Se, come scrive
Benjamin nelle sue tesi sul concetto di storia, ogni secondo del
tempo che ci attende è la piccola porta attraverso cui può passare
il messia, allora c'è ancora spazio per la speranza. Ma a patto di
“saper articolare storicamente il passato”. Di sapere, cioè, che
“neppure i morti saranno al sicuro dal nemico, se vince”. Dal passato Walter Benjamin scrive per noi.
Mario Pezzella
Walter Benjamin,
l’intensità dell’attimo e il tempo discontinuo
Si intitola
Attraverso la piccola porta (Mimesis, pp. 114, euro 14) il volume che
Massimiliano Tomba dedica a Walter Benjamin, presenza cruciale nella
filosofia del ’900; il pensiero del filosofo berlinese è l’unica
vera alternativa a Heidegger. Partendo da questa chiara posizione,
Tomba rilegge i temi decisivi di Benjamin, primo fra tutti
l’opposizione fra giustizia e diritto, a partire dal saggio Per la
critica della violenza. Nonostante la neutralità che esibisce nelle
democrazie rappresentative, il diritto non cancella, ma codifica la
violenza fondatrice dello Stato e i rapporti di potere che ne
conseguono.
L’uguaglianza statuita dal diritto è solo formale, è una riduzione passiva delle insorgenze egualitarie; riconosciuta come principio, essa non è realizzata. È il caso del lavoro salariato: oggetto di un contratto i cui contraenti sono uguali in astratto e in realtà divisi da un rapporto di sfruttamento.
Connessa alla critica del diritto è quella alla democrazia parlamentare, in cui il rappresentante agisce in nome di un Popolo-Uno, che è invece diviso in classi e interessi in conflitto ed è un fantasma prodotto dalla rappresentanza stessa, con cui essa cerca di legittimarsi. In effetti la delega si autonomizza, non è più controllata e agisce in nome di una fittizia universalità: «Il popolo, come unità e totalità, è l’assente che viene reso visibile come soggetto politico attraverso il rappresentante che agisce in suo nome».
In questo contesto, la
violenza della polizia è sempre latente e pronta a emergere, a
intervenire in stato di emergenza, al di fuori dei codici stabiliti,
con diritto sovrano di vita e di morte. Benjamin pensava agli
spartakisti e alla morte di Rosa Luxembourg. La democrazia cela il
germe di un regime autoritario, senza che ci sia tra di essi un salto
di continuità.
Uno dei pregi maggiori
del libro è di applicare a Benjamin il suo proprio metodo, creando
un corto circuito dialettico tra il testo analizzato e il nostro
presente. Così avviene per i termini di violenza mitica e violenza
divina. La prima è il «contesto colpevole» in cui il potere chiude
la vita: e si riattualizza nella condizione dei migranti oggi, posti
di fronte a confini e muri, superando i quali incorrono nella colpa e
nella morte: «La violenza mitica emerge ogni qualvolta che viene
violato un confine». Tomba attualizza Benjamin alla luce dello stato
di emergenza in cui noi stiamo vivendo, collocandolo nel tempo
discontinuo delle rivolte e delle brecce di libertà degli oppressi.
La violenza divina si
oppone a quella del diritto e dello Stato. La felicità a cui mira ha
un aspetto anarchico e nichilista perché – afferma Benjamin nel
Frammento teologico-politico- produce il dissolvimento di una legge e
di un ordine simbolico divenuti ingiustificabili. Da qui nasce il
sentimento di festa e liberazione che accompagna gli inizi di una
rivoluzione: questa è un arresto del tempo e non una corsa sfrenata
verso il progresso, e solo così spezza il ciclo della violenza
mitica e «il continuum violento del diritto».
In tale dissolvimento di
vincoli giuridici ingiusti, si comprende il rilievo dato da Benjamin
allo sciopero generale di Sorel, capace di porre in sospeso le
funzioni statali e le relazioni di sfruttamento salariale, fino a
produrre una crisi implosiva dell’ordine del capitale: «Per chi è
oppresso, felicità può solo essere il passare della presente
condizione subalterna».
In effetti il «vero
politico» di Benjamin non si limita ai possibili presenti in una
situazione ma è «colui che sa indicare l’uscita dalla situazione
come possibile». Lo sciopero generale è una desistenza
generalizzata dalla prassi del capitale.
Il vero politico apprezza i «differenziali di tempo», la presenza di possibili non codificati, appartenenti a esperienze «altre» nello spazio e nel tempo, anche non occidentali, che è possibile riattualizzare nel multiversum temporale del presente. C’è una «storia invisibile» che riemerge periodicamente dal suo fondo sotterraneo, e si affida al tempo discontinuo dell’intensità dell’attimo, in cui ogni frammento di tempo è la «piccola porta», da cui potrebbe entrare il Messia: «Ogni singola azione ha il ritmo della natura messianica…Si tratta di agire, in ogni singolo atto, come se il Messia fosse già arrivato».
Questa intensità giustifica il sentimento di fratellanza con coloro che nel passato o nel presente hanno partecipato alla lotta contro il dominio. «La fratellanza è un simbolo che investe le generazioni passate, presenti e future». Certo, non abbiamo soluzioni sicure per evitare che il momento festoso e destituente delle rivoluzioni si irrigidisca in nuovi ordini statuali oppressivi. Tuttavia il concetto di fratellanza, che implica ad un tempo il riconoscimento dell’uguaglianza e della irriducibile differenza dell’altro, può essere una buona unità di misura nella lotta per la libertà.
il manifesto – 16
febbraio 2018
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