Guerra imperialista,
conversioni e tradimenti
di Sandro Moiso
Nella
pletora di pubblicazioni e ripubblicazioni immesse sul mercato in occasione
delle funeste celebrazioni del centenario del “maggio radioso”, il testo di
Mario Isnenghi si distingue per la chiarezza interpretativa oltre che per
l’eleganza, l’erudizione e, talvolta, l’ironia con cui è trattato l’argomento
della conversione alla scelta bellicista e al capovolgimento di schieramento
militare che avvenne in Italia nel corso degli undici mesi che intercorsero tra
lo scoppio del primo grande macello imperialista e l’intervento nello stesso.
Lo studio di
Isnenghi, i cui ambiti di ricerca hanno sempre spaziato dalle implicazioni
culturali e socio-politiche del Primo Conflitto Mondiale1 al fascismo e al discorso
“pubblico” sulle guerre italiane dal Risorgimento al 1945, si rivela utilissimo
in tempi oscuri come quelli attuali, in cui lo scivolamento verso conflitti
sempre più allargati è accompagnato da discorsi spesso soltanto imbecilli, ma
ancora più spesso da motivazioni etico-politiche che nascondono, ancora una
volta, i reali interessi in gioco.
Se, come
afferma l’autore, negli anni che precedono e accompagnano la prima guerra
mondiale “si consuma in Italia un passaggio storico d’ordine generale: dalla
società dei notabili alla società di massa”, è altresì vero che la
necessità di convertire alle impossibili ragioni della guerra la mentalità
collettiva non è mai venuta meno. Di qualsiasi guerra si tratti, poiché per le
classi dirigenti ed imprenditoriali l’importante, al contrario di quanto vanno
retoricamente affermando, non è importante il con chi e perché ma, appunto, che
si faccia. Comunque.
Da questo
punto di vista il testo è particolarmente attento all’autentico balletto che si
svolse a livello governativo tra forze politiche favorevoli alla Triplice
Alleanza (in cui l’Italia era formalmente inserita) e forze opportunisticamente
già schierate con l’Intesa. Sarà proprio il generale Cadorna a rivelare nei
suoi diari (pubblicati nel 1925) come il 27 luglio 1914, giorno della sua
nomina a capo di Stato maggiore, fosse ancora in auge il progetto per l’invio
di un’armata italiana in Alsazia: “Perciò, fino al 1° agosto, io avevo il
dovere di considerare l’eventualità che l’Italia dovesse entrare in guerra
contro la Francia a fianco delle potenze centrali” a causa di una “convenzione
militare con la Germania, che ci obbligava in caso di guerra che impegnasse la
triplice alleanza, ad inviare sul Reno un’Armata di 5 corpi d’armata e due
divisioni di cavalleria” (pag. 6). Mentre la dichiarazione di neutralità
dell’Italia diventava ufficiale il 2 agosto.
Il paradosso
a livello politico consisteva nel fatto che la monarchia, per prima, e gran
parte dell’esecutivo erano decisamente favorevoli al mantenimento dell’alleanza
con la Triplice e degli impegni connessi mentre soltanto un pugno di
repubblicani ed eredi degli ideali risorgimentali, tra cui l’antico comunardo
Amilcare Cipriani e due nipoti di Garibaldi destinati a morire sul fronte
francese, accorse ad arruolarsi volontariamente delle file dell’esercito
francese. Cosa vista in ogni caso come di cattivo auspicio dalle alte sfere
dell’esercito e del governo.
Saranno i
mesi successivi a vedere in atto una straordinaria, non per numero ma per
qualità e diversità dei personaggi coinvolti, mobilitazione di forze volta a
trasbordare l’Italia da uno schieramento all’altro e, soprattutto, dalla
neutralità all’intervento attivo. Come è facile immaginare lo scontro più
evidente e meno sospetto avviene proprio sulle pagine dei giornali dell’epoca
che, come rivelano le pagine del diario del ministro delle Colonie Martini
(pubblicate soltanto nel 1966), sono però supportati da tutt’altro che la fede
patriottica o ideologica.
