Una carta del precariato? Intervista a Guy Standing
Per farlo, spiega Standing, occorre partire da due priorità: ripensare lo stesso concetto di lavoro, includendovi sia le attività produttive sia quelle riproduttive e il tempo libero, e rivedere l’intero sistema della redistribuzione della ricchezza, introducendo un reddito minimo universale. «Non una panacea», sostiene Standing, co-presidente del Bien, il network internazionale che promuove l’adozione del basic income, ma «una misura necessaria per rifondare su base solidaristica l’intero sistema di protezione sociale». Perché la vera sfida «che abbiamo di fronte è assicurarci che i diritti economici siano la conquista definitiva del ventunesimo secolo».
Professor Standing, con Diventare cittadini lei propone una vera e propria Carta dei diritti del precariato, costituita da 29 articoli. Eppure sulla stessa definizione di precariato ci si intende poco, tanto che qualcuno nega che si tratti di una classe sociale ben definita. Ci spiega quali sono le caratteristiche che secondo lei rendono il precariato una precisa classe sociale?
Il precariato può essere definito attraverso tre criteri principali: le specifiche relazioni di produzione, di distribuzione e di relazione con lo stato. Con relazioni di produzione intendo dire che i precari sono stati abituati ad accettare una vita lavorativa instabile, al di fuori del tempo di lavoro convenzionale, etc. Le relazioni di distribuzione significano invece che i precari devono fare affidamento quasi esclusivamente sul salario, sulla paga in denaro, e che sono privi di ogni beneficio che non sia salariale, come le vacanze e le malattie retribuite, le pensioni contributive, etc. Questo significa che devono cercare di ottenere benefici statali fondati non sui diritti, ma sul superamento di test specifici. Le relazioni con lo stato rappresentano un aspetto ulteriore, e molto preoccupante: i membri del precariato stanno perdendo i diritti di cittadinanza e vengono progressivamente ridotti allo status di supplicanti. Per me, è questa la caratteristica essenziale di chi fa parte del precariato. Vuol dire che non hai diritto a ricevere nulla, devi supplicare, e sperare che la supplica venga esaudita. Si rischia di diventare mendicanti per ogni cosa, in ogni aspetto della vita, con gli amici, con i parenti, e infine con lo stato.
Al di là di queste caratteristiche comuni, nel suo libro riconosce una preoccupante frammentazione all’interno del precariato, definendola una «classe sociale in guerra con sé stessa». Cosa differenzia le tre categorie di precari da lei individuate?
Il precariato è attualmente diviso in tre “fazioni”. La prima è quella di coloro che sono decaduti e che provengono dalle vecchie famiglie o comunità proletarie. Li definisco gli “atavisti”. Loro, o più probabilmente i loro genitori, hanno svolto dei lavori di tipo industriale, o altri lavori manuali, che garantivano un certo status e una certa sicurezza di lavoro. Ora invece percepiscono un senso di privazione relativa, rispetto a un passato perduto che non può più essere ricreato. Privi di un’educazione universitaria, molti membri di questa fazione ascoltano con interesse le voci e le sirene degli esponenti dell’estrema destra, che incolpano dell’insicurezza la seconda fazione, quella dei migranti, dei disabili, delle minoranze etniche e via dicendo. Gli esponenti di questa seconda fazione non hanno sicurezze, neanche un senso sicuro della propria casa, e per questo dovrebbero essere chiamati “nostalgici”. Tengono perlopiù la testa bassa e provano a concentrarsi sulla sopravvivenza economica. Ma le pressioni che subiscono spesso sono troppo forti, e finiscono per esplodere in giornate di rabbia.
