Fedra.
La figlia del sole nell'abisso dell'Eros
Rossana Rossanda
Leggendo La Luminosa. Genealogia
di Fedra (Feltrinelli, 1990) di Nadia Fusini, mi venivano in mente le note
di Wittgenstein sul Ramo d’oro di Frazer e l’impressione di lucida
inutilità che mi lasciarono. Egli notava infatti, come più recentemente tutta
la moderna antropologia culturale, che Frazer commisurava culture, riti e miti
all’oggi, quasi che fossero una parafrasi primitiva d’un sapere, mentre ad ogni
tempo essi avevano avuto la loro compiutezza e andavano studiati come segni di
culture in sé significanti. Vero, ma neanche il rimando alla autoreferenzialità
del mito - una volta fatta questa avvertenza - dà molto, e paradossalmente lo
stupore e i raffronti di Frazer lo fanno rivivere con un impatto che una
corretta e pura filologia non ha. Infatti le «Note» girano su se stesse, come
semplice principio metodologico (e chissà se l’autore le avrebbe pubblicate).
Nadia Fusini è consapevole sia del
contesto nel quale essa insegue, volta a volta, Fedra, sia del vivere del mito
scorrendo da un età e, potremmo dire, da un campo strutturale all’altro, ogni
volta perdendosi e diversamente ricomponendosi. E in questi allacci sta uno
svolgersi della cultura non nella linearità della memoria ma nell’intreccio e
nella contaminazione di lingue diverse, come se certi grandi territori della
civiltà - come quella occidentale - non se ne potessero mai liberare e ogni
volta essi ci chiamassero ad ascoltare. Chi ha l’orecchio per queste voci, la
passione per il ritrovamento originario e le sue trasformazioni, e il dono di
raccontarli nelle loro molte sonorità e rimandi ci porta per percorsi incantevoli.
Nadia Fusini è di costoro. Per questo rompe i confini dell’accademia, si
inoltra in territori che non sarebbero i suoi - è un’anglista - e in questi la
sua scrittura scorre al massimo della problematicità e comunicatività e
emozione.
Stavolta essa incontra Fedra nella
tragedia di Euripide che prende il nome di Ippolito - quelle di Sofocle
essendo andate perdute e anche una prima versione di Euripide. È un tema
scottante l’amore d’una donna per il figlio del marito - passione vagamente
incestuosa (Racine la dirà tale) - e tanto piu indegna in quanto il giovane è
più che casto, è un cultore della sua intatta forza virile come forza non
erotica (anche qui Racine cambierà). Fedra non vorrebbe dire il tumulto che la
fa quasi morire, ma la nutrice le strappa la verità e cerca di persuadere
Ippolito. Questi la respinge con orrore. Fedra ascolta - nessun dialogo è fra i
due in Euripide - e si uccide, ma non prima di avere scritto su una tavoletta
che Ippolito l’ha violentata. Al ritorno, il consorte Teseo maledice il figlio,
invoca da Poseidon vendetta e Ippolito sarà straziato da un mostro che esce dal
mare. Soltanto davanti al corpo del figlio morente Teseo apprenderà la verità,
non da lui che ha giurato di non parlare, ma da Artemide, e non gli resterà che
perdersi in una fine che la leggenda vuole vaga, lontana e niente affatto
gloriosa.
Questa la trama per così dire
privata, dei sentimenti e dei fatti, che sarà variamente ripresa. Ma i fatti
sono soltanto l’esito di forze divine che si combattono: sono in scena sempre,
muta ma potente, Afrodite e, alla fine parlante, Artemide, la dea dell’amore
carnale e la dea della castità. È Afrodite che vuole vendicarsi del freddo
Ippolito e scatena nel cuore e nei sensi di Fedra quella furia amorosa, ma
poiché gli dei non si combattono tra loro, Artemide non può che assistere alla
tragedia che ne consegue e salvare soltanto la memoria del suo giovane amico,
svelando la verità e in qualche misura quindi discolpando anche Fedra. Le due
dee, agendo nelle vite che hanno scelto come terreno dei propri fini - e in
Fedra si maledicono gli dei - danno dunque alla tragedia la sua perfetta
simmetria fra i personaggi e i tempi, e il suo secondo piano di lettura.
