Il lager di Arbe (Rab in slavo)
Popolazione civile slovena fucilata dai fascisti italiani
Per comprendere bene i fatti tremendi accaduti sul
fronte italo-slavo nell'ultimo dopoguerra non si può parlare solo di foibe. La
storia va scritta e raccontata integralmente, senza mai seguire le mode del
momento. Persino un giornale come LA STAMPA si è mostrato più onesto ed obiettivo
di tanti altri al riguardo. (fv)
Isola di Arbe
la memoria rimossa del Lager italiano in Jugoslavia
Eric
Gobetti
Alla maggior parte dei torinesi - e
degli italiani in genere - il nome di Arbe non dice nulla, non richiama alcun
significato metaforico o simbolico. Eppure nel corso della Seconda guerra
mondiale proprio sull’isola di Rab (Arbe in italiano) era stato creato il
peggior campo di concentramento italiano, dove vennero internati decine di
migliaia di cittadini jugoslavi, soprattutto civili, donne e bambini. Un
crimine che non ha mai trovato giustizia, vista la mancanza di una «Norimberga
italiana» alla fine del conflitto; una pagina nera della nostra storia, che non
ha mai avuto spazio nei manuali scolastici e nelle celebrazioni ufficiali.
C’è un’anomalia storica nel nostro
paese, che riguarda la memoria della Seconda guerra mondiale. Per una serie di
ragioni - storiche, politiche, psicologiche - abbiamo rimosso gran parte
dell’esperienza di conflitto precedente all’Armistizio dell’8 settembre 1943 e
tutto il Ventennio precedente viene riscattato dall’esperienza partigiana, che
ricrea dalle ceneri del fascismo un’Italia nuova e democratica. Della guerra
dal 1940 al 1943 rimangono nella memoria pubblica pochi sprazzi, spesso legati
a pellicole cinematografiche di successo: la ritirata dalla Russia,
magistralmente raccontata in Italiani brava gente; la sconfitta nel deserto
africano, descritta in El Alamein; le atmosfere da vacanza coatta di
Mediterraneo. Sono in definitiva episodi di sconfitta: nell’immaginario
collettivo gli italiani appaiono sempre solo come vittime della guerra e del
regime.
Eppure il nostro esercito,
l’esercito fascista, aveva pure ottenuto dei successi; o meglio si era trovato
dalla parte dei vincitori tedeschi, imponendo il suo dominio, fino alla
catastrofe del 1943, su una parte consistente dei Balcani. In quest’area così
significativa per l’imperialismo italiano il regime aveva impiegato le sue
migliori risorse militari, diplomatiche e propagandistiche, arrivando a
schierare fra i seicento e i settecentomila uomini. Circa metà dell’intera
fanteria a disposizione dell’esercito italiano ha dunque vissuto l’esperienza
di un’occupazione militare in territori animati dalla resistenza contro gli
invasori: ha combattuto in pratica contro i partigiani. Un’esperienza dura,
complessa, difficile da comprendere e da descrivere, difficile da ricordare.
L’occupazione italiana è fatta di
chiaroscuri: episodi di solidarietà, di aiuto alle popolazioni, con la difesa
dei civili serbi dalle stragi commesse dai fascisti croati ustascia; ma anche
crimini terribili, ordinati con cinismo da generali senza scrupoli, come la
cattura di ostaggi, le fucilazioni dei sospetti, la distruzione di interi
villaggi. E infine le deportazioni: centomila persone internate in Lager che
non sono campi di sterminio (non hanno camere a gas o forni crematori) ma
portano alla morte per inedia di circa cinquemila persone, 1.500 solo ad Arbe.
Ecco, siamo tornati ad Arbe, la
piccola isola della Dalmazia, una specie di paradiso terrestre che si trasforma
in un inferno per chi vi finisce rinchiuso nei quattordici mesi in cui il campo
è attivo, tra il giugno del 1942 e il settembre del 1943. Eppure proprio Arbe
può essere considerato un caso esemplare delle contraddizioni del sistema
d’occupazione italiano. Qui, accanto alle baracche dove muoiono di stenti i
civili jugoslavi, viene creato un campo speciale per ebrei. Si tratta di
profughi provenienti da tutta Europa, vittime delle persecuzioni naziste,
rinchiusi ad Arbe col preciso scopo di sottrarli allo sterminio. E così, mentre
le massime autorità si affannano per salvare queste vittime innocenti, nel
Lager per slavi si continua a morire di fame, suscitando i cinici commenti del
generale Gambara: «Campo di concentramento non significa campo di
ingrassamento. Individuo malato = individuo che sta tranquillo».
Da qualche ora si è spenta l’eco del
Giorno del Ricordo, la data commemorativa istituita nel 2004 in omaggio alle
vittime delle violenze (molti gettati nelle foibe) sul confine orientale alla
fine della guerra, e ai profughi dall’Istria e dalla Dalmazia. Ricordare
significa innanzitutto conoscere, capire. È questo il modo migliore per onorare
le vittime, tutte, da una parte e dall’altra, di una guerra ingiusta. Il
ricordo dei nostri caduti, dei nostri deportati nel Terzo Reich, delle vittime
delle violenze jugoslave deve necessariamente essere affiancato dalla ferma
condanna delle responsabilità storiche dell’imperialismo fascista. C’è bisogno
che questa conoscenza, questo riconoscimento, diventi memoria pubblica, senso
comune. Ma serve l’impegno di tutti: degli studiosi, dei divulgatori, delle
istituzioni.
Sono passati quasi settantacinque
anni. È tempo di affrontare consapevolmente questa pagina di storia senza
retorica, senza paura, senza tabù; con la serenità del vecchio reduce che non
ha niente da nascondere, niente da temere.
La Stampa 15 febbraio 2017
http://www.lastampa.it/2017/02/15/cultura/isola-di-arbe-la-memoria-rimossa-del-lager-italiano-in-jugoslavia-R5ANfmMbU7JEFGt76prqhK/pagina.html
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