11 giugno 2015

IXCANUL AL CINEMA




Orso d'argento al Festival di Berlino, esce nelle sale italiane “Vulcano” di Jayro Bustamante. Girato in una comunità maya, ne racconta la vita quotidiana.

Cristina Piccino

La rivoluzione di Maria è fare l'amore nel bosco
Oltre la cima scura del vul­cano c’è l’Eldorado. Pepe, ragazzo maya che si spezza la schiena nella pian­ta­gioni di caffè con­su­mando i pochi soldi in «pagherò» di liquore prima di incas­sarli ci crede dav­vero. Il suo Eldo­rado è l’America coi soldi e le ville con piscina, il Mes­sico che sta dall’altra parte e li separa dal con­fine è un pic­colo pez­zetto di terra, poca cosa. Ma Pepe non sa nem­meno par­lare lo spa­gnolo come quasi tutti i maya della regione, come farai gli chiede Maria che di quel ragazzo ribelle è un po’ inna­mo­rata, e nella sua insof­fe­renze vede il pas­sa­porto anche per la sua libertà.

Ixcanul il nome del vul­cano dà il titolo (origi­nale) al film d’esordio di Jayro Busta­mante gua­te­mal­teco, quasi qua­ran­tenne (è nato nel ’77) cre­sciuto nei luo­ghi del film che da ragaz­zino ha impa­rato a cono­scere seguendo la madre nelle cam­pa­gne sani­ta­rie di aiuto alle comu­nità maya. Discri­mi­nate, sfrut­tate, mas­sa­crate dal colo­nia­li­smo spa­gnolo che ha con­ti­nuato come in tutta l’America latina a can­cel­lare le tracce dei nativi nei secoli.
In Gua­te­mala pove­ris­simi, deva­stati dal geno­ci­dio della dit­ta­tura impo­sta dagli Stati uniti, visto che gli indios erano la mag­gio­ranza delle forze guer­ri­gliere (mar­xi­ste) di oppo­si­zione, che è con­ti­nuato anche finita la guerra civile. La mino­ranza spa­gnola al potere gli toglie tutto, a comin­ciare dai figli, ci dice il regi­sta che il com­mer­cio di bimbi fio­ri­sce com­plici le isti­tu­zioni, la poli­zia, i giu­dici, i medici.

Ma non è que­sto, non solo almeno il cuore del film che anzi quando espli­cita il suo intento «poli­ti­ca­mente impe­gnato» appare più rigido. Il punto di forza è la sen­si­bi­lità delle sue imma­gini, l’uso del piano sequenza con­trol­lato e senza com­pia­ci­menti che si tratti di fil­mare i con­ta­dini al lavoro men­tre danno da bere al maiale dell’alcol per­ché si accoppi, o quando si vede la gio­vane pro­ta­go­ni­sta fare l’amore col ragazzo dopo essersi «eser­ci­tata» su un tronco d’albero.
E il suo sguardo sui corpi dei per­so­naggi nel loro rito quo­ti­diano, i momenti più belli del film sono nella com­pli­cità che uni­sce Maria e sua madre, del resto il fem­mi­nile è la scelta nar­ra­tiva del film. Un legame quello tra le due donne tene­ra­mente fisico, fatto di carezze e di una sapienza antica tra­ma­data nel tempo, con­tare le lune e sal­tare sul vul­cano. Di una tat­ti­lità che del corpo coglie gli umori e i cam­bia­menti, di con­fi­denze, mani che si toc­cano, che acca­rez­zano senza imbarazzi.
Busta­mante lavora dun­que sul pae­sag­gio, emo­zio­nale e fisico al tempo stesso, sulla terra, sulla vita quo­ti­diana dei suoi con­ta­dini scan­dita dalla dispe­rata e con­ti­nua fatica di soprav­vi­vere. Per que­sto ha orga­niz­zato labo­ra­tori di reci­ta­zione con la comu­nità maya in cui ha rac­colto sto­rie, espe­rienze, vio­lenza subita. La cul­tura e la lin­gua e soprat­tutto il segno esi­sten­ziale, e poe­tico, del loro rap­porto con la natura,e con il vul­cano che li sovrasta.

Maria,la bra­vis­sima María Mer­ce­des Coroy ha dicias­sette anni e il mistero di una bel­lezza antica. Vor­rebbe ribel­larsi alla sua con­di­zione ma è schiava e dun­que le è proi­bito. I geni­tori l’hanno pro­messa al capo pian­ta­gione, uno che li ricatta col lavoro e con la cata­pec­chia in cui vivono, la sua rivolta comin­cia con l’arma che ancora le appar­tiene il corpo, l’unico stru­mento rivo­lu­zio­na­rio rima­sto prima che le tol­gano anche quello. Non era del resto la sua sco­perta e la sua libe­ra­zione al cen­tro di ogni movi­mento rivo­lu­zio­na­rio, oggi più che mai visti gli inte­gra­li­smi e la nuova schia­vitù della glo­ba­liz­za­zione.
Fa l’amore con Pepe nello sca­rico del bar, tra le voci ubria­che degli altri ragazzi, rimane incinta e difende que­sto suo bam­bino a cui non sem­bra avere diritto. Maria crede troppo alle cose la rim­pro­vera la madre, non devi cre­dere a tutto quello che ti dicono ma quella bimba che sta per nascere, e che la sal­verà dal matri­mo­nio com­bi­nato anche se non dalla mise­ria è l’unica cosa che ha e la fa sen­tire immortale.

C’è una durezza quasi impla­ca­bi­le­nella mes­sin­scena di Busta­mante, costruita sull’opposizione dei due spazi: la natura poco idil­liaca dove vivono i suoi pro­ta­go­ni­sti in cui i sogni di un altrove, il cielo invi­si­bile oltre il vul­cano, non sof­fo­cano anti­che cre­denze, riti che li ten­gono anch’essi in qual­che modo pri­gio­nieri e che sem­brano di pazzi visti con l’occhio di oggi. E il mondo «fuori», una moder­nità stra­niera ugual­mente rapace, forse per­sino più sub­dola nell’averli già con­dan­nati per sem­pre. Resta il gesto soli­ta­rio di una fuga, come quella di Pepe, il punk della comu­nità che dice al servo dei padroni: «Per­ché sei dalla loro parte?».
E la con­sa­pe­vo­lezza con­fusa di Maria (che non è cre­du­lona come sem­bra) che al ragazzo quando vaneg­gia dell’America vista solo sulle rivi­ste — replica che lui non sa par­lare inglese, e dove andrà, cosa farà? Dovre­sti impa­rare lo spa­gnolo prima dell’inglese, gli dice men­tre rac­col­gono il caffé, e lui cat­tivo: «È la gente come te che rovina que­sto Paese». Ecco la sua con­sa­pe­vo­lezza sapere, cono­scere, non farsi deru­bare. Lei ci prova, con quello che ha, e il regi­sta le resti­tui­sce una potenza il cui urlo silen­zioso nelle due imma­gini che aprono e chiu­dono il film risuona universale.

Il Manifesto – 10 giugno 2015

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