“Le voci
diffuse sui soldi che girano per comprare la stampa e indirizzare i lettori
acquistano qui puntigliosamente nome e cognome, ma sono solo fondi straordinari
che si aggiungono o si sostituiscono agli usuali fondi governativi: i tedeschi
comprano i servizi della «Nazione» di Firenze e del «Mattino» di Napoli, che
perciò si vede togliere «il consueto viatico governativo», e ci provano persino
con testate al di fuori del campo conservatore, come il radical-progressista
«Secolo»; il grintoso triplicismo del «Popolo Romano» viene oliato dall’Austria;
la scrittrice-giornalista Matilde Serao i premura di mandare un telegramma di
auguri al Kaiser per l suo compleanno […] Martini, parlando anche da membro
della categoria, assicura che «questo è il giornalismo italiano». E non se la
prende solo con le manovre di una parte, perché l’ambasciatore Barrère e la
Francia aiutano la nascita del «Popolo d’Italia» di Mussolini e il direttore
del «Resto del Carlino», il faccendiere Filippo Naldi, viene il 20 dicembre a
dirgli che bisogna assolutamente dare un sussidio governativo di almeno 25.000
lire a quel nuovo quotidiano che ha il merito di «raccoglie(re) intorno a sé e
dirige(re) a un intento patriottico tutta la teppa dell’Italia settentrionale»
(pp. 99-100)
Si notino
bene le parole del faccendiere: la guerra, per l’Italia, non è ancora
dichiarata e ancor meno si sa su quale fronte le truppe si schiereranno, ma l’intento
patriottico è quello di far schierare la teppa del Nord (operai, contadini,
disoccupati, giovani). A prescindere.
Ma quello di Mussolini non sarà l’unico significativo voltafaccia nell’ambito della discussione sulla partecipazione o meno al conflitto. Sicuramente nell’ambito del movimento operaio e socialista sarà il più eclatante, ma non il solo.
Ma quello di Mussolini non sarà l’unico significativo voltafaccia nell’ambito della discussione sulla partecipazione o meno al conflitto. Sicuramente nell’ambito del movimento operaio e socialista sarà il più eclatante, ma non il solo.
Anche la
Chiesa non verrà meno al suo compito di salvezza delle anime, ma non dei corpi.
Due sono i religiosi presi in esame da Isnenghi per il loro fervore
militarista: Giovanni Semeria e Agostino Gemelli. “Tutti e due i religiosi
che vanno e vengono bene accolti al Comando supremo sono uomini d’azione e di
potere – interpreti di un volontariato cattolico dai larghi orizzonti e imprenditori
di lungo corso del sacro – e vanno per le spicce: con spiriti e direzioni
di marcia non sovrapponibili, tuttavia, visto che il bonomelliano Semeria
aspira a coniugare i cristiani con la modernità, mentre Gemelli – altrettanto
moderno nei metodi – guarda culturalmente all’indietro e aspira a indirizzare
la «riconquista cristiana» del mondo verso ciò che non teme di chiamare Medioevo”
(pp. 40-41)
Il primo
tutto teso a fiutare nella sua terra d’origine, la Romagna “il cambiamento
in corso negli orientamenti dei giovani, che comincia ad allontanarli
dall’egemonia socialista […]in particolare rispetto ai grandi temi della
nazione, in pace e in guerra” (pag. 42)
Il secondo, di formazione laica e radical-socialista prima di un’autentica conversione che lo farà paragonare a Paolo di Tarso sulle pagine dell’«Osservatore Cattolico», sarà ancora fervente triplicista filotedesco sulle pagine della «Rassegna italiana di cultura» nell’aprile del 1915, ma “di quelle spoglie contingenti ci si può subito liberare, se la guerra viene sentita «provvidenziale» per un ritorno in se stessa dell’umanità, come «volontà di Dio», «flagello misericordioso e divino»” (pag. 48)
Il secondo, di formazione laica e radical-socialista prima di un’autentica conversione che lo farà paragonare a Paolo di Tarso sulle pagine dell’«Osservatore Cattolico», sarà ancora fervente triplicista filotedesco sulle pagine della «Rassegna italiana di cultura» nell’aprile del 1915, ma “di quelle spoglie contingenti ci si può subito liberare, se la guerra viene sentita «provvidenziale» per un ritorno in se stessa dell’umanità, come «volontà di Dio», «flagello misericordioso e divino»” (pag. 48)
Cosa che lo
avvicina a quel “Giovanni Papini, rotto a tutte le esperienze e a tutte le
disperazioni, che la guerra trova intento a lanciare urla belluine sulla
rivista «Lacerba» a favore della «rossa svinatura», del «caldo bagno di sangue
malthusiano», e immediatamente dopo – interventista non intervenuto – […] testimonial
della metanoia cristiana, grazie alla catastrofe ammonitrice” (pp.
