04 giugno 2015

LA CITTA' DI DIO NON E' IN CIELO








Un libro, appena edito da Jaca Book, fa il punto degli studi sulle grandi comunità monastiche del Medioevo.*

Carlo Bertelli
La città di Dio non è in cielo ma è già stata sulla terra

«Qua sotto c’è un’intera città», disse una contadina all’archeologo inglese Richard Hodges indicando un prato nei pressi della sorgente del Volturno, in un paesaggio meraviglioso. Eravamo intorno al 1980 e gli scavi che seguirono misero in luce i resti della grande abbazia di San Vincenzo, distrutta da un’incursione saracena nell’881. La sua lunga storia era conosciuta grazie alla cronaca scritta e miniata nel 1130, ma lo scavo poteva paragonarsi alla scoperta di una Pompei medievale, rivelando una vera città monastica in cui la vita era stata brutalmente interrotta.

Federico Marazzi, che partecipò all’impresa fin dagli inizi, era dunque la persona più qualificata per trattare ora in una visione d’insieme la storia dell’istituzione monastica dalle prime celle dei monaci nel deserto egiziano fino al cristallizzarsi, nell’Europa carolingia, di forme definite e di lunga durata. La novità del libro edito da Jaca Book sta nell’originale punto di vista che considera le forme del costruito in un rapporto continuo e funzionale con le profonde trasformazioni sociali dell’alto medioevo.

I cenobi monastici erano sorti nel pieno della crisi che aveva investito le città al crollo dell’Impero romano. Il monastero, per la disciplina che lo governava, le ore scandite dalla preghiera, la forte aspirazione morale, si contrapponeva alla vita tumultuosa della città ed era, in certo modo, una vera città alternativa, il modello di quella città di Dio cui pensava sant’Agostino.

La comunità monastica aveva bisogno di tutto ciò che è indispensabile per vivere e nello stesso tempo intendeva essere quanto possibile autonoma. Doveva dunque essere capace di amministrarsi e di sostituirsi a ciò che la città antica aveva offerto. In un primo tempo il monastero avrebbe trasferito al mondo post-antico le forme e i principi della città, mentre in seguito, con la ripresa della vita cittadina, avrebbe fornito modelli alla nuova realtà.

Il monastero scavato a Saqqarah, in Egitto, quello di Martyrius, in Palestina, o di Khirbet al Deir, sempre in Palestina, presentano articolate strutture per la vita della comunità, dalla cisterna ai bagni e le cucine, con una chiara diversificazione dei ruoli. Per esempio, nel monastero di Euthymius, in Palestina, il refettorio si distingue per il pavimento in mosaico. Come le città avevano bisogno di mura per proteggersi, così il monastero si chiudeva tra alte mura che, oltre a preservarlo dai pericoli esterni, ne proteggevano il silenzio e il desiderio di pace.

Protetto dalle mura, il monastero di Santa Caterina nel deserto del Sinai, con i suoi cipressi e il piccolo orto, appare come l’immagine del paradiso. E paradiso (nome derivato dal persiano) fu detto quello spazio centrale, circondato da portici, che è il convento per antonomasia (in tedesco, monastero si dice Kloster ).
Il chiostro era il foro, il luogo dove la comunità s’incontrava, fuori dal silenzio imposto nel refettorio e dalle ore di celebrazioni liturgiche. Su di un’ala del chiostro si aprì allora la sala capitolare, dalle cui finestre si poteva seguire la discussione in corso.

Il monastero offriva dunque un modello di convivenza alla città futura. Inoltre la raffinata architettura dei chiostri di Monreale, di San Paolo fuori le Mura a Roma, di Saint-Trophime ad Arles, ci informa su aspetti importanti della storia del monachesimo poiché ci dice che i monaci e le monache che passeggiavano sotto gli archi del chiostro avevano stili di vita del tutto aristocratici. Assai spesso abati e badesse provenivano infatti dalle classi alte e inoltre i monasteri provvedevano all’educazione della classe dirigente.

Mentre il potere economico dei monasteri cresceva, cresceva il loro ruolo nella società, al punto che della loro riorganizzazione dovette occuparsi l’autorità regia. Sotto l’influenza dell’anglosassone Bonifacio, il missionario della Germania, nel 743 il re dei Franchi Carlomanno spinse all’adozione generale della regola di san Benedetto. L’abate di Aniane, Benedetto, sostenuto da Carlo Magno, promosse l’adozione in tutti i monasteri della regola benedettina, che diveniva la legge di riferimento per tutte le comunità monastiche, la legge cui avrebbero fatto appello tutti i tentativi di riforma.

Erano così maturi i tempi per dare alla regola una forma grafica. Se ne occupò l’abate Gozberto di San Gallo, che prima dell’820-30 disegnò la mappa d’un monastero ideale, capace di ospitare 270 anime, delle quali più di 110 monaci. L’unica copia superstite si conserva tuttora a San Gallo. Nelle parole di Marazzi, è il disegno razionale di uno «spazio che avvicina a Dio».
Il Corriere della sera – 31 maggio 2015

* Le immagini illustrano i resti della grande abbazia di San Vincenzo al Volturno.

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