03 giugno 2015

MACBETH






Nel rinnovare l'nvito ad assistere alla nuova  messa in scena del Macbeth, regia Massimo Pastore, che si terrà venerdì sera a Marsala, riprendiamo dal sito  https://rebstein.wordpress.com/ una stimolante rilettura  del classico shakespeariano.



Macbeth

Macbeth e Banquo, generali dell’esercito di Duncan, re di Scozia, di ritorno dalla battaglia vinta sul ribelle Macdonwald, si imbattono in tre streghe che annunciano tre profezie sul loro destino e le loro fortune. Comincia così la tragedia di Macbeth che William Shakespeare scrisse nel 1606.
“Macbeth” è la tragedia più efferata tra quelle scespiriane, giudicata da Eliot “amorale”. In realtà non è la tragedia ad essere efferata ma la storia rappresentata: non si contano gli inganni e le uccisioni, le crudeltà e i sotterfugi. È la tragedia, come si sa, del potere e della conquista del potere e, come tale, dev’essere necessariamente truce, maligna, perversa.
È dominata da Macbeth e dalla sfrenata ambizione di sua moglie, Lady Macbeth, che complottano con ferocia per conquistare il trono di Scozia e, pertanto, esautorare o, meglio, uccidere il re Duncan. Mai come in questa tragedia più che in altre, i personaggi sono molteplici, pressoché infiniti e sono tutti avvertiti e consapevoli che il trono di Duncan sarà oltraggiato da delitti cruenti e tuttavia prevedibili, se non previsti.
La lotta per il potere, nei secoli, ha sempre attraversato sentieri cupi e nefasti: non sono state risparmiate vittime né prigionieri, non c’è stata pietà né compassione, la decimazione degli avversari o degli antagonisti è stata diretta, immediata, totale. Ma cosa ha spinto Macbeth a essere tanto implacabile sulla strada della cupidigia del potere?
Macbeth ci viene presentato come un generale fedele e ossequioso di Duncan, fiero del suo valore di militare, in fiduciosa attesa per il suo onore di una ricompensa. Che gli succede? Succede l’imponderabile, il soprannaturale: l’incontro con le tre streghe (le Sorelle Fatali), che gli profetizzano l’ascesa al trono di Scozia, scatenerà in Macbeth l’idea e il proposito di poter diventare re per un disegno preordinato e giusto, che dev’essere soltanto portato a compimento. Ma per Macbeth questo vaticinio è ancora una lusinga, un’infatuazione dettata, diremmo, dall’ansia di far carriera: ci vuole ben altro che un’intima e lecita aspirazione, ci vuole una determinazione puntuale e irrinunciabile, una volontà più che ferrea. A rimuovere l’incertezza di Macbeth e a spingerlo al delitto ci penserà la moglie, Lady Macbeth, sorretta da un’aberrante frenesia, dalla ferale ossessione di vedere il marito incoronato re e padrone assoluto del regno scozzese nel castello di Dunsinane.
Istigato e plagiato dalla moglie – che giura a se stessa di fare a meno persino della sua femminilità pur di dare un esito invidiabile alla sua sete di potere – Macbeth si decide di realizzare quello che la moglie gli ha malignamente sobillato (“Essere tenero nell’atteggiamento e serpe nell’azione”) e uccide Duncan nel sonno,  mentre Lady Macbeth aveva addormentato le guardie del re. Con le mani e i pugnali che ancora grondano del sangue di Duncan, Macbeth comincia a smarrirsi ma, ancora una volta, Lady Macbeth provvede a dissipargli dubbi e rimorsi: sporcherà le guance e le mani delle guardie del sangue del re per far ricadere su di loro la colpa di quell’assassinio.
La morte di Duncan sconvolge la comunità del castello ma bisogna incoronare un nuovo re e solo Macbeth può aspirare degnamente al trono (già barone di Glamis e premiato dal re come barone di Cawdor). Tuttavia, tra il sospetto e il terrore, si fa netta tra gli altri baroni la percezione che Duncan sia stato deliberatamente ucciso dal generale che lo stesso Duncan giudicava come il più fedele dei suoi sudditi. Il timore di essere scoperto spinge Macbeth ad altri delitti, sicuro della sollecitudine di Lady Macbeth e giustificato da quella profezia delle Sorelle Fatali che lo illude di essere inattaccabile, proteggendolo da ritorsioni e ricatti.
