07 giugno 2015

IL CALCIO E LO SCOPONE SECONDO GRAMSCI




Visto cosa è diventato il calcio, dubito che Gramsci oggi andrebbe la domenica allo Stadio. Ma c'è stato un tempo in cui il football era semplicemente  uno sporte, in quel tempo il giovane Gramsci scrisse un articolo che ci piace ricordare.

Gramsci, il calcio e lo scopone
  Pasquale Coccia

Se Anto­nio Gram­sci fosse vivo, la dome­nica andrebbe allo sta­dio. Non sap­piamo se fre­quen­te­rebbe lo Juven­tus Sta­dium, il gio­iel­lino di casa Agnelli, edi­fi­cato sulla scia degli stadi di pro­prietà delle più grandi squa­dre euro­pee, per seguire le imprese cal­ci­sti­che dei bian­co­neri, oppure andrebbe più volen­tieri a vedere le par­tite del Torino, che il sem­pli­ci­smo cal­ci­stico vor­rebbe essere la squa­dra degli ope­rai della Fiat, oggi di pro­prietà di Cairo, il patron di La 7.

Circa un secolo fa, nelle sue rubri­che di costume sull’ Avanti! poi rac­colte nel volume Sotto la Mole, Anto­nio Gram­sci invi­tava gli ope­rai a fre­quen­tare lo sta­dio, esal­tando il mondo del cal­cio come espres­sione della moder­nità. Il futuro segre­ta­rio del par­tito comu­ni­sta ana­lizzò due aspetti del tempo libero degli ope­rai: il cal­cio e il gioco delle carte.

Lo scritto gram­sciano pub­bli­cato sotto il titolo emble­ma­tico Il Foot­ball e lo sco­pone è l’occasione per ana­liz­zare i vizi e le virtù degli ita­liani attra­verso il gioco del cal­cio, che meta­fo­ri­ca­mente rap­pre­sen­tava la società libe­rale, quella anglo­sas­sone e patria del cal­cio, con­trap­po­sta alla società della cor­ru­zione e dell’imbroglio italiana-giolittiana: «Anche in que­ste atti­vità mar­gi­nali degli uomini si riflette la strut­tura economico-politica degli Stati. Lo sport è atti­vità dif­fusa delle società nelle quali l’individualismo eco­no­mico del regime ha tra­sfor­mato il costume, ha susci­tato accanto alla libertà eco­no­mica e poli­tica anche la libertà spi­ri­tuale e la tol­le­ranza dell’opposizione».

Gram­sci in realtà parte da una lunga pre­messa sul modo di essere degli ita­liani, che pre­fe­ri­scono lo stile di vita pan­to­fo­laio, con­fer­mato un secolo dopo da una recente inda­gine di Euro­ba­ro­me­tro, l’istituto di ricerca dell’Ue, che clas­si­fica gli ita­liani tra i più seden­tari d’Europa dopo i greci e i bul­gari. «Gli ita­liani amano poco lo sport; gli ita­liani allo sport pre­fe­ri­scono lo sco­pone. All’aria aperta pre­fe­ri­scono la clau­sura in una bettola-caffè, al movi­mento la quiete intorno al tavolo» pre­mette Gram­sci, prima di adden­trarsi in un’analisi inte­res­sante che mette a con­fronto la cul­tura del cal­cio e quella dello sco­pone, espres­sione di due modi con­trap­po­sti di con­ce­pire la società: «Osser­vate una par­tita di foot­ball: essa è un modello di società indi­vi­dua­li­stica: vi si eser­cita l’iniziativa, ma essa è defi­nita dalla legge. Le per­so­na­lità si distin­guono gerar­chi­ca­mente, ma la distin­zione avviene non per car­riera ma per capa­cità spe­ci­fica; c’è il movi­mento, la gara, la lotta, ma esse sono rego­late da una legge non scritta, che si chiama lealtà e viene con­ti­nua­mente ricor­data dalla pre­senza dell’arbitro. Pae­sag­gio aperto, cir­co­la­zione di aria, pol­moni sani, muscoli forti, sem­pre tesi all’azione».

