23 febbraio 2018

GARIBALDI IN SICILIA

Palermo 1860. Garibaldi a Piazza Pretoria in una illustrazione d'epoca
 

Garibaldi entra a Palermo 

Richard Newbury

 La battaglia di Calatafimi costituì il primo successo della strategia di Mazzini che consisteva nel mandare giovani martiri allo sbaraglio in missioni suicide. Il famoso motto di Garibaldi all’indirizzo di un titubante Nino Bixio, «qui si fa l’Italia O si muore», fu già un bel passo avanti rispetto al mazziniano «qui si fa l’Italia E si muore». Garibaldi in poncho si lanciò alla conquista di una fortezza naturale presidiata da 3.600 tra fucilieri e cavalleggeri napoletani che sparavano sui suoi; a prezzo di 400 perdite i Mille si aprirono la strada per Palermo a colpi di baionetta. «Quello che abbiamo fatto poteva essere concepito solo da Garibaldi» scrisse Bixio a sua moglie nella notte del 16 maggio. E due giorni dopo aggiunse: «Presto saremo a Palermo o all’inferno».
Per prevenire l’attacco alla città, 6 mila dei 24 mila soldati borbonici di guarnigione furono avanzati a Monreale e 4 mila a Parco. Garibaldi simulò una ritirata verso Corleone, ma invece abbandonò le salmerie e i feriti per proseguire l’avanzata nella notte e congiungersi a Misilmeri con i 3 mila «picciotti» di La Masa, vicino al lato orientale (debolmente difeso) di Palermo. Da Est arrivava anche un volontario inglese, il capitano John Dunne, soprannominato «Milordo», con la sua brigata anglo-siciliana di 600 uomini. Dunne proveniva da Messina, dove aveva ricevuto istruzioni da Cavour tramite il console piemontese Silfredi; arrivò in tempo per l’assalto a Palermo, portando anche una lettera in cui La Farina chiedeva a Garibaldi dove sbarcare armi e munizioni. Il colonnello Ferdinando Eber, un rifugiato ungherese naturalizzato britannico e dotato di un grado militare turco, era il corrispondente del “Times”. Appena arrivato si unì a Garibaldi, che conosceva per aver combattuto a Solferino e a Magenta sfoggiando la sua uniforme turca; Eber, al pari di Dunne, era destinato a diventare generale garibaldino, nel suo caso in qualità di comandante della 15a divisione, incaricata di controllare il territorio fra Catania e Palermo. Eber nei suoi lunghi reportage al “Times” non rivelò mai ai lettori che il loro corrispondente di guerra era anche un comandante sul campo. Ci ha lasciato anche un bel resoconto della presa di Palermo che si giova del suo occhio doppiamente competente - in quanto giornalista e combattente.
Garibaldi aveva progettato un attacco notturno a Palermo, ma la sorpresa sfumò quando i «picciotti» di La Masa cominciarono a schiamazzare nei sobborghi della città. Le truppe borboniche si misero a sparare verso di loro, di fronte e sui fianchi; le truppe di La Masa accennarono a scappare, e ai garibaldini toccò il duplice compito di attaccare i napoletani e di spingere avanti i picciotti.

L’ammiraglio britannico
Mundy, la cui flotta si trovava in zona, scrisse nel diario di bordo del suo vascello da guerra «Hannibal» alla data del 27 maggio: «Sono stato svegliato alle 4 di questa mattina da continue scariche di fucileria, e guardando dal mio oblò ho visto un reparto di napoletani che dal posto di guardia all’estremità orientale del porto si ritiravano in direzione della Cittadella; la retroguardia sparava a ritmo irregolare verso un nemico che per il momento non riuscivo a vedere... Questi uomini avevano quasi raggiunto la porta della Cittadella quando un drappello di ribelli con le bandiere tricolori accorsero in gran numero cercando di tagliar fuori le truppe borboniche; il fuoco di fucileria dalla fortezza fece svanire quest’illusione, e i ribelli furono costretti a cercare protezione nelle case e cominciarono a barricarsi».
«Poco dopo le 6 - continua il diario di Mundy - l’intera flotta napoletana aprì un fuoco indiscriminato sulla città, che presto apparve punteggiata di incendi. L’unica reazione da terra fu lo stormire delle campane in tutta Palermo, per chiamare la popolazione a un’insurrezione generale. A mezzogiorno l’intera città, con l’eccezione del palazzo reale e di quello arcivescovile, della Zecca e della Cittadella, era nelle mani del popolo, e Garibaldi aveva insediato il suo quartier generale nella centrale piazza del Pretorio».
Il generale borbonico Lanza fece un vigoroso quanto vano tentativo di indurre l’ammiraglio Mundy a compromettere la neutralità britannica e a combattere a fianco dei napoletani, ma il 30 maggio fu proprio nella cabina di Mundy sul vascello Hannibal, alla presenza di capitani francesi e americani in veste di testimoni, che venne firmato un armistizio fra Garibaldi e le forze borboniche; il giorno venne consegnata anche la Zecca, e un milione e 200 mila sterline passarono sotto il controllo di Crispi. Il 7 giugno un contingente di 15 mila soldati borbonici si imbarcò alla volta di Napoli. Palermo era indiscutibilmente nelle mani del Dittatore.

“La Stampa”, 10 agosto 2007

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