La terza fazione è quella di coloro che fanno parte del precariato ma dispongono di un’educazione superiore o universitaria. Gli è stato promesso un Futuro con la f maiuscola, una Carriera degna di questo nome. Ma ora non hanno che disillusione. La loro privazione relativa è dovuta a un Futuro perduto. In questo senso, la prima categoria è caratterizzata da un passato perduto, la seconda da un presente perduto, e la terza da un futuro perduto. Affinché il precariato possa divenire, in termini marxiani, una classe-per-sé, un numero maggiore di esponenti della seconda fazione dovrebbe unire le proprie forze con quelli della terza fazione. E una politica progressista dovrebbe riuscire ad attrarre molti di quelli che attualmente fanno parte della prima fazione. Come spiego in Diventare cittadini, credo che queste transizioni stiano avvenendo, anche se lentamente.
I precari da cittadini diventano supplicanti perché – scrive nel suo libro – «gli vengono negati certi diritti o viene loro impedito di ottenerli o di mantenerli». Lei attribuisce questo passaggio alla diffusione dell’utilitarismo, «che ha garantito alla politica mainstream una scusa per giustificare il fatto che i precari venissero privati dei diritti sociali». È una critica che rivolge sia ai partiti di centro-destra che di centro-sinistra…
È così. È una tendenza che ha a che fare con la natura stessa della politica mercificata di oggi. Fondamentalmente, i vecchi partiti politici mainstream di centro-sinistra e centro-destra provano a vendersi a coloro che, secondo la loro visione, rappresentano la “classe media”. Nelle fasi finali del ventesimo secolo, questi partiti hanno deciso che la maggioranza della società si trovasse in quel particolare gruppo sociale. Così, hanno provato e provano a vendersi offrendo “felicità” alla “maggioranza”. Il problema di questa strategia è che consente di fregarsene della “felicità” della “minoranza”. Non è un caso che questi partiti possano demonizzare quel che per loro sono i membri della minoranza, chiamandoli pigri, scrocconi, imbroglioni, bamboccioni, fardelli della società, e via dicendo. Ovviamente tutto ciò è immorale. E credo che sia anche contro-producente, perché il precariato sta velocemente diventando ampio quanto la cosiddetta classe media.
Nonostante sia costretto a supplicare e sia soggetto a un dominio arbitrario, secondo la sua analisi il precariato potrebbe assumere un ruolo centrale nell’attuale periodo storico, che lei definisce come «grande trasformazione». Cosa intende quando scrive che il precariato ha un potenziale «trasformativo e pericoloso»?
Credo che il precariato sia una classe pericolosa – o una classe-in-divenire – perché rigetta intuitivamente le ideologie politiche mainstream del neoliberismo (inclusa la democrazia cristiana e il conservatorismo) e lo stessa socialdemocrazia (o “laburismo”). Mentre una parte del precariato è ancora trascinata nel populismo e perfino nel neo-fascismo, la parte più educata cerca consapevolmente una nuova politica progressista. In questo senso, è potenzialmente trasformatrice. Nel mio libro spiego che il precariato è trasformativo perché vuole diventare abbastanza forte da abolire le stesse condizioni che lo definiscono come tale, abolendo infine se stesso. È dunque pericoloso in un senso che reputo molto positivo.
Un esito perverso del neoliberismo e dell’utilitarismo è il “paternalismo libertario”, secondo il quale i diritti sono condizionati a particolari comportamenti o atteggiamenti, non allo status di cittadino. In che modo questa tendenza moralizzatrice ha influenzato le riforme dei sistemi di protezione sociale?
È una questione estremamente importante. Ho scritto molto a proposito della deriva globale verso il paternalismo libertario e le sue forme più virulente, verso ciò che chiamo stato panottico, richiamando il concetto di Jeremy Bentham e il modo in cui è stato ripreso e articolato da Michel Foucault. Capeggiati da gente come Cass Sunstein e Richard Thaler, i paternalisti libertari sono molto influenti. Vogliono indirizzare la gente – spingerla – a compiere “la scelta giusta”. L’alternativa a questa prospettiva paternalistica è migliorare l’educazione e consentire alla gente di ottenere la “giusta” informazione, lasciandola decidere per se stessa. Ancora più triste è il fatto che il paternalismo si accompagni con ciò che definisco come “religionificazione” delle politiche sociali, con forti implicazioni moralistiche. Mi spiego meglio: la tendenza a dire alle persone che la loro insicurezza economica dipende da una loro colpa e che in qualche modo hanno peccato è uno strumento per togliere diritti e punire la gente che più ha bisogno. È una pratica vergognosa, fondata sul pregiudizio.
