Tre risposte allo specchio (quand’è storto)
di Danilo Laccetti
Però, suonare così bene e
nello stesso tempo sapere
che non hai nessuno
intorno capace di apprezzarti
Čechov,
Tre sorelle
Postilla pacifica e necessaria
Diritta, coerente, rispettosa vorremmo l’immagine di noi che negli
altri si riflette, così come l’abbiamo vista riflessa nei nostri occhi per
tanto tempo. Ciononostante a un dato momento, per impreviste, maligne
occorrenze, l’immagine si fa storta né si dà verso di mutarle postura;
eccola curva, non lineare, deforme, perciò sbagliata, non corrispondente alla
costruzione, alla perseverata pianificazione del nostro io (in verità di tutti
gli io che stratificano silenziosi; ignari, noi, di imprendibili
sovrapposizioni, dissolvenze così capricciose). L’aspettativa, spesso le
ripetute aspettative, mancate più volte, dapprima cercano giustificazione. Ma
se gli specchi perdurano storti, la frustrazione così conglomerata, quanto più
s’agglutina intensa sull’oggetto desiderato che procura dolore, tanto più
accresce la sua massa critica; la sofferta mancanza ha bisogno di sfogare gli
umori costipati da questa insistente sordità dell’immagine, cerca riscatto.
L’immagine storta, non più forzatamente emendabile, viene fatta innocua,
rimossa, esiliata; se questo oscuramento non basta, l’immagine va distrutta
e tale distruzione può concretizzarsi contro il suo proprietario, reo
confesso d’impotentia generandi, conclamanta incapacità d’aver prodotto
l’io desiderato, ovvero l’ostilità trova degno avversario nell’oscuro
manovratore di quell’immagine, qualcuno che, nascosto dietro il nostro
specchio, quello specchio avrebbe deturpato, procurandoci la disfatta: un usurpatore,
infiltrato strisciante nella nostra vita, ne ha fatto scempio.
Gli infiniti modi di oscurare l’immagine storta, facendo
nebbia attorno ad essa, precario e labile proponimento a volte, talvolta
superlativa capacità di intrappolarsi a vita in quelle medesime nebbie,
pertengono al teatro del grottesco, la comicità trasuda malinconie drammatiche;
quelle esemplari di un monsieur Jourdain di molieriana memoria, per
citarne una: pur di diventare ciò che solo la nascita gli avrebbe consentito,
cioè nobile, calpesta patrimonio e affetti, tanto che la messinscena finale lo
saluta soddisfatto e ingannato, cieco e felice, assolutamente non rinsavito a
petto dei suoi “fratelli” Orgon e Argan, salvati dalle loro manie.
Eloquentissima rappresentazione, quanto mai contemporanea, di un’ambizione
scomposta e frenetica: voler essere a tutti costi ciò che non sei stato
“capace” di diventare.
Ma la supponente autodeterminazione di quella stessa voce
interiore, che si pronuncia non convocata, cerca sovente il teatro del tragico
come palcoscenico acconcio per il riscatto: vendicarsi contro il proprietario
o contro l’usurpatore, due modalità piuttosto complementari per
attestare il proprio ego, sebbene in articulo mortis.
Rimane una terza, assai faticosa risposta per l’io ferito a morte,
desideroso di vendetta; impone l’esercizio dell’adattamento, del radicale,
progressivo, spesso repentino, cambio di prospettiva.
Prima: cette Psyché qui palpitait des ailes
Alla metà del secolo decimonono il biancore della mussolina
incantesimò le dame del bel mondo parigino: così Manet ritrae Suzanne, sua
moglie, nel dipinto La lettura, abbracciata dalla vaporosa purezza di
questa stoffa, bianco nel bianco del divano, dei tendaggi. Anni dopo il pittore
collocò alle spalle della donna, in un oscuro che tanto richiama i famosi suoi neri,
il figlio, intento a leggere qualcosa da un libro; figurazione di un perturbante
chiaroscuro, antitetico alla luce di quella stoffa, che tutto di sé irradia.
In Avatar di Gautier, quando ha luogo la sfortunata
confessione d’amore di Octave de Saville,
la bella contessa lituana Praskovie Labinska viene rappresentata sola,
stesa sul canapé di giunco: una ninfa marina immersa dans l’éclume blanche
d’un ample peignoir de mussoline des Indes; la candida vestaglia di
mussolina, bianca immagine ritagliata dentro la cornice esotica, lussureggiante
del giglio rosso di Firenze (più tardi teatro di un’altra passione amorosa
romanzata da Anatole France).
Per Octave il mancato ottenimento del suo desiderio si trasforma
in ossessione maniacale; lo spinge ad accettare la proposta del dottor
Balthazar Cherbonneau: per virtù magiche trasmigra nel corpo del suo “rivale”,
legittimo marito della contessa. La traslatio animae non sortisce
effetto; gli occhi, gli occhi infuocati d’amore di Octave sono troppo distanti
dal sereno, sicuro amore del conte Olaf; nel duello fra i due, Octave ha la
possibilità di uccidere il “nemico”, carcerato in quel corpo, il suo, che tanto
oramai odia, un odio che travalica l’ostilità verso il marito della contessa.
