25 giugno 2015

LA TERRA DEL RIMORSO DOPO ERNESTO DE MARTINO


A oltre cinquant'anni dagli studi di Ernesto De Martino, un saggio riapre la questione del tarantismo, collocandolo nel Salento di oggi.

Claudio Corvino

Se la rete del ragno tesse un'altra narrazione

Nel 1959 Erne­sto De Mar­tino giunse in Salento per la nota spe­di­zione etno­gra­fica sul taran­ti­smo (La terra del rimorso, 1961), un com­plesso mitico-rituale la cui sto­ria e il cui signi­fi­cato ha inte­res­sato fin dal Medioevo medici, stu­diosi e auto­rità reli­giose. Secondo la tra­di­zione salen­tina dell’epoca, un pro­fondo males­sere col­piva le donne, ma anche gli uomini, che erano stati morsi da un ragno. A farli uscire da que­sta sorta di «disor­dine» men­tale era un rituale basato soprat­tutto sulla musica suo­nata da alcuni spe­cia­li­sti che avreb­bero pro­vato vari ritmi e melo­die fino ad indi­vi­duare quello giu­sto, quello che avrebbe per­messo alla «pos­se­duta» di ritor­nare alla normalità.

Non cono­sciamo esat­ta­mente il momento in cui avvenne, ma è certo che il cat­to­li­ce­simo indi­vi­duò san Paolo (29 giu­gno) come eroe libe­ra­tore da que­sto par­ti­co­lare male, visto il potere del santo di gua­rire dai morsi dei ser­penti vele­nosi, capa­cità da lui tra­smessa ai mem­bri della sua «fami­glia», cono­sciuti come san­pao­lari.

Dopo le ana­lisi di De Mar­tino e della sua equipe il taran­ti­smo non fu più visto come un sem­plice disor­dine men­tale, ma come un ordine sim­bo­lico: un pen­siero e una pra­tica popo­lare che ten­ta­vano di con­fe­rire senso e un oriz­zonte di tra­scen­di­mento a quella che era la sof­fe­renza esi­sten­ziale e sociale delle donne e delle genti salentine.

Da quel 1959, dalla «spe­di­zione salen­tina», prende le mosse l’ultimo lavoro di Gio­vanni Pizza Il taran­ti­smo oggi (Carocci, 2015, euro 26), uno stu­dio che va molto oltre l’oggetto dichia­rato nel titolo e che rac­conta dei modi e delle forme in cui il taran­ti­smo (e l’intera antro­po­lo­gia di De Mar­tino) sia pene­trato nelle dina­mi­che iden­ti­ta­rie e cul­tu­rali salen­tine dive­nendo così un nuovo ter­reno di ricerca di un’antropologia defi­nita poli­tica, o pub­blica.

Il volume rac­conta di un com­plesso pro­cesso in cui il campo etno­gra­fico si è esteso fino ad inglo­bare e coin­ci­dere con il pro­cesso intel­let­tuale, sto­rico e soprat­tutto poli­tico che ha impe­gnato il Salento dalla pub­bli­ca­zione del capo­la­voro di De Mar­tino e fino ai giorni nostri. Soprat­tutto dagli anni Set­tanta, quando altri antro­po­logi e stu­diosi locali hanno comin­ciato quel lungo pro­cesso di risi­gni­fi­ca­zione del taran­ti­smo che ha por­tato quasi a ribal­tare i risul­tati teo­rici de La terra del rimorso.

Il Salento infatti, oltre al suo più noto e accat­ti­vante sound­scape pos­siede anche un pode­roso book­scape che ha segnato e a sua volta ali­men­tato il cam­bia­mento. I vari discorsi che si sono suc­ce­duti sul taran­ti­smo (quello medico, sto­rico, fol­klo­rico, poe­tico, poli­tico…) sono sem­pre stati accom­pa­gnati da una reto­rica di costru­zione e di nego­zia­zione dell’immagine del Salento, una sen­tita ricerca di iden­tità e affer­ma­zione, anche quando que­sta sia stata negata, esal­tata o derisa.

A par­tire da una rivi­si­ta­zione delle teo­rie di De Mar­tino ope­rate da Gil­bert Rou­get (Musica e trance, 1980) e poi George Lapas­sade (Inter­vi­sta sul taran­ti­smo, 1994) si è svi­lup­pata local­mente – e il sag­gio di Pizza lo ana­lizza con rigo­rosa pun­tua­lità – una visione del taran­ti­smo che, capo­vol­gendo quella demar­ti­niana, allon­tana il rituale coreutico-musicale da ogni legame con la sof­fe­renza sociale ed esi­sten­ziale e lo fa assur­gere a tratto iden­ti­ta­rio posi­tivo, a corol­la­rio di una «gio­iosa catarsi esta­tica», a forte valore este­tico, gra­zie anche alle sue natu­rali poten­zia­lità spet­ta­co­lari (ma quale rituale in fondo ne è total­mente privo?).

