11 febbraio 2018

CONTRO L' USO STRUMENTALE DELLA STORIA

Il lager di Arbe (Rab in slavo)


Popolazione civile slovena fucilata dai fascisti italiani





Per comprendere bene i fatti tremendi accaduti sul fronte italo-slavo nell'ultimo dopoguerra non si può parlare solo di foibe. La storia va scritta e raccontata integralmente, senza mai seguire le mode del momento. Persino un giornale come LA STAMPA si è mostrato più onesto ed obiettivo di tanti altri al riguardo. (fv)

Isola di Arbe
 la memoria rimossa del Lager italiano in Jugoslavia
Eric Gobetti  

Alla maggior parte dei torinesi - e degli italiani in genere - il nome di Arbe non dice nulla, non richiama alcun significato metaforico o simbolico. Eppure nel corso della Seconda guerra mondiale proprio sull’isola di Rab (Arbe in italiano) era stato creato il peggior campo di concentramento italiano, dove vennero internati decine di migliaia di cittadini jugoslavi, soprattutto civili, donne e bambini. Un crimine che non ha mai trovato giustizia, vista la mancanza di una «Norimberga italiana» alla fine del conflitto; una pagina nera della nostra storia, che non ha mai avuto spazio nei manuali scolastici e nelle celebrazioni ufficiali.  

C’è un’anomalia storica nel nostro paese, che riguarda la memoria della Seconda guerra mondiale. Per una serie di ragioni - storiche, politiche, psicologiche - abbiamo rimosso gran parte dell’esperienza di conflitto precedente all’Armistizio dell’8 settembre 1943 e tutto il Ventennio precedente viene riscattato dall’esperienza partigiana, che ricrea dalle ceneri del fascismo un’Italia nuova e democratica. Della guerra dal 1940 al 1943 rimangono nella memoria pubblica pochi sprazzi, spesso legati a pellicole cinematografiche di successo: la ritirata dalla Russia, magistralmente raccontata in Italiani brava gente; la sconfitta nel deserto africano, descritta in El Alamein; le atmosfere da vacanza coatta di Mediterraneo. Sono in definitiva episodi di sconfitta: nell’immaginario collettivo gli italiani appaiono sempre solo come vittime della guerra e del regime. 

Eppure il nostro esercito, l’esercito fascista, aveva pure ottenuto dei successi; o meglio si era trovato dalla parte dei vincitori tedeschi, imponendo il suo dominio, fino alla catastrofe del 1943, su una parte consistente dei Balcani. In quest’area così significativa per l’imperialismo italiano il regime aveva impiegato le sue migliori risorse militari, diplomatiche e propagandistiche, arrivando a schierare fra i seicento e i settecentomila uomini. Circa metà dell’intera fanteria a disposizione dell’esercito italiano ha dunque vissuto l’esperienza di un’occupazione militare in territori animati dalla resistenza contro gli invasori: ha combattuto in pratica contro i partigiani. Un’esperienza dura, complessa, difficile da comprendere e da descrivere, difficile da ricordare.  

L’occupazione italiana è fatta di chiaroscuri: episodi di solidarietà, di aiuto alle popolazioni, con la difesa dei civili serbi dalle stragi commesse dai fascisti croati ustascia; ma anche crimini terribili, ordinati con cinismo da generali senza scrupoli, come la cattura di ostaggi, le fucilazioni dei sospetti, la distruzione di interi villaggi. E infine le deportazioni: centomila persone internate in Lager che non sono campi di sterminio (non hanno camere a gas o forni crematori) ma portano alla morte per inedia di circa cinquemila persone, 1.500 solo ad Arbe.  

Ecco, siamo tornati ad Arbe, la piccola isola della Dalmazia, una specie di paradiso terrestre che si trasforma in un inferno per chi vi finisce rinchiuso nei quattordici mesi in cui il campo è attivo, tra il giugno del 1942 e il settembre del 1943. Eppure proprio Arbe può essere considerato un caso esemplare delle contraddizioni del sistema d’occupazione italiano. Qui, accanto alle baracche dove muoiono di stenti i civili jugoslavi, viene creato un campo speciale per ebrei. Si tratta di profughi provenienti da tutta Europa, vittime delle persecuzioni naziste, rinchiusi ad Arbe col preciso scopo di sottrarli allo sterminio. E così, mentre le massime autorità si affannano per salvare queste vittime innocenti, nel Lager per slavi si continua a morire di fame, suscitando i cinici commenti del generale Gambara: «Campo di concentramento non significa campo di ingrassamento. Individuo malato = individuo che sta tranquillo». 

Da qualche ora si è spenta l’eco del Giorno del Ricordo, la data commemorativa istituita nel 2004 in omaggio alle vittime delle violenze (molti gettati nelle foibe) sul confine orientale alla fine della guerra, e ai profughi dall’Istria e dalla Dalmazia. Ricordare significa innanzitutto conoscere, capire. È questo il modo migliore per onorare le vittime, tutte, da una parte e dall’altra, di una guerra ingiusta. Il ricordo dei nostri caduti, dei nostri deportati nel Terzo Reich, delle vittime delle violenze jugoslave deve necessariamente essere affiancato dalla ferma condanna delle responsabilità storiche dell’imperialismo fascista. C’è bisogno che questa conoscenza, questo riconoscimento, diventi memoria pubblica, senso comune. Ma serve l’impegno di tutti: degli studiosi, dei divulgatori, delle istituzioni.  
Sono passati quasi settantacinque anni. È tempo di affrontare consapevolmente questa pagina di storia senza retorica, senza paura, senza tabù; con la serenità del vecchio reduce che non ha niente da nascondere, niente da temere.  
La  Stampa 15 febbraio 2017
http://www.lastampa.it/2017/02/15/cultura/isola-di-arbe-la-memoria-rimossa-del-lager-italiano-in-jugoslavia-R5ANfmMbU7JEFGt76prqhK/pagina.html
  

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