#Pasolini e l’orrore per ogni fascismo. Nel suo #antifascismo estremo, un antidoto ai veleni di questi giorni
di Wu Ming 1
Un paio d’anni fa, su Internazionale,
ci siamo occupati del mito tossico di Pasolini «che stava
con la polizia», mito costruito a furia di citazioni monche e
decontestualizzate della poesia Il PCI ai giovani.
Di quel mito abbiamo dimostrato
l’infondatezza, e ci sembra di aver contribuito a ridurre l’utilizzo
ricattatorio e repressivo che ne facevano gli strumentalizzatori. Era veramente
troppo vedere Pasolini tirato in ballo come «uomo d’ordine» da gente come Maurizio
Gasparri o Stefano Esposito.
Da un po’ di tempo a questa parte,
al calo di potenza di quel mito è corrisposto l’aumento di potenza di un altro
mito, complementare al primo e ancora più pernicioso: quello di un Pasolini
«anti-antifascista».
Anche in questo caso si ricorre a
frasi mozzate, recise, strappate a forza dal loro contesto, sempre le stesse
frasi che diventano memi e circolano viralmente, come surrogati di qualunque
argomentazione, «risposte-fine-di-mondo».
Il fine è sminuire — se
non occultare — la violenza praticata dai neofascisti, cambiare
argomento ogni volta che si parla delle tossine razziste in circolazione,
opporre ai fatti il più bieco benaltrismo. In alcuni casi, come nelle
esternazioni di un sedicente filosofo, il mito di un Pasolini
«anti-antifascista» serve a proporre improbabili alleanze «antiglobaliste»
coi neofascisti.
Prima o poi andrà ricostruita la
genealogia di quest’utilizzo di Pasolini come auctoritas per ogni
stagione e occasione. Un processo di lungo corso che, banalizzandone l’opera e
la figura, lo ha trasformato in fashion icon per ipse dixit
pronti da indossare. Di sicuro c’entra la sua «santificazione» dopo il
martirio, ma non basta a spiegare tutto. C’entra anche la contraddittoria
complessità del suo percorso, unita all’oltraggiosità di molte sue prese di
posizione. E c’entra il suo modo di esprimersi, il suo “senso della frase”.
1.
Punti fermi e irrinunciabili
Il contesto discorsivo costruito da
Pasolini è un campo di tensioni, un vasto reticolo di corde tese
all’estremo, a collegare vari temi, concetti, momenti. Corde sempre sul punto
di spezzarsi. Seguendole con lo sguardo si trovano vere e proprie «rime
narrative» e tematiche, ed è ciò che più affascina nell’installazione. Ma c’è
anche un aspetto spaventoso: si capisce che per snaturare un’affermazione di
Pasolini basta davvero pochissimo. Il modo più facile di snaturarla è dire, su
qualunque argomento: «Pasolini la pensava così, punto». Costringere il suo
pensiero in un meme è dunque la suprema violenza, è ogni volta uno stupro.
Come ha scritto uno dei più attenti
studiosi di Pasolini, Guido Santato, l’opera pasoliniana «nega
al lettore la possibilità di una interpretazione univoca o unilaterale
costringendolo al contrario a una tensione critica costante, a una
disponibilità intellettuale aperta e irrisolta. Cercare di ridurre a un
ordine le contraddizioni di Pasolini privilegiando una chiave di lettura critica
che si proponga di risolverle significherebbe ignorare la funzione essenziale
che hanno avuto nella sua opera e nella sua vita. L’esperienza dell’antitesi
costituisce la più profonda matrice strutturale dell’opera di Pasolini, che al
di fuori di essa apparirebbe sostanzialmente incomprensibile. La contraddizione
costituisce l’elemento dinamico e tensore che produce l’opera, e che in questa
mira non a risolversi ma ad esprimersi.»
Nondimeno, chiunque conosca l’opera
di Pasolini — in primis Santato, che forse la conosce meglio di
tutti — può dimostrare che in essa si trova una coerenza
intima e profonda. Nel percorso di Pasolini vi sono punti fermi non
negoziabili. Altrimenti non sarebbe opera, ma un guazzabuglio
di prese di posizione umorali, rovesciamenti da banderuola scossa dal vento,
dichiarazioni rese al puro scopo di épater qualcuno: les bourgeois,
la gauche ecc.
Non che a Pasolini non capitasse di
voler «scandalizzare e basta», anzi. Ma lo fece sempre entro certe —
e sottolineo certe — coordinate di pensiero, tenendo fermi valori
irrinunciabili.
Quella che Santato chiama
«esperienza dell’antitesi», è antitesi tra una strategia discorsiva e l’altra,
tra una tattica argomentativa e l’altra, tra un elemento e l’altro di una
poetica complessa. Pasolini cambiava approccio in modo drastico, usava
l’antitesi per passare da una fase all’altra del suo percorso. Si pensi ai film
della «Trilogia della vita» (1971-1974) e all’Abiura della «Trilogia della
vita» (1975); si pensi al passaggio dall’invettiva de Il PCI ai giovani (1968)
alla collaborazione con Lotta Continua (1969-1972), del cui giornale fu anche
direttore responsabile.
L’antitesi, però, non è mai
antitesi rispetto ai valori irrinunciabili o alle linee di
condotta ritenute imprescindibili. Mai.
Valori e linee di condotta che i
suoi finti esegeti da social network — o da editoriale
«anti-antifascista» cucinato in modalità Quattro salti in padella — ignorano,
per insipienza oppure a bella posta.
Per questo le loro citazioni di
Pasolini ne deturpano la figura e il pensiero.
Il punto è questo: il 99,99% di quel
che Pasolini scrisse, se letto da quelli che ne citano a cazzo di cane lo
0,01%, li farebbe fremere d’odio nei confronti dell’autore che stanno usando
come pezza d’appoggio.
CONTINUA in https://www.wumingfoundation.com/giap/2018/02/pasolini-antifascismo/
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