Nel suo libro elenca i 29 articoli di una vera e propria Carta del precariato. Con il primo articolo, invoca la necessità di ridefinire il concetto di lavoro come attività produttiva e riproduttiva, sottolineando che «l’opera, l’attività deve essere salvata dal lavoro», inteso come lavoro salariato. Perché ritiene che la legittimazione di un concetto più ampio di lavoro rispetto a quello attuale sia cruciale per ogni vera strategia progressista?
Credo fermamente che definire il lavoro semplicemente come “labour”, come attività svolta per il salario, sia stato un grande errore della politica progressista del ventesimo secolo. Tutte le altre forme di attività (“work”) spariscono statisticamente, oltre che dall’immaginazione politica. Ciò distorce i nostri valori e le nostre politiche sociali. Significa inoltre che molto di ciò che le donne fanno viene marginalizzato e trattato come insignificante, e significa allo stesso modo che molto di ciò che i precari devono fare per sopravvivere viene ignorato. Dobbiamo ripensare il work, l’opera che ha un valore d’uso, attribuendo il dovuto rispetto al tempo libero nel senso in cui gli antichi Greci intendevano il concetto di schole, il partecipare attivamente alla vita della polis, dell’agora, dei beni comuni.
Nel suo libro, così come in molti altri saggi recenti, lei enfatizza un punto: la necessità di sfuggire alla «trappola lavorista». Cosa intende con questo termine e perché crede che «la libertà dal lavoro» sia essenziale per una visione progressista?
La trappola lavorista è duplice. In primo luogo, dal punto di vista morale non ha alcun senso far dipendere i “diritti” dall’esecuzione del lavoro o dalla dimostrazione di essere intenzionati a farlo. Non è altro che una ricetta per il dominio, del capitale e del neoliberismo. Conduce inevitabilmente a ciò che nel mondo anglosassone viene definito come “workfare”, la coercizione dei disoccupati, e dei giovani in particolare, affinché accettino lavori di bassa qualità o di bassa remunerazione (o addirittura senza remunerazione), se non vogliono perdere i benefici dello stato. Con “libertà dal lavoro” intendo in primo luogo – ma non soltanto – libertà nel senso della coscienza. La società ha bisogno che le persone svolgano un lavoro. È una realtà, che ci piaccia o meno. Ma in un contesto simile, la maggior parte della gente dovrebbe essere in grado di trattare il lavoro che svolge o che ci si aspetta che svolga in modo strumentale, non come la fonte della propria “felicità” o perfino della propria “soddisfazione”. Se ci potessimo sentire liberi dal lavoro in questo senso soggettivo, potremmo essere meno ansiosi, concentrando le nostre energie sulle attività che vogliamo realmente fare, incluso il prenderci cura delle persone che amiamo e il preoccuparci della nostra comunità.
Lei ricorda che, dal diciannovesimo secolo fino agli anni Settanta del secolo scorso, i rappresentanti del proletariato – i partiti socialdemocratici e del lavoro, i sindacati – hanno lottato per demercificare il lavoro rendendolo più “decente” o rivendicando un reddito maggiore. Oggi questa è una strategia perdente, scrive, perché dovremmo puntare «a demercificare le persone (la forza-lavoro) piuttosto che il lavoro». Ci spiega meglio?
