Il mare delle "due rocche" di Marsala in una mia foto
Non sappiamo più
attendere. Tutto ormai deve svolgersi “in tempo reale”. Un eterno
presente che uccide l'immaginazione e il piacere.
Marco Belpoliti
Elogio dell'attesa
nell'era WhatsApp
Non sappiamo più
attendere. Tutto è diventato istantaneo, in "tempo reale",
come si è cominciato a dire da qualche anno. La parola chiave è:
"Simultaneo". Scrivo una email e attendo la risposta
immediata. Se non arriva m'infastidisco: perché non risponde? Lo
scambio epistolare in passato era il luogo del tempo differito. Le
buste andavano e arrivavano a ritmi lenti. Per non dire poi dei
sistemi di messaggi istantanei cui ricorriamo: WhatsApp. Botta e
risposta. Eppure tutto intorno a noi sembra segnato dall'attesa: la
gestazione, l'adolescenza, l'età adulta. C'è un tempo per ogni
cosa, e non è mai un tempo immediato. Il libro in cui il fisico
Carlo Rovelli spiega cos'è il tempo ( L'ordine del tempo, Adelphi)
inizia così: «Mi fermo e non faccio nulla. Non succede nulla. Non
penso nulla. Ascolto lo scorrere del tempo. Questo è il tempo.
Famigliare e intimo».
Alla fine Rovelli ci dice
che per la fisica quello che non esiste è proprio il presente, la
dimensione della realtà cui siamo tutti legati. "Attendere"
significa rivolgere l'animo verso qualcosa. I suoi significati
implicano ascolto, attenzione, applicazione, mantenere la parola
data. La giornalista tedesca Andrea Köhler in L'arte dell'attesa
(add editore), uscito da poco, ci ricorda come nel più grande
vocabolario tedesco, il Dizionario Grimm, la locuzione "attendere
qualcosa" compare solo nel XIV secolo, e per almeno quattro
secoli non contiene complementi che manifestano il tormento
d'attendere. Sarà il Romanticismo, e Goethe in particolare, a
definire l'attesa «con desiderio», «con impazienza» e persino
«con dolore».
L'attesa d'amore comincia
allora, ma è già un'altra storia, come ha spiegato Roland Barthes
in Frammenti di un discorso amoroso: «Sono innamorato? — Sì,
perché sto aspettando». L'innamorato sa attendere, ne conosce la
passione e il tormento, come argomenta lo scrittore francese, perché
il tempo dell'attesa è un tempo soggettivo, che confina con la noia
e con il tedio. Lo scrittore austriaco Alfred Polgar l'ha detto in
modo icastico: «Quando, alle dieci e mezzo, guardai l'orologio,
erano solo le nove e mezzo». Attendere significa non solo fremere,
ma anche annoiarsi e Walter Benjamin ha sottolineato come questa
attesa sia piena di promesse, ovvero creativa, dal momento che la
noia è «l'uccello incantato che cova l'uovo dell'esperienza».
Chi ha oggi tempo di
attendere e di sopportare la noia? Tutto e subito. È evidente che la
tecnologia ha avuto un ruolo fondamentale nel ridurre i tempi
d'attesa, o almeno a farci credere che sia sempre possibile farlo.
Certo a partire
dall'inizio del XIX secolo tutto è andato sempre più in fretta.
L'efficienza compulsiva è diventato uno dei tratti della psicologia
degli individui. Chi vuole aspettare o, peggio ancora, perdere tempo?
Hartmut Rosa, un sociologo tedesco, ha spiegato come funziona questo
processo contemporaneo in Accelerazione e alienazione (Einaudi). Rosa
ritiene che il motore di tutto questo non sia tanto la tecnologia,
che pure vi contribuisce, ma la competizione sociale: risparmiare
tempo è uno dei modi più sicuri per partecipare alla grande
competizione in corso nelle società occidentali. Sarebbe la
circolazione sempre più rapida del denaro, creata dal capitalismo
finanziario, a determinare l'accelerazione. Eppure ci sono ancora
tanti tempi morti: «Si prega di attendere» è la risposta che danno
i numeri telefonici che componiamo quasi ogni giorno.
Aspettiamo nelle
stazioni, negli aeroporti, agli sportelli, sia quelli reali che
virtuali. Attendiamo sempre, eppure non lo sappiamo più fare. Come
minimo ci innervosiamo. L'attesa provoca persino rancore. Pensiamo:
non si può fare più velocemente? Anche se chi organizza lo spazio
dell'attesa — medico, avvocato, centro clinico — possiede i mezzi
economici per renderlo piacevole, risulta comunque qualcosa
d'irrisolto, d'interstiziale.
La verità è che noi non
sopportiamo queste zone intermedie, gli spazi e i tempi in cui siamo
costretti a esercitare la pazienza. Aspettare è vissuto come
un'imposizione. I potenti fanno sempre attendere, dilatano il tempo
d'attesa e mettono a dura prova.
Perché è così
insopportabile? Perché siamo diventati intolleranti, perché non
sappiamo guardare al tempo futuro, perché non sappiamo differire. La
verità è che l'attesa ha a che fare con l'unica cosa che ci
spaventa davvero: la nostra morte.
Nell'attesa si sperimenta
il tempo vuoto, che è l'immagine di un tempo futuro, quello vuoto di
noi.
Senza di noi. Per i
filosofi, da Kierkegaard a Heidegger, questa sarebbe l'apertura verso
l'autenticità, verso il pensare profondo. Acceleriamo per questo,
riempiamo il tempo perché temiamo l'horror vacui.
Kafka, Blanchot, Beckett,
Handke e molti altri ce l'hanno detto. In Aspettando Godot dice
Vladimiro: «Questo ci ha fatto passare il tempo». «Sarebbe passato
lo stesso», gli risponde Estragone.
La Repubblica – 31
gennaio 2018
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