Non lo fa; anzi chiede al dottore di ripristinare l’ordine delle cose. Al
momento di migrare di nuovo nel suo corpo, è proprio un’esitazione di questo
moderno alchimista, pris de pitié, a decidere la sua fuga; l’anima, una
“Psiche dalle ali che palpitano”, sale sempre più in alto, nulla oramai potendo
il severo richiamo del suo incantatore; petite lueur tremblotante,
piccola tremante luce, sguscia dalla finestra, svanisce. L’evasione dalla
prigione di quel corpo, contenitore d’un io che ha fallito il suo desiderio, fa
coincidere la libertà con la morte, l’affermazione di sé si dà per
annullamento, l’ego svaporando si determina. Tale il disprezzo per questa
immagine storta, tanto lontana da quella auspicata; nemica saldata alla
propria pelle, quasi calamita funesta, fatale compagna, sicaria congenita. Che
il dottor Cherbonneau, commosso e forse anche spaventato, si reincarni in
Octave, donandogli una seconda vita, non esprime una vera speranza di
rinascita; è sostituzione di intelligenze, supremazia di ingegno che si
perpetua: esercizio portentoso di chi domina le altrui vite. Quella, la vita di
Octave, ha creduto di mancare il suo destino, disperando di riformularlo in
qualche modo; la coscienza distorta d’essere una vittima innocente ha causato
il resto.
Seconda: Malek-adel redivivo
Nel 1872 sono trascorsi dieci anni da Padri e figli,
romanzo che segna per Turgenev l’interruzione provvisoria della sua carriera
letteraria, di sicuro il punto apicale della felicità narrativa, avviata anni
prima con le Memorie di un cacciatore; le feroci critiche dei giovani,
la rottura dei rapporti con illustri intellettuali dell’epoca gettano l’autore
in uno stato di profondo scoramento, spegnendo i suoi ultimi anni in una
produzione spesso fiacca e tendenziosa. In un contesto simile decide di
aggiungere nuovi racconti alla sua raccolta d’esordio, per l’appunto quelle Memorie,
il cui clamore ai tempi lo consacrò un maestro del realismo russo. I pezzi
passano da ventidue a venticinque e tra quelli aggiunti ce n’è uno: La fine
di Čertopchanov.
Il personaggio spicca per una certa fattura donchisciottesca:
s’aggira, fra i boschi e le forre, la sua malinconica figura con accanto
l’immancabile “Sancho”: un delizioso cliens della steppa, Nedopjusckin,
ritratto dall’autore con pregnante empatia. Lui, Čertopchanov,
rientra nella galleria dei padroni oramai decaduti, ma severamente nostalgici
del bel tempo che fu; la servitù della gleba sarà abolita pochi anni dopo e
Turgenev tratteggia con nettezza, talvolta impietosa, questi feudatari al
tramonto. Nel racconto aggiunto assistiamo alla sua progressiva rovina, non
tanto economica quanto morale: prima la giovane sposa, una zingara, lo
abbandona, agìta dalle sue furie nomadiche, poi muore Nedopjusckin. Solo e
sempre più amareggiato Čertopchanov, in virtù del bel
gesto di salvare un ebreo da un pogrom, riceve da lui, a un prezzo
irrisorio, un meraviglioso purosangue: un grigio pomellato chiamato Malek-Adel.
Questo esemplare magnifico per il
protagonista diventa motivo di riscatto, proiezione rigenerata di sé. Una
notte, però, il cavallo viene rubato; Čertopchanov non si
rassegna alla disperazione e decide di partire per ritrovarlo. Trascorso un
anno di ricerca in tutti i mercati russi, torna vittorioso.
Eppure, giorno dopo giorno, il Malek-Adel redivivo manifesta
sempre più qualcosa di cariato; un logorìo lento, inarrestabile cova dentro Čertopchanov, perché quel cavallo non ha le stesse movenze, i
medesimi pregi dell’altro. L’oscuramento dell’immagine storta,
così lungamente perpetrato, viene talvolta squarciato da lampi di lucidità;
finché il rovello cessa grazie a un diacono del paese che, incontrandoli, nota
una verità lapallisiana: come può un grigio pomellato dopo un anno non aver
ancora imbiancato il suo manto? Il cavallo montato da Čertopchanov
è ancora interamente grigio. Quello dunque non è Malek-Adel; quello è solo un
impostore. Meglio: un usurpatore.
Allo svelamento consegue il disprezzo per l’immagine storta;
fin quando una notte Čertopchanov, sorretto e sospinto da
una solenne ubriacatura, conduce il falso Malek-Adel nella campagna, in mano la
pistola. Sta per ucciderlo, esita; lo sprona giù per un dirupo. Incamminato
sulla via del ritorno, qualcosa lo tocca sulla schiena: il muso del cavallo.