Si, è una tesi centrale dei miei ultimi libri. Il lavoro che svolgiamo è un’attività, un uso del tempo, dell’energia e delle capacità individuali. Dovremmo volere che le transazioni di lavoro siano uno scambio tra adulti. Tu hai bisogno che un certo lavoro venga svolto, io ho bisogno di soldi. Negoziamo. Accordiamoci e poi stringiamoci la mano. Dovrebbe essere una transazione tra uguali, trasparente, che include un contratto monetario. Ancorare i diritti sociali al lavoro, invece, lo rende una relazione tra diseguali, oltre a essere paternalistico. Se cominciassimo a “demercificare” noi stessi, come forza-lavoro, potremmo essere messi nelle condizioni di dire “no” a una certa contrattazione nell’offerta. Non dovremmo essere costretti ad accettare qualunque cosa soltanto perché abbiamo un disperato bisogno di soldi. Questa è una delle ragioni per cui bisogna rivendicare un reddito minimo universale.
Da anni in effetti lei sostiene che uno degli strumenti per superare la trappola “lavorista” e socialdemocratica sia intendere la sicurezza economica di base come un vero e proprio diritto fondamentale, garantendolo attraverso un reddito minimo. Di cosa si tratta, e perché i governi dovrebbe istituirlo come diritto di cittadinanza?
Si tratta di un pagamento mensile, in contanti, pagato a ogni singolo uomo, donna e a ogni bambino che risieda legalmente in una data società. In termini di comportamento, sarebbe incondizionato, e sarebbe inoltre corrisposto indipendentemente dallo status lavorativo presente o passato. Ci sono molte ragioni per muoversi in questa direzione, ragioni di cui parlo ampiamente nei miei testi. Credo che sia giustificato per ragioni di tipo etico e filosofico, non solo come uno strumento per rispondere alla povertà e all’insicurezza economica.
Tra i socialdemocratici e i rappresentanti sindacali è diffusa l’obiezione che un contributo incondizionato, corrisposto senza alcun legame con lo status lavorativo, ridurrebbe la forza-lavoro e comprometterebbe la stessa basa solidaristica del welfare state. Come replica?
Ritengo che l’ostilità dei socialdemocratici verso il reddito minimo sia basata sul pregiudizio e sul paternalismo. La gente che dispone di una sicurezza economica di base lavora di più, non di meno, ed è più produttiva – non meno – nel suo lavoro e nelle sue attività. Sono dati ripetutamente dimostrati dagli esperimenti psicologici, oltre che dai progetti pilota effettuati grazie al Basic Income Earth Network in India e Namibia. Quanto alla base solidaristica del welfare state, si tratta di un’idea che viene costantemente ripetuta, ma che in realtà non esiste. Negli ultimi anni, tutti i paesi si sono indirizzati verso sistemi che privilegiano l’assistenza sociale legata ai test, diretta a fornire assistenza ai poveri e soltanto ai poveri, e solo a coloro che possono dimostrare che lo siano non per colpa propria. Contrariamente a quanto si ritiene generalmente, questo tipo di assistenza condizionata ai test è cresciuta molto nei paesi scandinavi, così come in Francia, Germania e Regno Unito. Avremmo bisogno invece di un sistema di protezione sociale realmente solidaristico. Che attualmente non abbiamo. Un reddito di base non costituirebbe di certo una panacea perché, come cerco di dire nel mio libro, abbiamo bisogno di un pacchetto di riforme complessivo. Ma un reddito di base garantirebbe un’àncora, una base sulla quale ricostruire un sistema progressista che sia idoneo al sistema di distribuzione del reddito del 21 secolo.
In Diventare cittadini dedica un capitolo al “crepuscolo dei sindacati”, nel quale sostiene che sebbene la loro fine sia spiacevole dovrebbero cercare nuove fonti di legittimazione, perché da forza progressista hanno finito per diventare una forza difensiva. Di quali forme di organizzazione e mobilitazione collettiva c’è bisogno, oggi?
