Riprendo da http://www.leparoleelecose.it/ un articolo di Clotilde Bertoni:
L’umorismo non è donna: un made in Italy intramontabile
di Clotilde Bertoni
Nel più insolito film di Francesco Rosi, l’incantevole C’era una volta,
la popolana Isabella, interpretata da Sophia Loren, subisce un torto
che minaccia di distruggerla; ma in suo soccorso arriva un santo molto
eccentrico, lo scalcinato e spassoso San Giuseppe da Copertino, il quale
le raccomanda di non ascoltare le prediche sulla virtù della
rassegnazione e sulle gioie dell’aldilà che stanno per rivolgerle santi
più canonici, e la incita invece a ribellarsi, a cercare la felicità e
la giustizia in questo mondo: Isabella saprà dargli retta e trovare il
modo di reagire. Uscito nel 1967, il film, a dispetto della sua
strutturazione fiabesca, esprime intensamente la pressione della
metamorfosi, i fermenti delle proteste in corso: come gli altri film del
regista, come tanti film di quel tempo. Ma fa anche qualcos’altro,
impernia la forza della rabbia, l’importanza della ribellione, su un
personaggio femminile; e per classico che sia l’intreccio (fine ultimo
di questa ribellione è il topico matrimonio con un principe), si tratta
comunque di una scelta insolita per il cinema italiano: in cui le donne
sono condannate alla dimensione che il femminismo di matrice
esistenzialista definisce “relativa”, cioè vincolate alla prospettiva e
agli interessi maschili, schiacciate in una condizione di passività,
prive dell’energia desiderante per definizione molla propulsiva dei
grandi intrecci[1].
Per quanto problematica ovunque, in
altre tradizioni cinematografiche la rappresentazione del femminile è
assai più frastagliata e dinamica. La fabbrica dei sogni hollywoodiana
(molto meno monolitica di quanto voglia la vulgata) si riempie fin dagli
anni Trenta di figure disparate – dalle fosche manipolatrici
impersonate da Bette Davis e Joan Crawford, alle effervescenti
giornaliste e avvocatesse cavallo di battaglia di Katherine Hepburn e
Rosalind Russell – ma comunque volitive, indipendenti, traboccanti di
energie e di aspirazioni (spesso poi troppo trasgressive per le leggi
dello star-system, che le puniscono o ridimensionano all’interno dei film, e che non di rado intralciano le carriere delle interpreti)[2].
Più avanti, dopo l’ondata di neoconformismo seguita al dopoguerra, che
rovescia sul pubblico legioni di angeli del focolare e di pin-up oche
giulive, la tensione al cambiamento degli anni Sessanta mette in campo,
in diversi paesi, nuovi modelli: alcuni ambivalenti come Brigitte
Bardot, in apparenza semplice ninfetta conturbante, in effetti
incarnazione di una sessualità limpida, spavalda, anche aliena dalle
complicazioni sentimentali (che inizialmente scandalizza il pubblico
francese, mentre cattura subito quello americano)[3];
altri decisamente irrequieti e indocili, come i personaggi proposti da
Jane Fonda, Vanessa Redgrave, Glenda Jackson, Jeanne Moreau, attrici
spesso impegnate sul fronte della contestazione.
Sui nostri schermi, invece, l’immagine
della donna resta ostinatamente statica. Dal muto ai telefoni bianchi,
dalla grande stagione neorealista a quella del neorealismo in salsa
rosa, dal turgore dei melodrammi alla leggerezza delle commediole, i
personaggi femminili, a prima vista eterogenei – graziose fidanzatine, femmes fatales,
madri dolorose, mogli adultere – non fanno in fondo che variare la
sempiterna dicotomia santa-puttana; parecchi altri, poi, conciliano
perfettamente i due termini, come le maggiorate fisiche degli anni
Cinquanta, provocanti quanto virtuose, o tutt’al più peccatrici redente
(tra l’altro – senza grande successo – importate a Hollywood, come
opportuno contraltare alle figure troppo innovative)[4]. Le stesse indimenticabili protagoniste del neorealismo e dei suoi sviluppi, come la Magnani di Roma città aperta (1945) o la Loren della Ciociara
(1960) soffrono e lottano esclusivamente in nome dell’amore e della
famiglia; mentre l’inedito rilievo conferito alle donne nei film di
Antonioni o già in quelli concepiti da Rossellini per Ingrid Bergman, è
di stampo anomalo, perché si tratta di personaggi alla deriva, il cui
smarrimento filtra la crisi di certi contesti, o uno stato generale di
alienazione[5].
