Nel suo ultimo libro
Giorgio Agamben elabora i fondamenti di una sorta di archeologia
filosofica che ricostruisce la genealogia dei rapporti fra cultura e
potere.
Antonio Gnoli
L'enigma di Agamben
tra logos e potere
Nel nuovo libro di
Giorgio Agamben — Creazione e anarchia (edito da Neri Pozza) —
troviamo questa frase: «Nella filosofia come nell'arte non possiamo
concludere un'opera, possiamo solo abbandonarla». Qui "abbandono"
crediamo va inteso come rinuncia a un potere concettuale, a una forma
di dominio esclusivo che è poi quello che nel corso dei secoli ha
tentato di imporre la filosofia. È possibile una tale forma di
rinuncia? Lo è a patto che si riscoprano una serie di concetti che
nella nostra storia hanno avuto un ruolo minore.
Termini come "povertà",
"resistenza", "inoperosità", "debito"
servono ad Agamben per forzare il dispositivo utilitarista e
calcolante del pensiero contemporaneo. Da questo punto di vista,
Creazione e anarchia ricorre costantemente all'interrogazione,
pratica che la filosofia da Socrate in poi ha spesso adottato e che
il '900 ha messo in crisi per l'incapacità (o impossibilità) di
trovare un fondamento alle proprie risposte. Come conservare dunque
la forza maieutica del domandare?
Le domande che Agamben
formula nei suoi cinque saggi (Che cos'è un'opera d'arte? Che cos'è
l'atto del creare? Che cos'è il contemporaneo? Che cos'è un
comando? Che cos'è una religione, in particolare il cristianesimo,
al tempo del capitalismo?) non esigono risposte definitive come
quelle che cercavano Platone e Aristotele. Esse richiedono un diverso
tipo di impegno che somiglia allo scavo archeologico.
«L'archeologia è la
sola via d'accesso al presente», ci dice l'autore. Archeologia viene
da arché e significa tanto "origine", "principio",
quanto "comando", "ordine". La figura
dell'arconte, nel mondo politico dell'antica Grecia, era quella di
chi essendo primo era altresì investito del ruolo del comando.
Ricostruendo la genealogia del comando, Agamben mostra come
l'ontologia occidentale presenti fin dall'inizio un duplice volto. Da
un lato, essa è logos, cioè discorso logico e assertivo;
dall'altro, riflette la natura del comando. A quest'ultimo
appartengono la religione e il diritto; mentre la filosofia ricorre
soprattutto al logos. Se il logos è argomentazione persuasiva, cioè
ragione, il comando si esprime nella potenza vera, cioè nella forza.
Ma fino a che punto è
lecito che la potenza dispieghi interamente la sua forza? La teologia
medievale provò a stabilire il significato da dare all'onnipotenza
divina. L'assioma "Dio può fare tutto" conteneva un lato
scandaloso, perché in quel tutto si celava anche la possibilità di
mentire e di fare il male. Si giunse dunque alla conclusione che
occorresse qualche dispositivo capace di imbrigliare il lato oscuro
della forza.
La disputa fu molto
accesa e la soluzione venne trovata nell'idea che Dio non può fare
che ciò che ha deciso di fare. Anche l'onnipotenza divina doveva
sottostare al principio di non contraddizione - cioè alla struttura
del logos - se si voleva porre un limite al caos e alla
ingovernabilità del mondo. La nascita della teologia politica ha qui
una delle sue più chiare giustificazioni: come governare il mondo e
al tempo stesso imbrigliare la potenza di chi ne detiene la forza?
Fu un interrogativo al
quale la democrazia, da Montesquieu in poi, ha cercato una risposta
convincente. Ma senza riuscirci o riuscendoci soltanto in parte. Mai
come in questo momento, fa notare Agamben, l'ontologia del comando ha
soppiantato l'ontologia del logos. È come se, per usare il
linguaggio degli psicoanalisti ci sia il "ritorno del represso".
Il discorso della forza che sembrava essere stato relegato a un uso
secondario impone, dunque, i suoi "argomenti".
Religione, magia,
diritto, conclude Agamben, respinti per lungo tempo nell'ombra,
governano segretamente il funzionamento delle nostre società che si
vogliono laiche e secolarizzate
La Repubblica – 4
gennaio 2018
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