Uno storico
ricostruisce il “golpe” con cui Giulio Cesare si impadronì della
Repubblica romana. Ne esce l'immagine di una società in crisi, dove
la spregiudicatezza regna sovrana e le questioni pubbliche si
regolano all'interno dei palazzi privati. Insomma, nulla di nuovo
sotto il sole.
Carlo Franco
Quel dado tratto da
Cesare
Che cosa è accaduto
davvero verso l’11 gennaio del 49 a.C. sulla sponda di un torrente
in Romagna? Un autorevole politico e militare che passa un confine
con le proprie truppe, che si mette contro la legalità, che forse
pronuncia parole poi divenute famose, vista l’eccezionalità del
momento. Molti hanno parlato di Cesare e del giorno in cui passò il
Rubicone. Su questo evento cruciale torna a ragionare Luca Fezzi,
docente di storia romana a Padova, per illuminare dettagli e per
chiarire contesti (Il dado è tratto Cesare e la resa di Roma,
Laterza «i Robinson / Letture», pp. 375, € 22,00).
C’è dell’altro infatti, oltre la famosa frase attribuita al protagonista per esprimere l’incertezza del passo da compiere. Il sottotitolo mette utilmente sulla via: al centro dell’indagine stanno la scelta di Pompeo di abbandonare Roma e la successiva «resa» della città all’esercito di Cesare. L’azione sul Rubicone fornisce un «fermo immagine». A partire da quelle ore fatali il libro racconta l’agonia della res publica romana. Il gesto dirompente di Cesare è lo snodo del libro: lo si esamina come punto di arrivo di una lunga crisi, analizzata negli antefatti e delineata nel seguito.
L’operazione ricorda
quella di Javier Cercas per un momento chiave della storia di Spagna:
Fezzi ci propone la «anatomia di un istante», disegnando il
contesto, gli attori, gli sviluppi. E iniziando dalle fonti: come
d’uso negli studi sul mondo antico, ogni notizia è valutata
attentamente. Dei Commentarii di Cesare (che del passaggio
del Rubicone non parlano) si osserva che sono «ideologicamente
orientati e spesso fattualmente menzogneri»: obiettivi per i quali
giova appunto anche la reticenza. E poi le lettere di Cicerone,
preziosissime per i dettagli e perché restituiscono la percezione
contemporanea di eventi ancora in continua evoluzione. Cicerone, che
non era ingenuo né incompetente, fu spesso in difficoltà nel
comprendere quanto gli accadeva intorno.
Dal passaggio del Rubicone derivò una guerra civile, durata fino al marzo del 45 a.C. Il libro ne evoca con molto dettaglio le radici, inquadrandole da lontano. Un complicato intreccio di relazioni personali, interessi, denaro, scandali, omicidi politici, ambizione e corruzione aveva investito la politica romana almeno dall’inizio del secolo. Forti turbolenze e crisi conclamate (note quelle scatenate in modi diversi da Catilina, poi da Clodio) schiantarono l’oligarchia senatoria. Cruenti conflitti condussero al governo di singoli capi, poi alla dittatura, infine all’impero.
Ben prima dell’illegale
gesto di Cesare, le istituzioni romane avevano subito negli anni,
sotto i colpi della lotta politica, gravi stravolgimenti. Anche la
massa popolare era stata coinvolta, non certo da spettatrice, nelle
lotte tra fazioni. Fezzi mette in adeguata luce i rovinosi
personalismi dei protagonisti politici. Le ascese dei Cesari, piccoli
o grandi, suscitano sempre diffidenza, perché sono minacciose, in
ogni epoca. E per quanto Cesare non sia un personaggio «simpatico»,
è però difficile aver rimpianto per la res publica che egli voleva
dominare: rimpianto per il mondo degli aristocratici senza scrupoli e
dei demagoghi spregiudicati, dei manovratori di masse popolari e di
eserciti. Il mondo che appunto fu sconfitto dal «dittatore
democratico», e poi liquidato dalla «rivoluzione» augustea.
Cesare entrò a Roma, «città aperta», a fine marzo del 49, dopo aver occupato le Marche, ed essersi spinto fino a Brindisi. A metà gennaio, pochi giorni dopo l’inizio delle ostilità, Pompeo aveva ordinato ai senatori e ai consoli di abbandonare la città. «Atto inaudito sino a quel momento», scrisse Cesare. Fu infatti una scelta senza precedenti. Altre crisi avevano portato armi (anche romane) alle porte della città: ma sempre Roma era stata difesa. Invece Pompeo e i suoi avevano addirittura abbandonato l’Italia, e lasciato la città nel caos, in sgomenta e preoccupata attesa (e questo evoca un altro abbandono: settembre 1943…).