Fino a un certo punto questa stasi
dell’immaginario corrisponde evidentemente a quella della società
italiana, riflette il peso del regime fascista, l’ombra lunga della
morale cattolica, la pervicacia della mentalità patriarcale. Dagli anni
Sessanta, però, il quadro si complica: anche da noi la stasi si smuove,
la militanza femminista si diffonde, la condizione femminile cambia; ma
l’universo cinematografico, anziché registrare queste svolte, sembra
piuttosto contrastarle e respingerle. Certo, superficialmente i film
italiani danno conto delle battaglie del femminismo, delle leggi sul
divorzio e sull’aborto, della crescente libertà sessuale, di altre
faticate conquiste (solo nel 1963 viene aperto alle donne l’accesso in
magistratura, è addirittura del 1981 l’abrogazione della norma sul
delitto d’onore). Ma più in profondità le cose ristagnano: il cinema
d’autore (quello di Fellini in particolare) continua per lo più a negare
alle donne la dimensione di soggetto, raffigurandole soprattutto come
proiezioni del desiderio maschile, eccitanti quanto enigmatiche; e i
filoni più caratteristici dell’epoca –protesi, ognuno a suo modo, a
intercettarne i mutamenti – confutano o esorcizzano le metamorfosi del
rapporto tra i sessi, con la totale rimozione, o con l’enfatizzazione
degli antichi stereotipi.
Il cinema engagé appunto di
Rosi, e di Petri, Damiani, Vancini, che processa la storia e
l’attualità, e scava nel marcio delle istituzioni, estromette la
presenza femminile o la confina in striminziti ruoli di contorno; gli
spaghetti western e i “poliziotteschi” metropolitani, che traspongono i
conflitti sociali e generazionali nell’incandescenza di vicende
avventurose e scontri all’ultimo sangue[6],
ammettono le donne solo come vittime o trastulli, classico “riposo del
guerriero”; la commedia all’italiana in bilico tra satira caustica e
diversivo consolatorio (nata per fustigare le ipocrisie e i vizi
nazionali, finisce spesso invece per vellicarli), la farsa pecoreccia
sua fortunata gemmazione, e i mélo porno-soft a cui dà il via
l’attenuazione della censura, presentano essenzialmente le protagoniste
come appagamento della virilità o valvola di sfogo dei suoi squilibri.
Le stesse figure in apparenza
alternative a questi tipici declassamenti della donna a oggetto, più che
assorbire le spinte di liberazione in atto, tendono a neutralizzarne
l’energia. Le spregiudicate ninfette che si fanno strada anche sui
nostri schermi risultano più ribaltamento che riproposta del modello
Bardot: la loro disinibizione resta chiusa nel cono d’ombra di traumi
irrisolti e fantasmi edipici, sembra, anziché gioiosa ricerca del
piacere fisico, espressione nevrotica di turbe psichiche, anziché segno
di passaggio all’età adulta, sintomo di una crescita inceppata; il
principale obiettivo che le anima è difatti andare a letto con uomini
maturi simili ai loro padri, oppure (in Appassionata di Calderone [1974], in Così come sei
di Lattuada [1978]) più direttamente e semplicemente con i padri
stessi. L’autorità familiare riafferma in forme morbose il proprio
controllo; l’uso alla buona della psicoanalisi diviene modo sia per
stuzzicare che per rassicurare la pruderie di un pubblico tanto avido di trasgressione quanto timoroso del suo potere.
L’interessamento prioritario che in
tutti i filoni ripercorsi lega gli uni agli altri i personaggi maschili –
sia poi loro scopo accopparsi, allearsi o divertirsi – non sembra
sottendere, come sarebbe facilissimo concludere, una latenza omoerotica,
ma piuttosto un senso di angoscia: gli antagonismi irriducibili fil rouge
dei film di Sergio Leone (come delle loro filiazioni epigonali o dei
poliziotteschi), esprimono un coraggio fine a se stesso vicino al cupio dissolvi;
i sodalizi di stampo goliardico pimento della commedia all’italiana –
cementati da tic e rituali che scivolano nella coazione a ripetere –
appaiono modo per esorcizzare la morte, come nei due Amici miei di Monicelli (1975/82), o senz’altro per cercarla, come nella Grande abbuffata
di Ferreri (1973); l’esaltazione del mondo maschile trasmette un
rifiuto di confronto con l’alterità che è rifiuto di confronto con la
vita stessa. Un rifiuto che contribuisce a spiegare la risonanza di
questi filoni negli Stati Uniti: il fascino di rimbalzo dello spaghetti
western (che, ripresa di quello americano, ne ispira a sua volta gli
sviluppi), l’influsso su Easy Rider (1969) del Sorpasso di Risi (1962), anche gli echi della commediaccia trash,
ricordata con nostalgia da Tarantino. Non solo la reificazione delle
figure femminili solletica evidentemente le forze conservatrici e
reazionarie, costituisce il ritorno di un superato mai superato del
tutto; ma inoltre, il desiderio di morte che si sprigiona dalle tragiche
storie di sangue come dalle amene vicende di cameratismo del cinema
italiano offre all’immaginario statunitense un’ideale, parossistica via
di fuga dalle aspre lacerazioni tra il vecchio e il nuovo che – al di là
delle tante differenze tra gli specifici contesti – contrassegnano
tutta l’epoca.
