All'indomani dell'uccisione di Paolo Borsellino, Vincenzo Vasile, scrisse per “l'Unità” questo breve e vivido ricordo, che - in pochi tratti e con poche citazioni – delinea un vero e proprio ritratto dell'uomo e del magistrato. Da leggere - o da rileggere - e da meditare.
Pasqua 85. Così si confidò P. Borsellino alla vigilia del maxiprocesso
Vincenzo Vasile
Vigilia di Pasqua 1985,
vigilia di maxiprocesso. «Dottor Falcone, verrei a Palermo per
un'intervista, se è d'accordo». «Venga». Ma poi dentro al bunker
del Palazzo di giustizia, dopo un'ora di anticamera, una doccia
fredda che solo a Falcone potevi perdonare: «Ci sarebbero tante,
troppe cose da dire, ma per ora non è opportuno...». Il «ripiego»
fu un'intervista all’eterno numero due, quel Paolo Borsellino,
brusco e di pochissime parole che al cronista de “l'Unità”
ricordava soprattutto vecchi trascorsi universitari: noi dell Ugi, la
sinistra, asserragliati nella Facoltà occupata, lui capolista del
Fuan, l'organizzazione dell’Msi.
Aveva quarantaquattro
anni, ma ne dimostrava già tanti di più con il suo sorriso amaro,
le frasi scarne, il bacio in fronte alla figliola nel salotto pieno
di mobili di decoroso buongusto della casa di via Lehar, strada
tutt'attorno sgomberata dalle auto in sosta. nel ricordo
dell’autobomba che aveva spazzato via il 29 luglio 1983 il loro
capo», il consigliere istruttore Rocco Chinnici.
«Vede... ogni volta che
esce 'sta ragazza, è un tuffo al cuore: ora sta andando al basket di
fronte all’oratorio, come faccio a sequestrare la famiglia?». Poi
una confidenza, con l'impegno di tenerla segreta, chiuderla nel
taccuino «per non aggiungere un altro tormento a questa vita di
dannati». Durante la stesura della monumentale ordinanza di rinvio a
giudizio, dopo l’uccisione del commissario Ninni Cassarà «io e
Falcone fummo chiamati dal questore di Palermo. Ci disse che lo
stesso giorno dovevamo essere segregati in un’isola deserta assieme
alle nostre famiglie. Se ci avessero ammazzati nessuno avrebbe potuto
scrivere quell'ordinanza. Io protestai, dissi che Falcone è senza
figli, mentre io dovevo avere il tempo di regolare le mie faccende.
Mi fu risposto in malo modo, che i miei doveri erano verso lo Stato e
verso la mia famiglia. Riuscii ad ottenere solo 24 ore di proroga. Ci
trascinarono all'Asinara, ci stemmo un mese. Tutta questa vicenda ha
provocato una grave forma di anoressia psicogena alla mia figliola.
Alla fine ci hanno pure presentato il conto».
Solo due anni dopo, in un
altro torrido luglio palermitano, davanti a un Consiglio superiore
della magistratura che si prepara a preferire un candidato mediocre
ed «anziano» a Falcone per l’incarico di consigliere istruttore,
il valoroso numero due dell'Antimafia palermitana si deciderà a
rivelare quel vergognoso episodio. In quell'occasione in segno di
rispetto rinunciai allo «scoop», ma ottenni l’autorizzazione a
virgolettare altre parole di fuoco: «Dopo iniziali, passeggeri ed
effimeri consensi è andata montando, vorrei sperare non orchestrata,
una quotidiana contestazione del nostro lavoro, una campagna che ha
occupato le prime pagine del Giornale di Sicilia», tesa a mostrare
soltanto i pretesi «danni alla collettività» del maxiprocesso. Si
va dalla strumentale esasperazione di 4 o 5 casi di errore, peraltro
subito corretti «su ottocento imputati, dico ottocento» a «una
diffusa disattenzione ministeriale» nei nostri riguardi. «Ho letto
la dichiarazione di un autorevole esponente del governo, il
maxiprocesso sarebbe uno "strumento rudimentale", quando
per noi era ed è una scelta obbligata dopo vent'anni di impunità».
Stava iniziando quella rovinosa china che avrebbe portato allo sterminio sistematico dei giudici palermitani più valorosi. Queste ed altre cose mi disse quella sera Paolo Borsellino, con un occhio alla finestra in attesa angosciosa del ritorno della figlia dalla partita di pallacanestro. Mi parlò anche, col sorriso complice dei «reduci», di quei tempi di «impegno politico» all'Università, di come il lavoro, quel «suo» lavoro avesse rimescolato amicizie e valori come succede talvolta nelle zone di frontiera, negli avamposti abbandonati dal mondo, dove un manipolo di coraggiosi continua a combattere «con la scimitarra» anche se gli altri al quartier generale hanno da tempo alzato bandiera bianca.
Stava iniziando quella rovinosa china che avrebbe portato allo sterminio sistematico dei giudici palermitani più valorosi. Queste ed altre cose mi disse quella sera Paolo Borsellino, con un occhio alla finestra in attesa angosciosa del ritorno della figlia dalla partita di pallacanestro. Mi parlò anche, col sorriso complice dei «reduci», di quei tempi di «impegno politico» all'Università, di come il lavoro, quel «suo» lavoro avesse rimescolato amicizie e valori come succede talvolta nelle zone di frontiera, negli avamposti abbandonati dal mondo, dove un manipolo di coraggiosi continua a combattere «con la scimitarra» anche se gli altri al quartier generale hanno da tempo alzato bandiera bianca.
"l'Unità", lunedì 20 luglio 1992
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