Non si ferma Macbeth, non si censura, non si condanna, benché le uccisioni si facciano sempre più numerose e devastanti. Macbeth uccide Banquo, che le streghe avevano indicato come progenitore di re, ma non riesce a catturare i figli di Duncan (Malcolm e Donalbain) fuggiti in Inghilterra.
Da che cosa è motivata allora la furia omicida di Macbeth? La profezia delle streghe – per quanto inaspettata ed eccitante – non può da sola stravolgere la disposizione caratteriale di un generale da sempre ligio ai suoi doveri di soldato. Né la brama di potere di Lady Macbeth può offuscare la coscienza di un uomo certamente ambizioso ma saldamente ancorato alla considerazione armonica della realtà che informa e ispira la sua storia e il suo equilibrio. Ci dev’essere altro nella tragedia e nel personaggio di Macbeth: la sua crudeltà non è giustificata dalla malvagità e dall’arroganza che pure sono tristemente peculiari nelle saghe del Nord britannico all’inizio dell’anno Mille. C’è dell’altro, in questa tragedia di Shakespeare, e riguarda proprio la struttura e la valenza della tragedia. “Macbeth” è, fra le tante connotazioni stilistiche e teoriche, una riflessione extra- ed infra-testuale che Shakespeare elaborò sulle attribuzioni concettuali della tragedia greca (o classica per eccellenza), che sono senz’altro intuitive ma pure, in qualche modo, fuorvianti. La tragedia, diversamente dal dramma, focalizza il suo interesse e il suo messaggio sui personaggi eponimici del mito o delle leggende (da Edipo ad Aiace, dalle Baccanti alle Troiane, da Oreste a Saul): ne sviluppa – autonomamente o fedelmente – l’excursus narrativo del protagonista (cosa aveva fatto o detto) e l’avventura esistenziale (chi era o come voleva mostrarsi). Le forze del personaggio tragico, pur governato dal fato, sono in realtà tutte interiori al personaggio stesso.
Gli eroi tragici si disperano e si rattristano per un torto subìto (Aiace), per un oltraggio sofferto (Oreste) o provocato (Edipo) e,   interiorizzando il conflitto di cui sono stati vittime o artefici, estremizzano il tormento facendolo diventare l’unica soluzione, l’unico strumento per perfezionare attraverso una cieca iùbris una compatibile catarsi. Se il conflitto è stato interiorizzato, anche la realtà diventerà una propaggine dell’io, da ambiente esterno e contingente si trasformerà in dato personalistico, in una fattispecie proiettiva e sacrale dell’io, di quella identità che assume su di sé il cosa e il come del divenire tragico.
Saranno le circostanze esterne, invece, a dare spessore al personaggio drammatico mentre all’eroe o anti-eroe tragico risulteranno esiziali i suoi dilemmi intimi, la volubilità del suo carattere, l’obnubilazione del suo ego. Così Macbeth, così per Macbeth: egli obbedisce all’impulso inarrestabile della sua brama di conquista ma, realizzando quel terribile e funesto desiderio, non cerca la catarsi (come non la cercava Shakespeare) e prosegue nell’azione omicida come per un progetto che non dal suo destino era stato segnato ma dalla sua quintessenza o dal suo indifendibile e arcano dèmone di sopraffazione.
Macbeth uccide le guardie del re per dimostrare la loro colpevolezza ai baroni (soprattutto a Macduff) convenuti a Dunsinane. Ordina poi ai suoi sicari di uccidere la moglie e i figli di Macduff, riparato nel frattempo in Inghilterra per organizzare la rivolta; interroga le streghe per conoscere eventi ulteriori delle profezie e “vede” il fantasma di Banquo al banchetto con gli altri baroni, che restano attoniti sentendolo parlare a un Banquo che appare solo ai suoi occhi.
È pazzo, Macbeth? Uscito di senno, stralunato, oppresso da allucinazioni che non gli consentono di giudicare e dividere la realtà degli altri dalla sua? O è semplicemente angosciato dal presagio della solitudine (Lady Macbeth, in preda ai rimorsi, è davvero impazzita e infine si è uccisa), sconcertato e indebolito dall’impressione di non aver compiuto fino in fondo il suo progetto, di non essere stato del tutto appagato e gratificato dal fatto di essere diventato re? O, semmai, di essere diventato un re sanguinario?