2. Naturalmente, il panorama descritto
non è così compatto. Parecchi film drammatici degli anni
Sessanta-Settanta traggono la loro forza anche o soprattutto da figure
di donne memorabili, che però non scalfiscono mai troppo i modelli
egemonici: alcune delle più toccanti, come la Sophia Loren casalinga
umiliata e sensibile di Una giornata particolare di Scola
(1977), si muovono nel solco di un prototipo tradizionale, pur
sfatandone i presupposti; restano relegate in parti secondarie altre più
insolite, come la Lisa Gastoni militante della Resistenza dei Sette fratelli Cervi
di Puccini (1968), legata all’Aldo Cervi di Gian Maria Volonté dalla
lotta partigiana, oltre che da una storia infinitamente dolce di amore
impossibile; non escono granché dai limiti dell’esempio dimostrativo
quelle al centro di vere e proprie vicende di riscatto come l’Ornella
Muti della Moglie più bella di Damiani (1970), ispirato al caso
epocale di Franca Viola, o la Stefania Sandrelli di uno dei rari film
italiani di esplicito impegno femminista, Io sono mia di Sofia Scandurra (1977).
Dal canto suo, il cinema
comico-umoristico sembrerebbe escludere sorprese. Mentre il protagonismo
di molte attrici americane – dalle mattatrici della screwball comedy
fino a Goldie Hawn, Diane Keaton o Barbra Streisand – passa spesso per
il registro brillante, le nostre produzioni riasseriscono
incessantemente il vecchio pregiudizio che ritiene il piacere
dell’ilarità squisitamente maschile e vuole le donne incapaci di
gestirlo o anche di comprenderlo. Una regola che trova a lungo nelle
eccezioni solo ulteriori conferme, perché le attrici italiane di
riconosciuto talento comico sono solitamente al di qua, al di là o al di
fuori delle canoniche soglie di identità sessuale: a volte ragazzette
sbarazzine con modi da maschiaccio (da tomboy, secondo la
terminologia corrente) come Carla Del Poggio, Chiaretta Gelli, Lilia
Silvi, lanciate ai tempi dei telefoni bianchi e tramontate appena perso
lo smalto della prima giovinezza; a volte donne prive di ogni
femminilità seducente come Franca Valeri, che sa mostrare con amaro
spirito tutto il dolore legato a questa mancanza in un film di Risi
insieme divertente e tristissimo, Il segno di Venere (1955); a volte negazioni della femminilità tout court come la somma Tina Pica, su cui i queer studies avrebbero di che sbizzarrirsi (in Pane, amore e gelosia
di Comencini [1954] redarguisce sui suoi doveri il maresciallo Vittorio
De Sica di cui è domestica, dichiarando: “Servo l’Arma da trent’anni,
trent’anni di onorato servizio; e mi sento carabiniere”). E la commedia
all’italiana, come già si accennava, sembra calcare questa logica
all’estremo, lasciando campo aperto al virtuosismo dei celebratissimi
“quattro colonnelli” Gassman, Manfredi, Sordi e Tognazzi[7],
e accettando le donne solo in ruoli di bellone recluse nella sfera
dell’eros, o di bruttine incluse in quella dell’ilarità esclusivamente
come sue vittime, oggetti del riso più facile e crudele, quello baluardo
del conformismo, finalizzato all’espressione di superiorità,
all’avvertimento del contrario, alla fustigazione del diverso.