48-49)
Ma, è
chiaro, il lavoro sporco toccherà ai socialisti e agli anarchici convertiti
che, in forme e con argomentazioni soltanto apparentemente diverse, dovranno
cercare di tramutare il naturale anti-militarismo del proletariato agricolo ed
industriale in neo-bellicismo nazionalista.
Come si è detto prima, non sarà solo l’ex-direttore dell’«Avanti!» in questa operazione. Lo affiancheranno l’anarchica Maria Rygier che paragonerà le stragi delle popolazioni libiche all’ingresso delle truppe tedesche nella città belga di Lovanio.
Come si è detto prima, non sarà solo l’ex-direttore dell’«Avanti!» in questa operazione. Lo affiancheranno l’anarchica Maria Rygier che paragonerà le stragi delle popolazioni libiche all’ingresso delle truppe tedesche nella città belga di Lovanio.
“Macché
coerenza, macché fedeltà ai principi, la realtà incalza ed è la realtà che
detta i comportamenti dei vivi” (pag. 20), sulle orme di Alceste De Ambris
che ha pubblicato, il 22 agosto 1914, sull’«Internazionale» un discorso
pro-Belgio e Francia la Rygier si associa alla canea guerrafondaia. Mentre al
socialista Cesare Battisti, “tragica figura di irredento territoriale e
redento politico” toccherà il ruolo di martire della patria dopo aver
percorso in lungo e in largo la penisola per spronare il proletariato a lottare
per il completamento dell’opera iniziata con il Risorgimento, anche
arruolandosi nel Regio Esercito, ed essere finito sul patibolo per mano
austriaca nel 1916. Cosa di cui la borghesia italiana lo ripagherà
pubblicamente con grandi encomi e alti lai, ma con ironia e crudele cinismo nel
privato, come testimonia ancora il diario del ministro Martini.2
Per altro
Leonida Bissolati cinquantottenne,già espulso dal Partito Socialista nel 1912
per la sua mancata opposizione alla guerra italo-turca, correrà ad arruolarsi
negli alpini e dopo Caporetto giungerà, dai banchi del governo, a minacciare di
fucilazione gli ex-compagni di partito e i proletari che avessero agito in
senso contrario a quello della salvezza della Patria e dell’interesse
nazionale.
Sollevando soltanto qualche perplessità in Filippo Turati, Anna Kuliscioff e Claudio Treves, che forti, per tutto il periodo del conflitto, del loro vile «né aderire, né sabotare», torneranno ad abbracciarlo amichevolmente verso la fine del conflitto.
Sollevando soltanto qualche perplessità in Filippo Turati, Anna Kuliscioff e Claudio Treves, che forti, per tutto il periodo del conflitto, del loro vile «né aderire, né sabotare», torneranno ad abbracciarlo amichevolmente verso la fine del conflitto.
Solo, a
difendere, tra i riformisti, la linea della «guerra alla guerra» rimarrà
Giacomo Matteotti, che per questo sarà arruolato a forza e spedito in Sicilia,
tra gli «imboscati» e che forse, anche per questa sua intransigente posizione
anti-militarista pagherà poi con la morte il suo antifascismo.
A regnare
saranno alla fine soltanto gli interessi nazionali ed imperiali del capitalismo
italiano, il cui vero obiettivo è Trieste (e non Trento), per giungere a
dominare per intero l’Adriatico e i suoi traffici. Come ben capiranno Salandra
e Sonnino, rispettivamente capo del governo e ministro degli esteri, unici veri
artefici finali dell’entrata in guerra, loro triplicisti d’antica data, a
fianco delle forze dell’Intesa: Francia e Gran Bretagna.
Un libro che
tutti, soprattutto a sinistra, dovrebbero leggere per meditare sulle vie
infinite e contraddittorie che conducono alla guerra e alla catastrofe. La
strada per l’inferno, infatti, è sempre lastricata di buone intenzioni. Anche
quando si è convinti di sventolare il tricolore francese in chiave anti-Isis.
Magari su una piazza di Parigi, con i compagni di un tempo. Perché tutti coloro
che non sanno prendere e mantenere le distanze dal militarismo e dal
nazionalismo saranno immancabilmente destinati ad essere usati oppure
semplicemente stritolati e triturati dall’implacabile ingranaggio imperialista.
Recensione di Sandro Moiso del libro di Mario
Isnenghi, Convertirsi alla guerra. Liquidazioni, mobilitazioni e abiure
nell’Italia tra il 1914 e il 1918, Donzelli Editore 2015, pp. 282, € 20,00
Fonte:
Recensioni ·
http://www.carmillaonline.com/2015/05/27/
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