Una ragione deve pur esserci se il libro giovanile di A. Asor Rosa, dopo 50 anni, fa ancora discutere. Io non l' ho mai amato perchè ha contribuito non poco a fraintendere l'autentico pensiero di Gramsci confuso con la politica culturale del PCI di Togliatti.(fv)
Scrittori, popolo e massa
di Massimo Raffaeli
Pochi libri di critica hanno inciso così profondamente nel senso comune come Scrittori e popolo, uscito cinquant’anni fa da una piccola editrice romana, Samonà e Savelli, che allora garantiva una specie di samizdat
alla sinistra extraparlamentare. Lo firmava uno studioso ancora
giovanissimo, poco più che trentenne, Alberto Asor Rosa, allievo di
Natalino Sapegno all’università di Roma, attivo nei “Quaderni Rossi” e
compagno di via di Raniero Panzieri. Si trattava di un esordio geniale,
sorprendente per la padronanza di una strumentazione in cui la capacità
di delineare un quadro storico per ampie campiture e tagli dialettici si
integrava ad una microfisica testuale, nel campionario dei testi
analizzati, di secca e persino spietata precisione analitica.
Paradossalmente, non si trattava di un
libro ideologico ma di un libro critico, nell’accezione etimologica, il
cui orizzonte d’attesa era di totale alterità rispetto al quadro
convenuto della sinistra istituzionale e della cosiddetta via italiana
al socialismo. In effetti, Scrittori e popolo era un libro di
critica della “italianità” letteraria analizzata nella lunga durata e
con un’ottica che oggi diremmo annalistica circa una nozione, il
populismo, declinata a destra quale folclore endogeno o clausura
autarchica e dedotta, o meglio diluita, a sinistra nei termini di un
generico o irenico progressismo. Questo era infatti l’incipit folgorante
di quel libro: “L’uso del termine populismo è legittimo solo quando sia
presente nel discorso letterario una valutazione positiva del popolo, sotto il profilo ideologico oppure storico-sociale oppure etico. Perché ci sia populismo, è necessario insomma che il popolo sia rappresentato come un modello”.
Diviso in due, la prima parte di Scrittori e popolo tracciava
un quadro storico a maglie fittissime di quella nozione capitale,
dall’Unità alla Resistenza, dalle riflessioni di Gioberti e Oriani ai Quaderni di
Gramsci, cogliendone la vischiosità e l’ambiguità per esempio tra i
“fascisti di sinistra” (Vittorini per primo) quasi fosse, il populismo,
una incombenza ipotecaria fatalmente ricevuta anche fra i convertiti,
nel secondo dopoguerra, al neorealismo e/o al comunismo (e, qui sia
detto per inciso, che proprio tale quadro è in realtà la sinopia
dell’altro grande contributo di Asor Rosa, cioè il quarto volume, tomo
secondo della Storia d’Italia einaudiana, intitolato La cultura che taluni allora presero, nel ’75, per una palinodia); la seconda parte di Scrittori e popolo contiene invece quelle che l’autore definiva “esercitazioni”, analisi in vitro della
produzione di Cassola e Pasolini, severissime e tuttavia utili non
tanto a un giudizio di valore complessivo, meno che mai a una loro
eversione in blocco, quanto alla messa a fuoco di una serie di
contraddizioni o di aporie (l’intimismo di Cassola, l’estetismo di
Pasolini) da misurare col metro della produzione grande-borghese,
Pirandello, Svevo, Montale.