Quando Anto­nio Gram­sci scri­veva que­ste note il cam­pio­nato di cal­cio era ancora sospeso per via degli ultimi mesi della Grande Guerra, ma nono­stante l’interruzione dei cam­pio­nati egli aveva potuto cogliere l’essenza del foot-ball, come si scri­veva allora, gra­zie al pro­li­fe­rare di squa­dre di cal­cio dilet­tan­ti­sti­che su tutto il ter­ri­to­rio nazio­nale e al fatto che il suo osser­va­to­rio fosse Torino, città che sin dalla fine dell’800 aveva ospi­tato in un unico giorno il primo cam­pio­nato ita­liano di cal­cio, vinto dal Genoa, che si aggiu­dicò il primo scu­detto.

Se per Gram­sci la par­tita di cal­cio è l’emblema della demo­cra­zia, per­ché si disputa a cielo aperto e sotto gli occhi del pub­blico, che può distin­guere e apprez­zare i cal­cia­tori per capa­cità, di tutt’altro spi­rito è impre­gnata la cul­tura dello sco­pone: «Una par­tita allo sco­pone. Clau­sura, fumo, luce arti­fi­ciale. Urla, pugni sul tavolo e spesso sulla fac­cia dell’avversario…o del com­plice. Lavo­rio per­verso del cer­vello. Dif­fi­denza reci­proca. Diplo­ma­zia segreta. Carte segnate. Stra­te­gia delle gambe e della punta dei pedi. Una legge? Dov’è la legge che biso­gna rispet­tare? Essa varia di luogo in luogo, ha diverse tra­di­zioni, è occa­sione con­ti­nua di con­te­sta­zione e litigi».

Se per il futuro segre­ta­rio del par­tito comu­ni­sta ita­liano che sarà fon­dato a Livorno tre anni dopo que­ste note, nel gen­naio del 1921 «lo sport suscita anche in poli­tica il con­cetto di ‘gioco leale’» secondo il diri­gente poli­tico sardo la cul­tura dello sco­pone è l’espressione più retriva della società: «Lo sco­pone è la forma di sport della società eco­no­mi­ca­mente arre­trata, poli­ti­ca­mente e spi­ri­tual­mente, dove la forma di con­vi­venza civile è carat­te­riz­zata dal con­fi­dente di poli­zia, dal que­stu­rino in bor­ghese, dalla let­tera ano­nima, dal culto dell’incompetenza, dal car­rie­ri­smo (con rela­tivi favori e gra­zie del deputato).Lo sco­pone pro­duce i signori che fanno met­tere alla porta dal prin­ci­pale l’operaio che nella libera discus­sione ha osato con­trad­dire il loro pensiero».

L’interesse di Gram­sci verso il cal­cio non fu un fatto iso­lato, anche altri segre­tari del par­tito comu­ni­sta mani­fe­sta­rono, sep­pur segre­ta­mente, una vera e pro­pria pas­sione per il cal­cio che in più occa­sioni si tra­sformò in tifo per la Juven­tus.

Dopo la Libe­ra­zione, Pal­miro Togliatti ogni lunedì chie­deva al vice­se­gre­ta­rio del Pci, Pie­tro Sec­chia, che cosa avesse fatto la Juve il giorno prima, e Sec­chia che si era for­mato alla fer­rea scuola del Pci e mai si era inte­res­sato di cal­cio, spiaz­zato dalla richie­sta del segre­ta­rio assu­meva un’espressione inter­ro­ga­tiva, in quel pre­ciso momento Pal­miro Togliatti gli diceva con aria bona­ria: «Vuoi fare la rivo­lu­zione senza sapere i risul­tati delle par­tite di cal­cio?».

Anche Enrico Ber­lin­guer, pur avendo nel cuore il Cagliari, alle cui par­tite assi­steva quando andava in Sar­de­gna per impe­gni poli­tici, si tenne sul solco del tifo bian­co­nero, attri­buendo que­sta scelta, quasi scu­san­dosi, a un pec­cato di gio­ventù. Enrico Ber­lin­guer, con­fessò il suo tifo per la Juve a un sardo d’adozione, che rap­pre­sen­tava la punta di dia­mante del Cagliari e della nazio­nale di cal­cio, Gigi Riva, il quale anni dopo rivelò la pas­sione bian­co­nera del segre­ta­rio del Pci nel corso di una tra­smis­sione radiofonica.

Il Manifesto – 11 aprile 2015
 

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