Quell’immagine, sua figurazione, sua creatura, reclama di esistere: il
proprietario pensa di liberarsene uccidendola. Lo fa, ma poche settimane dopo Čertopchanov, consumato da una malattia fulminea, che lo
smagrisce e gli toglie la parola, si spegne, orribilmente trasfigurato.
Terza: alla fonte di Urdar
La principessa Brambilla di Hoffmann inscena un carnevale
romano quale sommo ministro del fantastico, mai disgiunto, però, da quella nota
d’ironia che è il sigillo più profondamente autentico dell’autore. Giglio Fava,
scadente attorucolo, sprofonda in un oscuramento della sua immagine storta grazie
al mago e ciarlatano Celionati, che gli fa credere d’essere l’oggetto d’amore
della principessa Brambilla, mentre il giovane, licenziato dal teatro Argentina,
fa parlare di sé la città per le sue stramberie; anche l’innamorata di Giglio,
la sartina Giacinta, è sulla bocca di tutti: avrebbe fatto girare la testa
niente meno che a un principe. Il racconto, trascorsi alcuni mirabolanti
capovolgimenti, transitando attraverso una sarabanda di svelamenti e
pittoresche fantasticherie, si conclude con un happy end: finito il
carnevale i due innamorati tornano ad essere quello che erano e per quello che
sono si amano. Celionati si rivela per il principe Pistoia, gran cerimoniere di
questo vorticoso putiferio.
Esiste, però, un breve inserto narrativo, carico di intense
sfumature allegoriche: nel Caffè Greco, dove Giglio si reca per gustare un
piatto di maccheroni, viene avviato il racconto del malinconico re di Urdar
Ofioch, cui non riesce a donare un sorriso neppure la sua fin troppo gaia
sposa, la regina Liris; per giunta i due finiscono per addormentarsi d’un sonno
profondissimo. Ma il mago Ermodio, al suo ritorno da Atlantide, dona agli
abitanti di Urdar una fonte, la quale possiede una virtù: riflette l’immagine,
ma capovolta. I sovrani, risvegliati, corrono a specchiarsi nella fonte per
primi e, trovatisi così deformati, finalmente riescono a sorridere proprio
davanti a quel loro io rovesciato, quell’immagine storta. Ma, sobillati
dai filosofi, che predicano come disdicevole guardare se stessi a testa in giù,
gli abitanti di Urdar iniziano a gettare immondizie nel lago, tanto da
trasformarlo in una palude graveolente. Intanto i due sovrani muoiono e il
popolo chiede soccorso di nuovo a Ermodio; nascerà, egli preconizza, la nuova
regina di Urdar dallo stagno. Così avverrà: la regina Mistilis, il cui
linguaggio, dapprincio incomprensibile, grazie al mago tornerà a farsi
comprendere.
Quando, passato il carnevale, il principe Pistoia, alias
Celionati, rimette in sesto la realtà riconsegnando i due giovani al loro amore
“ordinario”, nel suo discorso d’addio cita di nuovo la fonte di Urdar. In un
luogo la paragona allo specchio deformante del teatro, all’incanto e al
disincanto generati dal palcoscenico; poi si congeda con una fin troppo
scoperta chiarificazione (cap. VIII, trad. Laura Bocci):
(…) Sono venuto e verrò qui sempre nell’ora fatale del vostro
riconoscimento, per confortarmi insieme con voi al pensiero che dobbiamo
considerare ricchi e felici noi stessi e tutti coloro ai quali è riuscito di
guardare la vita, se stessi e tutto il loro essere nel meraviglioso specchio
solare del lago di Urdar e di riconoscervisi.
“L’ora fatale del riconoscimento”; quando accetti di “conoscerti
di nuovo”, di tornare a conoscerti. Dinanzi alla propria immagine storta
il popolo di Urdar reagisce rabbioso, vuole intorbidarla, cerca di oscurare
quell’immagine; al pari dello sventurato Octave de Saville, quando si affida
all’incantesimo del dottor Cherbonneau, o come Čertopchanov,
fintantoché si convince di aver recuperato il suo Malek-Adel. Svelata
quell’immagine, caduto il velo dagli occhi, tre risposte si danno davanti a
quello specchio deformante: distruggere l’immagine, cercare il colpevole di
tale deformazione, sorridere; il sorriso di chi si riconosce e
riconoscendosi rinasce, poiché, conformato alla mutevole morfologia dell’esperienza,
cammina accanto a se stesso, unica guida sovrana, secondo l’intera
lezione di Montaigne, l’esperienza medesima. Esperienza come sperimentazione
costante di sé; una laicissima esplorazione. Esplorazione da intendersi fino
all’ultima istanza, cioè profanazione di qualsivoglia idolo interno, che nel tempo ci siamo andati costruendo;
per dirla stirnerianamente, tradirsi ripetutamente è il cardine della
vera conoscenza di sé. Perché solo tradendoci ci “consegnamo” davvero a
noi stessi interamente.
24 febbraio 2018
Da https://www.nazioneindiana.com/
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