Nell’era del capitalismo industriale, i sindacati sono stati indubbiamente una forza per il cambiamento progressista. Ma non sono mai stati “trasformativi”, e non sono mai stati veramente egualitari. Si sono sforzati soprattutto di rendere il lavoro più “decente”. Oggi, abbiamo bisogno di una diversa forma di organizzazione collettiva, dal momento che l’antagonista primario del precariato è lo stato, non l’immediato e diretto datore di lavoro, che può cambiare da un giorno all’altro. Nella mia Carta del precariato ho proposto cinque articoli che, insieme, dovrebbero risultare in un approccio collettivo rivisitato. Tra i cambiamenti principali c’è la costruzione di ciò che ho chiamato contrattazione collaborativa o professionale, tra le varie professioni e all’interno delle professioni. Con ciò non intendo dire che la contrattazione collettiva tra lavoratori e datori di lavoro o intermediari non sia importante. Ma si tratta di rivedere le priorità. Soprattutto, dobbiamo far rivivere le parti migliori delle corporazioni professionali e negoziare con lo stato, contro il workfare, contro l’assistenza sociale vincolata ai test, contro tutte queste valutazioni punitive e stigmatizzanti, ecc.
La necessità di puntare su forme associative nuove e plurali è un punto su cui lei insiste molto. Cosa pensa della “coalizione sociale” lanciata da Maurizio Landini, il segretario generale della Fiom?
Ho sentito parlare dell’idea di una coalizione sociale. È ironico il fatto che l’idea provenga proprio dai metalmeccanici, un gruppo che in termini relativi è poco probabile che faccia parte del precariato. Comunque, al di là del singolo caso, stiamo assistendo alla diffusione di forme complementari di battaglie associative. Il modello ideale si evolverà. Al momento, non possiamo prevederne la natura e gli esiti.
L’ultima parte del suo libro è dedicata a ciò che definisce «fase ribelle primitiva», le diverse proteste di massa contrassegnate da indignazione, frustrazione e disgusto per la “vecchia politica”. Tra queste, include anche il Movimento Cinque Stelle. Come valuta il movimento di Beppe Grillo?
Credo che il M5S sia stato importante nel rompere i vecchi modelli, lo stallo della politica del ventesimo secolo in Italia. In qualche modo ha favorito la mobilitazione del precariato italiano. Ma come scrivo nel libro Grillo e i suoi colleghi non rappresentano realmente la risposta. Sono serviti a uno scopo utile. È triste dirlo, ma Renzi è una versione moderatamente credibile della socialdemocrazia, offre un revival di un modello che sta morendo, adatto al passato. L’Italia è stata trascinata in un periodo di stasi più lungo di quanto sia necessario o desiderabile. Il precariato nel frattempo si è ampliato ed è stato lasciato in una insicurezza cronica. Grillo non è la risposta.
Un’ultima domanda sulla crisi economica: lei ha criticato sia le risposte dei governi europei, improntate all’austerity, sia le proposte di quegli economisti di orientamento socialdemocratico che «hanno chiesto una risposta keynesiana (sostenere la spesa)». Ci spiega perché ritiene che il mondo keynesiano sia tramontato e che le economie dei paesi della zona euro-atlantica siano diventate delle economie “rentier”?
Siamo ormai entrati nell’era del capitalismo globale rentier, nel quale una porzione crescente del reddito totale finisce nelle mani di un ristrettissimo numero di plutocrati rentier e di corporation rentier. Il Quantitative Easing, per come è stato praticato dalla Banca centrale europea, sta semplicemente aumentando le disuguaglianze e rafforzando il capitale finanziario. Condurrà a una fuga di denaro dall’eurozona, soprattutto verso la Cina e verso altre economie di mercato emergenti. In questo processo, il precariato non viene assistito. Per questo, dovrà necessariamente forgiare una nuova forza politica. Dovrà farlo, prima o poi.
Documento pubblicato venerdì, 5 giugno 2015, su http://www.minimaetmoralia.it/
L’intervista è già apparsa sull’Espresso online.
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