La scelta compromise la
legittimità della fazione pompeiana. Esempi del passato furono
scomodati per demonizzare gli avversari (calava un nuovo Annibale,
minacciavano ancora Roma i Galli invasori) e per legittimare la
ritirata (anche gli ateniesi lasciarono la città di fronte ai
persiani, e vinsero; e secondo un detto greco, la città sono gli
uomini, non le mura). Dallo storico greco Cassio Dione si ricava la
spiegazione più credibile di quel fatto incredibile: l’avanzata di
Cesare in Italia (in aree di lealtà pompeiana!) era stata
incontenibile. Pompeo temeva che anche Roma, di fronte a un assalto
(un assedio?) avrebbe aperto le porte all’avversario. Quella resa
sarebbe stata fatale. Di fatto, Pompeo risparmiò a Roma e all’Italia
la violenza della guerra, che fu combattuta duramente in Spagna e in
Africa.
Il racconto sobrio di Fezzi presenta i protagonisti della guerra civile romana in modo equilibrato, con rigorosa analisi, senza enfasi o moralismi (e anche senza le taglienti sententiae alla Syme, che talora finiscono per concedere troppo all’effetto). Il giudizio storico o politico è fermo: non vengono proposti né eroi esaltanti, né mostri detestabili. Il libro non ispira favore verso le due parti in lotta: il lettore si fa però un proprio giudizio. Fezzi mostra bene quanto dominassero confusione, incertezza e opportunismo.
Rimini, Cippo di Cesare
Il console emerito
Cicerone ebbe in quei mesi delle inquietanti (e pur umane) doppiezze
e debolezze. Dopo essersi lusingato perché «tutti e due» lo
volevano dalla propria parte, dopo molti tentennamenti e una lunga
neutralità, si schierò con Pompeo. Partecipò con poco entusiasmo
alle operazioni di guerra, e si tirò indietro subito dopo la
sconfitta di Farsalo, nell’agosto del 48. Si dispose ad aspettare
il perdono di Cesare, che puntualmente gli venne accordato.
Tempo dopo, Cicerone ebbe
ospite in villa proprio Cesare, e ne scrisse per lettera all’amico
Attico, nel dicembre 45: «Che dire? Abbiamo mostrato che siamo
uomini di mondo. Ma non è un ospite a cui diresti “Caro, torna
anche domani”. Una volta basta. Niente di serious nella
conversazione, molto literary criticism. Ma lo sai? Se l’è
passata, la cosa è stata gradevole. Ha detto che si fermerà un
giorno a Pozzuoli e uno a Baia. Eccoti il resoconto di una visita
anzi billeting piuttosto sgradita, ma non fastidiosa». Queste righe
vivaci, in cui al latino si alterna il greco, mostrano il sollievo
per un impegno finito (alloggiare la scorta di Cesare), e per un test
superato, Difficile cogliervi lo spirito del «repubblicano» che
festeggerà, mesi dopo, il pugnale di Bruto; o l’anelito del
paladino della libertà all’attacco di Antonio; o la pensosità del
martire ucciso dagli scherani dei triumviri…
Il fatto politico mette in ombra i quesiti giuridici (quanto fosse giustificabile Cesare, quanto i suoi avversari, etc.). Non esce bene però nemmeno la victa causa (come avrebbe detto poi il «repubblicano» poeta Lucano), ossia la scelta che si rivelerà perdente di Pompeo. Se avesse vinto lui, non sarebbero venuti tempi piacevoli: qualcuno lo vide come un Silla «più subdolo, ma non migliore». E poi contavano anche i generali, i luogotenenti intorno al leader (la vera forza di Cesare, e di Bonaparte).
Troppi e gravi furono i
cedimenti e i tradimenti degli ufficiali pompeiani, quelli che
potevano fermare la marcia del nemico in Italia, e non lo fecero.
Uomini che, stando a una famosa pagina cesariana, prima della
battaglia decisiva litigarono sulle cariche da spartire dopo la
vittoria: erano andati in guerra, dice Cesare, portandosi appresso
l’argenteria… Davvero, non defensoribus istis si poteva salvare
lo Stato. Anche per questo il dado lanciato da Cesare col passare il
Rubicone fu vincente.
Il Manifesto/Alias – 21
gennaio 2018
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