Palermo 1860. Garibaldi a Piazza Pretoria in una illustrazione d'epoca
Garibaldi entra a Palermo
Richard Newbury
La battaglia di
Calatafimi costituì il primo successo della strategia di Mazzini che
consisteva nel mandare giovani martiri allo sbaraglio in missioni
suicide. Il famoso motto di Garibaldi all’indirizzo di un titubante
Nino Bixio, «qui si fa l’Italia O si muore», fu già un bel passo
avanti rispetto al mazziniano «qui si fa l’Italia E si muore».
Garibaldi in poncho si lanciò alla conquista di una fortezza
naturale presidiata da 3.600 tra fucilieri e cavalleggeri napoletani
che sparavano sui suoi; a prezzo di 400 perdite i Mille si aprirono
la strada per Palermo a colpi di baionetta. «Quello che abbiamo
fatto poteva essere concepito solo da Garibaldi» scrisse Bixio a sua
moglie nella notte del 16 maggio. E due giorni dopo aggiunse: «Presto
saremo a Palermo o all’inferno».
Per prevenire l’attacco
alla città, 6 mila dei 24 mila soldati borbonici di guarnigione
furono avanzati a Monreale e 4 mila a Parco. Garibaldi simulò una
ritirata verso Corleone, ma invece abbandonò le salmerie e i feriti
per proseguire l’avanzata nella notte e congiungersi a Misilmeri
con i 3 mila «picciotti» di La Masa, vicino al lato orientale
(debolmente difeso) di Palermo. Da Est arrivava anche un volontario
inglese, il capitano John Dunne, soprannominato «Milordo», con la
sua brigata anglo-siciliana di 600 uomini. Dunne proveniva da
Messina, dove aveva ricevuto istruzioni da Cavour tramite il console
piemontese Silfredi; arrivò in tempo per l’assalto a Palermo,
portando anche una lettera in cui La Farina chiedeva a Garibaldi dove
sbarcare armi e munizioni. Il colonnello Ferdinando Eber, un
rifugiato ungherese naturalizzato britannico e dotato di un grado
militare turco, era il corrispondente del “Times”. Appena
arrivato si unì a Garibaldi, che conosceva per aver combattuto a
Solferino e a Magenta sfoggiando la sua uniforme turca; Eber, al pari
di Dunne, era destinato a diventare generale garibaldino, nel suo
caso in qualità di comandante della 15a divisione, incaricata di
controllare il territorio fra Catania e Palermo. Eber nei suoi lunghi
reportage al “Times” non rivelò mai ai lettori che il loro
corrispondente di guerra era anche un comandante sul campo. Ci ha
lasciato anche un bel resoconto della presa di Palermo che si giova
del suo occhio doppiamente competente - in quanto giornalista e
combattente.
Garibaldi aveva
progettato un attacco notturno a Palermo, ma la sorpresa sfumò
quando i «picciotti» di La Masa cominciarono a schiamazzare nei
sobborghi della città. Le truppe borboniche si misero a sparare
verso di loro, di fronte e sui fianchi; le truppe di La Masa
accennarono a scappare, e ai garibaldini toccò il duplice compito di
attaccare i napoletani e di spingere avanti i picciotti.
L’ammiraglio
britannico
Mundy, la cui flotta si
trovava in zona, scrisse nel diario di bordo del suo vascello da
guerra «Hannibal» alla data del 27 maggio: «Sono stato svegliato
alle 4 di questa mattina da continue scariche di fucileria, e
guardando dal mio oblò ho visto un reparto di napoletani che dal
posto di guardia all’estremità orientale del porto si ritiravano
in direzione della Cittadella; la retroguardia sparava a ritmo
irregolare verso un nemico che per il momento non riuscivo a
vedere... Questi uomini avevano quasi raggiunto la porta della
Cittadella quando un drappello di ribelli con le bandiere tricolori
accorsero in gran numero cercando di tagliar fuori le truppe
borboniche; il fuoco di fucileria dalla fortezza fece svanire
quest’illusione, e i ribelli furono costretti a cercare protezione
nelle case e cominciarono a barricarsi».
«Poco dopo le 6 -
continua il diario di Mundy - l’intera flotta napoletana aprì un
fuoco indiscriminato sulla città, che presto apparve punteggiata di
incendi. L’unica reazione da terra fu lo stormire delle campane in
tutta Palermo, per chiamare la popolazione a un’insurrezione
generale. A mezzogiorno l’intera città, con l’eccezione del
palazzo reale e di quello arcivescovile, della Zecca e della
Cittadella, era nelle mani del popolo, e Garibaldi aveva insediato il
suo quartier generale nella centrale piazza del Pretorio».
Il generale borbonico
Lanza fece un vigoroso quanto vano tentativo di indurre l’ammiraglio
Mundy a compromettere la neutralità britannica e a combattere a
fianco dei napoletani, ma il 30 maggio fu proprio nella cabina di
Mundy sul vascello Hannibal, alla presenza di capitani francesi e
americani in veste di testimoni, che venne firmato un armistizio fra
Garibaldi e le forze borboniche; il giorno venne consegnata anche la
Zecca, e un milione e 200 mila sterline passarono sotto il controllo
di Crispi. Il 7 giugno un contingente di 15 mila soldati borbonici si
imbarcò alla volta di Napoli. Palermo era indiscutibilmente nelle
mani del Dittatore.
“La Stampa”, 10
agosto 2007
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