01 febbraio 2018

CESARISMO, una storia che si ripete







Uno storico ricostruisce il “golpe” con cui Giulio Cesare si impadronì della Repubblica romana. Ne esce l'immagine di una società in crisi, dove la spregiudicatezza regna sovrana e le questioni pubbliche si regolano all'interno dei palazzi privati. Insomma, nulla di nuovo sotto il sole.

Carlo Franco

Quel dado tratto da Cesare

Che cosa è accaduto davvero verso l’11 gennaio del 49 a.C. sulla sponda di un torrente in Romagna? Un autorevole politico e militare che passa un confine con le proprie truppe, che si mette contro la legalità, che forse pronuncia parole poi divenute famose, vista l’eccezionalità del momento. Molti hanno parlato di Cesare e del giorno in cui passò il Rubicone. Su questo evento cruciale torna a ragionare Luca Fezzi, docente di storia romana a Padova, per illuminare dettagli e per chiarire contesti (Il dado è tratto Cesare e la resa di Roma, Laterza «i Robinson / Letture», pp. 375, € 22,00).

C’è dell’altro infatti, oltre la famosa frase attribuita al protagonista per esprimere l’incertezza del passo da compiere. Il sottotitolo mette utilmente sulla via: al centro dell’indagine stanno la scelta di Pompeo di abbandonare Roma e la successiva «resa» della città all’esercito di Cesare. L’azione sul Rubicone fornisce un «fermo immagine». A partire da quelle ore fatali il libro racconta l’agonia della res publica romana. Il gesto dirompente di Cesare è lo snodo del libro: lo si esamina come punto di arrivo di una lunga crisi, analizzata negli antefatti e delineata nel seguito.

L’operazione ricorda quella di Javier Cercas per un momento chiave della storia di Spagna: Fezzi ci propone la «anatomia di un istante», disegnando il contesto, gli attori, gli sviluppi. E iniziando dalle fonti: come d’uso negli studi sul mondo antico, ogni notizia è valutata attentamente. Dei Commentarii di Cesare (che del passaggio del Rubicone non parlano) si osserva che sono «ideologicamente orientati e spesso fattualmente menzogneri»: obiettivi per i quali giova appunto anche la reticenza. E poi le lettere di Cicerone, preziosissime per i dettagli e perché restituiscono la percezione contemporanea di eventi ancora in continua evoluzione. Cicerone, che non era ingenuo né incompetente, fu spesso in difficoltà nel comprendere quanto gli accadeva intorno.

Dal passaggio del Rubicone derivò una guerra civile, durata fino al marzo del 45 a.C. Il libro ne evoca con molto dettaglio le radici, inquadrandole da lontano. Un complicato intreccio di relazioni personali, interessi, denaro, scandali, omicidi politici, ambizione e corruzione aveva investito la politica romana almeno dall’inizio del secolo. Forti turbolenze e crisi conclamate (note quelle scatenate in modi diversi da Catilina, poi da Clodio) schiantarono l’oligarchia senatoria. Cruenti conflitti condussero al governo di singoli capi, poi alla dittatura, infine all’impero.

Ben prima dell’illegale gesto di Cesare, le istituzioni romane avevano subito negli anni, sotto i colpi della lotta politica, gravi stravolgimenti. Anche la massa popolare era stata coinvolta, non certo da spettatrice, nelle lotte tra fazioni. Fezzi mette in adeguata luce i rovinosi personalismi dei protagonisti politici. Le ascese dei Cesari, piccoli o grandi, suscitano sempre diffidenza, perché sono minacciose, in ogni epoca. E per quanto Cesare non sia un personaggio «simpatico», è però difficile aver rimpianto per la res publica che egli voleva dominare: rimpianto per il mondo degli aristocratici senza scrupoli e dei demagoghi spregiudicati, dei manovratori di masse popolari e di eserciti. Il mondo che appunto fu sconfitto dal «dittatore democratico», e poi liquidato dalla «rivoluzione» augustea.

Cesare entrò a Roma, «città aperta», a fine marzo del 49, dopo aver occupato le Marche, ed essersi spinto fino a Brindisi. A metà gennaio, pochi giorni dopo l’inizio delle ostilità, Pompeo aveva ordinato ai senatori e ai consoli di abbandonare la città. «Atto inaudito sino a quel momento», scrisse Cesare. Fu infatti una scelta senza precedenti. Altre crisi avevano portato armi (anche romane) alle porte della città: ma sempre Roma era stata difesa. Invece Pompeo e i suoi avevano addirittura abbandonato l’Italia, e lasciato la città nel caos, in sgomenta e preoccupata attesa (e questo evoca un altro abbandono: settembre 1943…).