Così, in un con­ti­nuo gioco di spec­chi tra «antro­po­lo­gia, poli­tica, cul­tura», come recita il sot­to­ti­tolo del volume, vediamo come la rein­ter­pre­ta­zione locale del taran­ti­smo, la riat­ti­va­zione della sua memo­ria antro­po­lo­gica sia stata in grado di rilan­ciare il Salento come un «pro­dotto tipico»: da terra del rimorso a terra di «rina­scita», dove il mito del ragno, cam­biando di segno, ha voluto far esplo­dere tutte le poten­zia­lità medi­ter­ra­nee, com­prese quelle turi­sti­che e com­mer­ciali, che aveva nella sua sim­bo­lica rete. 
Così, pro­prio negli anni in cui il Salento veniva «rapi­nato» della sua cul­tura etno­gra­fica, dei suoi olivi seco­lari, negli anni in cui i suoi par­ti­co­la­ris­simi muretti a secco difen­sivi e i suoi trulli cade­vano o veni­vano dismessi per man­canza di una capace mano­do­pera, le ammi­ni­stra­zioni locali «inven­ta­vano» un altro arac­nide che sarebbe riu­scito a libe­rarle dal male attra­verso lo svi­luppo eco­no­mico, turi­stico e cul­tu­rale. È in que­gli anni che nascerà la Notte della Taranta, il noto festi­val musi­cale estivo che coin­volge Mel­pi­gnano e una ragna­tela di altri cen­tri salentini.

Il volume di Pizza, nelle tre parti in cui è diviso, non osserva solo il feno­meno del taran­ti­smo, ma indaga anche lo stesso «sguardo» dell’etnografo De Mar­tino, evi­den­ziando sia i suoi legami con Anto­nio Gram­sci sia que­gli aspetti dei due intel­let­tuali che ne fanno ora più che mai due casi «buoni da ripen­sare» per l’antropologia.

Fu infatti con la let­tura di Gram­sci che De Mar­tino «maturò defi­ni­ti­va­mente la con­sa­pe­vo­lezza di come la cen­tra­lità della cri­tica cul­tu­rale gram­sciana potesse coin­ci­dere con le forme del ‘viag­gio’, dell’’etnografia’: la ’prassi’ della ricerca antro­po­lo­gica» e, inol­tre, inter­pretò etno­gra­fi­ca­mente il pro­getto gram­sciano di un’antropologia degli intel­let­tuali. Con­vin­zione che divenne anche una espressa con­danna agli stu­diosi di fol­klore e di tra­di­zioni popo­lari che, nelle loro ana­lisi aves­sero sepa­rato una dimen­sione e una cul­tura colta e ege­mone da una popo­lare e subalterna.

Attra­verso l’analisi del più grande antro­po­logo ita­liano, dei suoi legami con la filo­so­fia e la cul­tura gram­sciana, della sua epo­cale spe­di­zione salen­tina, Il taran­ti­smo oggi mostra in maniera esem­plare le dina­mi­che che sot­ten­dono la costru­zione di un’identità, di una cul­tura, per­ché – come scrive l’autore – «la cul­tura è sem­pre una pro­du­zione, una ’inven­zione’, e l’identità come essenza intima sem­pli­ce­mente non esi­ste».

Con buona pace di quanti, soprat­tutto oggi, caval­cando l’onda di mito­lo­gici prin­cipi iden­ti­tari, vor­reb­bero cre­dere e far cre­dere che «la tra­di­zione» sia un bene immu­ta­bile ere­di­tato da lon­tani ante­nati e che abbiamo il dovere di con­ser­vare intatto, nono­stante la mute­vo­lezza del mondo cir­co­stante. Per­ché la cul­tura «non (è) come qual­cosa che si ha, si ere­dita, fis­sato in un’arcaica quanto inde­fi­nita ’tra­di­zione’, ma (è) come un patri­mo­nio che costruiamo tutti insieme come bene col­let­tivo. L’identità quindi non è un dato fisso, una ’essenza’, ma un pre­ciso pro­getto poli­tico condiviso»


il Manifesto – 2 giugno 2015

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