Cinquant’anni e però sembrano molti di
più: questo giova al valore del libro (pochi testi della nostra critica,
dopo tutto, appaiono meno datati e perciò ancora discutibili, vale a
dire saldi nell’impianto e sicuri nelle soluzioni interpretative) ma
questo dice d’altra parte che il quadro è mutato irreversibilmente, come
adesso attesta la ristampa arricchita da una sua necessaria appendice, Scrittori e popolo 1965-Scrittori e massa 2015
(Einaudi, “Piccola biblioteca”, pp. 430, € 32.00). Asor Rosa nel suo
più recente contributo muove dalla consapevolezza che è venuta meno, e
nei modi di una disintegrazione, l’esistenza stessa di un “popolo” e con
essa delle “élites” che ne interpretavano e insieme convogliavano le
dinamiche sociali e politiche, per dar luogo qui e ora a una massa
assoggettata e reclusa negli spazi di quella che pure definisce una
“democrazia passiva”. Ciò ai suoi occhi comporta una serie di
conseguenze capitali, grosso modo a partire dal passaggio di millennio:
il tramonto della modernità quale spazio del conflitto (di idee,
posizioni, organizzazioni); la rottura del rapporto con una tradizione
secolare di testi, valori, orientamenti; l’obsolescenza della critica e
della sua funzione primordiale che è quella di mirare sempre ad una
alterità nella stessa percezione degli oggetti sottoposti al suo vaglio;
infine la presenza ubiquitaria di un’industria culturale che ha saputo
trasformare il mercato e i suoi cicli di produzione e consumo in un vero
e proprio stato di natura.
Anche in Scrittori e massa non
interessa allo studioso individuare ritratti monografici e stilare
specifici giudizi di valore ma la messa a fuoco di un comune orizzonte,
di costanti tematiche dentro un campionario che associa narratori e
poeti nati fra gli anni cinquanta e ottanta del secolo scorso. Quello
che colpisce, con evidenza statistica, è non soltanto la loro
produttività (sollecitata dai ritmi ormai convulsi della editoria) e la
diffusa originalità delle fisionomie testuali (indotta magari dal ri-uso
delle fonti tradizionali o dalla contaminazione perpetua con i mezzi di
comunicazione di massa), quanto uno stato di isolamento, o peggio, di
“atomismo individualistico” che li obbliga a produrre in una specie di trance
e nello spazio-tempo di un eterno presente. Il che vuol dire che si
chiede loro di produrre delle storie, delle “belle” storie, ma non di
riflettere, di prendere la parola, e di continuo, ma non di prendere una
posizione circa il vivere in società, in questa società, o sui
destini generali come era d’uso viceversa fra gli ultimi grandi maestri
(Pasolini, Fortini, Calvino) per cui dirsi scrittori e intellettuali
era sinonimo. Asor Rosa non rinvia gli scrittori di oggi alla pratica
dell’engagement ma piuttosto individua il tabù più diffuso, per cui la pratica dello storytelling
è appunto la compensazione del silenzio tombale riguardo ai meccanismi
sociali, al pensiero unico che governa le coscienze, ai grandi poteri
che propongono la globalizzazione e i suoi istituti economico-finanziari
come il solo e il migliore dei mondi possibili. (Esemplare in tal senso
è l’analisi di Gomorra e del caso Saviano nella intersezione, come nella ambiguità, di testimonianza e fiction). E’ probabile Asor Rosa qui trascuri alcuni segnali in controtendenza, quali il ritorno della letteratura di reportage e di docufiction, nonché
il redivivo dibattito intorno alla nozione di “realismo”, ma è comunque
comprensibile il fatto che colga nella parola dei più atomizzati e
isolati rispetto al contesto, i poeti e le donne specialmente, tra
opacità sociale e vivida sussultante esperienza del corpo, quei nessi di
fertile contraddizione e quelle verità che ai narratori per lo più sono
inibite o deliberatamente impedite. Così si conclude Scrittori e massa:
“In letteratura, come in qualsiasi altra operazione storica umana, non
c’è disvelamento della verità senza conflitto. Solo l’’opposizione’ […]
consente il disvelamento delle apparenze e l’emergere dei tratti più
nuovi del reale – e del pensiero. […] Se non c’è conflitto, non c’è
pensiero nuovo; e se non c’è pensiero nuovo non c’è nuova
rappresentazione – il mondo resta una veste esteriore che ricopre a
stento, sempre, le vecchie apparenze ”. Scrittori e popolo era nato da un’identica persuasione ma oggi è un grido che risuona, abbastanza disperato, nella nostra pace domestica.
Questo articolo è uscito su «Alias» - il manifesto 7 giugno 2015
Questo articolo è uscito su «Alias» - il manifesto 7 giugno 2015
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