La scelta compromise la legittimità della fazione pompeiana. Esempi del passato furono scomodati per demonizzare gli avversari (calava un nuovo Annibale, minacciavano ancora Roma i Galli invasori) e per legittimare la ritirata (anche gli ateniesi lasciarono la città di fronte ai persiani, e vinsero; e secondo un detto greco, la città sono gli uomini, non le mura). Dallo storico greco Cassio Dione si ricava la spiegazione più credibile di quel fatto incredibile: l’avanzata di Cesare in Italia (in aree di lealtà pompeiana!) era stata incontenibile. Pompeo temeva che anche Roma, di fronte a un assalto (un assedio?) avrebbe aperto le porte all’avversario. Quella resa sarebbe stata fatale. Di fatto, Pompeo risparmiò a Roma e all’Italia la violenza della guerra, che fu combattuta duramente in Spagna e in Africa.

Il racconto sobrio di Fezzi presenta i protagonisti della guerra civile romana in modo equilibrato, con rigorosa analisi, senza enfasi o moralismi (e anche senza le taglienti sententiae alla Syme, che talora finiscono per concedere troppo all’effetto). Il giudizio storico o politico è fermo: non vengono proposti né eroi esaltanti, né mostri detestabili. Il libro non ispira favore verso le due parti in lotta: il lettore si fa però un proprio giudizio. Fezzi mostra bene quanto dominassero confusione, incertezza e opportunismo.
    Rimini, Cippo di Cesare

Il console emerito Cicerone ebbe in quei mesi delle inquietanti (e pur umane) doppiezze e debolezze. Dopo essersi lusingato perché «tutti e due» lo volevano dalla propria parte, dopo molti tentennamenti e una lunga neutralità, si schierò con Pompeo. Partecipò con poco entusiasmo alle operazioni di guerra, e si tirò indietro subito dopo la sconfitta di Farsalo, nell’agosto del 48. Si dispose ad aspettare il perdono di Cesare, che puntualmente gli venne accordato.

Tempo dopo, Cicerone ebbe ospite in villa proprio Cesare, e ne scrisse per lettera all’amico Attico, nel dicembre 45: «Che dire? Abbiamo mostrato che siamo uomini di mondo. Ma non è un ospite a cui diresti “Caro, torna anche domani”. Una volta basta. Niente di serious nella conversazione, molto literary criticism. Ma lo sai? Se l’è passata, la cosa è stata gradevole. Ha detto che si fermerà un giorno a Pozzuoli e uno a Baia. Eccoti il resoconto di una visita anzi billeting piuttosto sgradita, ma non fastidiosa». Queste righe vivaci, in cui al latino si alterna il greco, mostrano il sollievo per un impegno finito (alloggiare la scorta di Cesare), e per un test superato, Difficile cogliervi lo spirito del «repubblicano» che festeggerà, mesi dopo, il pugnale di Bruto; o l’anelito del paladino della libertà all’attacco di Antonio; o la pensosità del martire ucciso dagli scherani dei triumviri…

Il fatto politico mette in ombra i quesiti giuridici (quanto fosse giustificabile Cesare, quanto i suoi avversari, etc.). Non esce bene però nemmeno la victa causa (come avrebbe detto poi il «repubblicano» poeta Lucano), ossia la scelta che si rivelerà perdente di Pompeo. Se avesse vinto lui, non sarebbero venuti tempi piacevoli: qualcuno lo vide come un Silla «più subdolo, ma non migliore». E poi contavano anche i generali, i luogotenenti intorno al leader (la vera forza di Cesare, e di Bonaparte).

Troppi e gravi furono i cedimenti e i tradimenti degli ufficiali pompeiani, quelli che potevano fermare la marcia del nemico in Italia, e non lo fecero. Uomini che, stando a una famosa pagina cesariana, prima della battaglia decisiva litigarono sulle cariche da spartire dopo la vittoria: erano andati in guerra, dice Cesare, portandosi appresso l’argenteria… Davvero, non defensoribus istis si poteva salvare lo Stato. Anche per questo il dado lanciato da Cesare col passare il Rubicone fu vincente.

Il Manifesto/Alias – 21 gennaio 2018

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