È dunque un tiranno, lucido eppure visionario, consapevole e abietto. Shakespeare ha creato un mostro ma non lo salva: l’autore sembra dirci, col suo genio crudele, che Macbeth non poteva essere altro da sé, ce lo propone integro e deviato nella sua aberrazione, consolidato nella sua gloria infausta ed effimera. E si ripresentano consueti gli artifici scenici di Shakespeare: i fantasmi degli uccisi, i soliloqui dei reprobi, il tentativo di purificarsi dalle colpe (Lady Macbeth che passeggia sonnambula come un’anima in pena, provando a smacchiarsi le mani ancora lorde di sangue). La notizia della morte della moglie non lo sconvolge, lo raggela, lo pietrifica ma non lo atterrisce: un barlume di consapevolezza, un passionale disincanto attraversa esponendola la sua controversa idea dell’esistenza (“Domani e domani e domani”), il senso di una finitezza temuta e perseguìta. “La vita non è che un’ombra che cammina: un povero commediante che si pavoneggia e si agita sulla scena del mondo, per la sua ora e poi non se ne parla più: una favola raccontata da un idiota, piena di rumore e furore, che non significa nulla”. (Atto V, Scena V)
Echi del Riccardo III o del Mercante di Venezia, del Re Lear o Amleto, oppure anticipazioni della Tempesta riafforano o convergono in e dal Macbeth: lo stesso stilema cinico e accorato, il tratto di un vaticinio percepito come coessenziale, la forza di un ossimoro (vita/morte, sfida/declino) che regge “magnificamente” un deludente azzardo. Si avverano puntuali e disastrose le profezie delle streghe: il “bosco” di Birnan che avanza minaccioso verso il castello di Dunsinane (soldati che simulano un esercito in grande assetto ostentando come fanti in marcia i rami tagliati dagli alberi); Macduff che capeggia con Malcolm la rivolta contro il tiranno che occupa con disonore il trono di Scozia. Macbeth, nonostante tutto, è sicuro di sé: solo un uomo non nato da donna (quindi nessuno) potrà sconfiggerlo secondo la seconda profezia delle Sorelle Fatali ed affronta il combattimento col suo celebrato ardore, uccidendo il nobile Seyward.
La battaglia volge alla fine, si fronteggiano Macbeth e Macduff ma Macbeth è sopraffatto da una verità inattesa o da un’illusione che si dimostrerà fallace. Non sa e non può sapere, il nuovo re di Scozia, che il suo avversario è proprio quell’uomo “non nato da donna” che deve temere. Macduff svela il segreto: venne al mondo non partorito ma strappato con un taglio dal ventre della madre. La seconda profezia delle streghe è dunque veritiera: Macbeth si ritrova solo e screditato, soprattutto dalla sua stessa credulità e dal velenoso dèmone dell’onnipotenza.
Tocca combattere, verificare fino in fondo la sua maestrìa di soldato e la sua dignità di re che vengono purtroppo delegittimati da tutti coloro che lo circondano e lo disprezzano. Non sopravvive al duello, Macebeth: viene ucciso da Macduff e la sua testa viene mostrata a tutti in segno di spregio come la testa di un ribelle opportunista, di un abominevole tiranno o, diremmo oggi, di un nefando dittatore.
La tragedia si è compiuta, la condanna del dannato Macbeth è stata eseguita: “quello che è stato fatto non può essere non fatto”, come a dire che il percorso della sua vita non era solo necessario e sufficiente ma ineludibile. Anche la terza profezia sarà ritenuta veridica, anche se sarà Malcolm e non Fleance, figlio di Banquo, a diventare re di Scozia e a far ritenere, secondo una licenza genealogica di Shakespeare, come erede ideale di Banquo, Giacomo I Stuart, re d’Inghilterra e Scozia nel 1603.
Dalla leggenda fosca di Macbeth (o Mac Beatha) dell’anno Mille, Shakespeare tratteggia un personaggio che vive e muore di se stesso, abbandonato dal suo autore a un destino ineffabile, al disprezzo della storia e alla bramosia degli uomini e Macbeth, suo malgrado, tiene fede a questa interpretazione senza speranza della leggenda che l’ha voluto sanguinario e demoniaco nel sacrificio della sua auto-distruzione, come avverrà nei secoli, ad altri tiranni, ad altri folli dittatori.
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L’immagine è quella di Orson Welles nel ruolo di Macbeth nel film omonimo, diretto da Welles nel 1948.
I passi citati sono nella traduzione di Cino Chiarini da Shakespeare, Sansoni, 1980.

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