Ma questo a sua volta rimanda a più
oscure profondità. La simmetria è la forma con la quale la tragedia «dice» la
radicale dissimetria dello scontro: è Afrodite che vince. E in lei vince
l’Eros, che mai appare nella tragedia - e non solo in Euripide - se non come
forza del disordine, e come tale parente della furia e della morte, in questo
diverso dal dionisiaco di Nietzsche. La cultura ellenica lo riceverà come un
frutto delle civiltà passate, orientali e barbariche, mai con la consapevolezza
che traspare in Ippolito. Fedra è infatti figlia di Pasifae che amò il toro e
si fece costruire da Dedalo una forma di giovenca in cui immettersi e
congiungersi con esso, generando quel Minotauro che Teseo sfiderà nel
Labirinto, guidato dalla sorella di Fedra, Arianna. I legami - gli «allacci
fatali» come scrive Nadia Fusini - rimandano a qualcosa che va oltre Afrodite,
a un principio di eros che supera ogni umanità, diventa ferino, segna il
passaggio fra la donna e la giovenca, l’uomo e il toro, nel mostro a due forme,
perché sta - penso - nella «natura» e non nella cultura, sta prima del «logos»,
la parola dei greci, che esprime ma anche nega, e soprattutto cerca di negare
nell’«indicibile», nel silenzio, questa potente forza che le sfugge e la cui
collocazione è all’origine, là dove prima di qualsiasi immagine maschile sta la
madre, la madre terra, la madre con i sacri animali ctonii come il serpente -
in Esiodo come in altre civiltà. Fedra lo sa: regina greca e dunque cosciente
di sé e della sua «forma», ammutolisce e quasi muore per questa presenza, lei
sente che proviene dalla madre, e che è distruttiva, di lei e di Ippolito.
Questi sarà mandato a morte dalle sue parole e da un mostro che esce dal mare
nella figura d’un toro mugghiante che non solo lo uccide ma lo fracassa, gli
rompe le ossa, gli spacca quel corpo che all'eros di natura non ha voluto
sottomettersi. Artemide non potrà che acquietarne la fine; e forse, se Afrodite
non parla, è perché lei stessa è veicolo di questo «nefando» in senso proprio,
cioè indicibile.
Ecco dunque, ci dice Nadia, che
Euripide ha «grecizzato», ridotto a civiltà della parola il mito, non greco ma
cretese, della calda e dorata Creta, dove la dea madre montana era adorata come
il principio. Ma non riesce a risolverla nell’unità d’un femminile che il
«logos» vorrebbe verginale, sottraentesi, e profanato dall’eros: in Fedra,
figlia di Pasifae, parla l’altro desiderio femminile - quello del
congiungimento che la fa generatrice. E di nuovo le figure delle due dee,
presenti ai lati della scena, riviano a due immagini della femminilità -
Afrodite il desiderio del congiungimento, Artemide quello della verginità,
intatta in se stessa; e di nuovo la filiazione dei due infelici protagonisti.
Fedra figlia dell’estrema amante
Pasifae, e Ippolito, figlio dell'Amazzone, all’altra nemica e straniera,
rivelano la dualità del femminile: potenza generatrice originaria e chiusa
verginità. L’una irriducibile all’altra, compresenti nella donna come
nell’ultima immagine che evoca Nadia: la antica figura di Catal Huyuk,
rappresentante una possente donna assisa come dea o regina fra due leopardi,
ritto il torso generoso e occhi fissi davanti a sé nel volto imperturbato. Ma
dalle gambe esce una testa: forse è un atto di nascita, forse di congiungimento
con l’uomo che le rientra in grembo - essa è in tutti e due gli eventi e in
nessuno. Essa è due. Due - il «segno» di Nadia Fusini, la chiave di ogni sua
ricerca, il tragico e splendido due.
Inutile dire i rimandi che da questa
lettura sono sollecitati: dall’interpretazione dei testi e dei reperti
archeologici - la meteorite nera di Pessinunte, l’eros, il segno oscuro di
Pasifae e del Toro o la statuetta cretese, forse ripresa da Pausania
nell'immagine di cui racconta delle due sorelle, Arianna immobile e pensosa e
Fedra nell'altalena dal duplice movimento - alle avventure delle genealogie linguistiche,
a quelle del preistorico, quando forse esistè come prima forma il matriarcato e
il maschio non era che il paredro.
Ma il rimando può essere anche non
nell’oscurità del tempo, bensì in quella dell’inconscio. Questo modo di
«leggere», più si articola nella documentazione, più propone vie di
interpretazione - e questa a sua volta rimanda alla figura della
lettrice-scrittrice-evocatrice. Anche essa infatti esercita, come gli argolidi
sui cretesi, come Euripide sul mito già elaborato che trovava, come poi farà su
Euripide Seneca e poi Racine, un’opera di «traduzione». Che è sempre, quando
davvero è, svelamemto e della materia cui si applica e della mente che la
applica.
Mente
femminile. Non so davvero se Nadia Fusini sia inquadrabile in una delle «scuole»
del femminismo italiano: forse poche di esse ne accetterebbero il «due». Ma non
si è donne per decreto di altre donne. E lei porta l’impronta inequivocabile
d’un pensiero femminile che in autonomia ripercorre storia e cultura,
affascinato e libero, liberatorio. Un libro come questo è impensabile nella
cultura di pur valorosi storici o antro-pologi. Come sta nella cultura di «dopo
il mito», gli uomini sono tutti figli e nipoti dei greci, e temono di sapere
quel che gli antichi cretesi confessavano: il «deinon», fra divino e terribile,
del femminile. Non a caso è una donna di oggi che può riavvicinarsi ad esso,
senza adorazione ma senza timore.
La talpalibri – il manifesto, 1
giugno 1990.
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