Notoriamente, però, il riso può avere
altre articolazioni, insinuare nei messaggi convenzionali sensi
destabilizzanti, convertirsi, persino all’interno della stessa opera, da
roccaforte in scardinamento della morale corrente, da punizione della
diversità in sua rivalsa: la galassia della comicità è più sfrangiata e
fluida di quella del dramma. Intanto, proprio il “neorealismo in salsa
rosa” che a inizio anni Cinquanta lancia le prime maggiorate fisiche
permette inizialmente loro di esprimere una notevole vis comica: le
figure incarnate da Gina Lollobrigida e Sophia Loren nella serie Pane e amore (1953-55), nell’Oro di Napoli di De Sica (1954), in Peccato che sia una canaglia di
Blasetti (1954), sono donne oltre che sexy allegre, irridenti,
smargiasse, in grado di animare gag esilaranti; però, i ruoli assegnati
alle due interpreti e alle loro epigone si fanno presto più incolori e
la loro verve sbiadisce rapidamente. Invece la commedia all’italiana
successiva, generalmente, come si diceva, regno del più trionfale
maschilismo, è gradualmente sconvolta da due attrici, peraltro
differentissime, che vi fanno irruzione un po’ a sorpresa: Monica Vitti
(già musa di Antonioni), che arriva a dominarla al punto da esserne
definita “quinto colonnello”[8],
e Mariangela Melato, che affianca film di tipo vario a una costante
attività nel grande teatro di prosa. Entrambe attraversano senza
scadimenti una filmografia disomogenea, lasciando un segno nelle opere
consistenti quanto in quelle dozzinali, e, senza abdicare alla propria
femminilità, entrambe (probabilmente anche oltrepassando le indicazioni
di regia) diventano primedonne della risata: a mio avviso, proprio
giocando sulle sue ambivalenze, adattandosi agli schemi collaudati per
deformarli surrettiziamente, raggiungendo immediate, efficaci formazioni
di compromesso tra una comicità liscia, consona alle aspettative, e un
umorismo spigoloso in grado di travolgerle[9].
Parecchi dei loro personaggi sono, per
quanto lontani da ogni immagine di emancipazione edificante,
vistosamente fuori dai ranghi. La Melato, più giovane, e direttamente
coinvolta nella contestazione femminista, anima del suo impegno varie
ribelli sempre fragili e perdenti ma incessantemente combattive, da
quelle commoventi di due film della Wertmüller, Mimì metallurgico ferito nell’onore (1972) e Film d’amore e d’anarchia (1973), a quella insieme commovente e ridicola della Poliziotta
di Steno (1974), che alla comicità di grana grossa alterna sprazzi di
satira graffiante. La Vitti, più fluttuante tra il piano realistico e
quello surreale, impersona invece ribelli clamorosamente improbabili e
buffe, ma che mettono sempre in discussione l’assetto che le circonda:
dall’autostoppista prima molestata e poi molestatrice del film a episodi
Le Fate (1966) alla motociclista spaccona di Qui comincia l’avventura di Di Palma (1975), passando per la più strepitosa, l’Assunta della Ragazza con la pistola di Monicelli (1968), che da un paesino della Sicilia arriva alla swinging London, sa prendersi gioco sia delle ossessioni di supremazia virile del suo seduttore siciliano sia della puntigliosa political correctness
del suo fidanzato inglese, e sovverte i cliché sull’eterno femminino
senza contestarli, ma professandoli convintamente in astratto per
smentirli continuamente nei fatti (dopo aver viaggiato da sola, trovato
lavoro, affrontato sconosciuti nonché – per difendersi dall’aggressione
diretta o dal giudizio pubblico – menato le mani e brandito armi,
replica con sincero stupore a un ragazzo che loda la sua forza “Ma che
dici… io donna sono: debole”)[10].
D’altra parte, entrambe sanno anche
interpretare personaggi racchiusi nei soliti stereotipi, signore del bel
mondo invischiate in relazioni coniugali e extraconiugali, inoltre
abbastanza petulanti e bisbetiche da soddisfare le esigenze della
comicità più corriva e quelle del maschilismo suo caparbio sottofondo;
ma riescono, combinando le tecniche dell’immedesimazione e dello
straniamento, ad aderire camaleonticamente ai propri ruoli, e al tempo
stesso, caricandone o smorzandone i toni, a prenderne le distanze: così
da apparire a disagio nella condizione borghese e persino da mettere in
dubbio tutto lo sfondo di valori e illusioni che la sorregge. La Vitti
ripropone in chiave ilare lo smarrimento che la caratterizzava nei film
di Antonioni, con una serie di mogli svagate, insofferenti, indifferenti
anche alla maternità: su tutte, la protagonista dell’Anatra all’arancia
di Salce (1975), che, divisa tra marito e amante, sembra in effetti
infastidita da entrambi, annoiata sia dalla vita di moglie e madre sia
dalla fuga romantica a cui si sta accingendo. La figura più cult della
Melato è la sciura milanese ricca e snob di un altro film della
Wertmüller, Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare di agosto
(1974), che da insopportabile datrice di lavoro del marinaio Giancarlo
Giannini si trasforma, dopo il naufragio che li lascia soli su un’isola,
in sua focosa amante; il cui sguardo sempre inquieto e malinconico
esprime prima una sotterranea insoddisfazione verso il jet-set di cui è
esponente, poi il timore, confermato dall’acre unhappy ending,
che il ritorno alla civiltà e alla sua “struttura deformante” segni la
riaffermazione degli steccati sociali e la fine della storia d’amore.
