragione, nome a tutto quel dolore.»
Buono per oggi, per nomadi e mutanti e transeunti nell’età della semi-definitiva scomparsa di ogni eredità e appartenenza di classe, in una confusa massa, o confuso sogno, in cui molte cose ci attendono, e confusamente gemono per nascere, sirene creature o idiote follie, per forse raggiungerci nottetempo, casa per casa.

“latalpalibri il manifesto”, venerdì 17 aprile 1992

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