Sia la Vitti che la Melato sono
ampiamente notate all’estero; ma la loro sospensione tra l’accettazione e
lo stravolgimento dei consueti schemi comici risulta probabilmente
tanto accattivante quanto troppo insolita, così da non essere recepita
fino in fondo oppure da venire snaturata. Per il pubblico internazionale
la Vitti rimane soprattutto la musa di Antonioni, e le più interessanti
produzioni straniere a cui partecipa, da Modesty Blaise di Losey (1966), curiosa parodia della spy story, al Fantasma della libertà
di Buñuel (1974), affollato di episodi, non mettono abbastanza in luce
le sue doti brillanti; mentre la commedia che prova a imporre la Melato a
Hollywood, So Fine di Andrew Bergman (1981), satira del mondo
della moda, la riporta in un prototipo più scontato. Inoltre, il film
appena citato della seconda, Travolti da un insolito destino,
divenuto un cult anche negli Stati Uniti, è oggetto di un classico
esempio di riscrittura banalizzante: il regista inglese Guy Ritchie ne
gira nel 2002 un remake, Swept Away, grandioso successo
annunciato e disastroso flop di fatto, in cui alla mobile inquietudine
della Melato subentrano le stagnanti pose da superstar di Madonna, la
contaminazione tra farsa e dramma dell’originale è diluita in uno
stucchevole sentimentalismo, e l’asprezza pungente del finale è
cancellata con una logora trovata da melodramma (non è la riemersione
dei pregiudizi di classe ma l’intervento del malvagio di turno a
troncare la passione dei protagonisti); il tentativo di rendere più
commestibili i sapori forti dell’originale produce un polpettone
insipido quanto indigesto.
3. I sapori troppo forti continuano
comunque a spaventare; le miscele spericolate, anche quando riescono,
vengono facilmente messe da parte. Il compromesso tra vecchio e nuovo
sperimentato dalla Melato e dalla Vitti, accolto all’estero
parzialmente, da noi è stato accantonato: la produzione
comico-umoristica recente non valorizza le pur dotatissime interpreti in
circolazione (Paola Cortellesi, Lucia Ocone, Virginia Raffaele, per
fare qualche nome), preferendo sfornare all’infinito altri esempi dei
soliti modelli, e ingiungendo di nuovo al mondo femminile quel divieto
d’accesso alla battuta di spirito, solido appiglio per stereotipi di
genere ancora lontani dal tramontare. Perché, se ormai anche il cinema
italiano accetta il peso professionale e l’indipendenza erotica delle
donne, ribadisce in altre forme remoti preconcetti: nei filoni più vari
le grandi ambizioni e vocazioni, e i dubbi e i tormenti loro retaggio,
continuano a essere appannaggio maschile, mentre ai personaggi femminili
rimangono preclusi sia l’energia desiderante che il senso critico[11],
specialmente nella sua variante più acuminata, il senso dell’umorismo.
In molti dei nostri film in generale, ma in particolare nelle nostre
commedie – da quelle più ambiziose a quelle di cassetta, da Moretti a
Brizzi a Verdone, giù giù ai cinepanettoni – le donne restano o “esseri
di fuga”, più affascinanti perché insondabili, oppure mogli e compagne
immancabilmente lucide e pragmatiche, e quasi altrettanto
immancabilmente asfissianti e recriminanti: in effetti, una delle
qualità più volentieri riconosciute alle donne sugli schermi italiani – e
nella società italiana in assoluto – è un robusto senso pratico,
altrettanto volentieri presentato come categorica refrattarietà a ogni
volo di immaginazione, a ogni slancio di dubbio, e, soprattutto, a ogni
guizzo di ironia.
La pervicacia di questi stereotipi
può essere spiegata da ben note constatazioni sociologiche. A tutt’oggi,
come le inchieste di costume, la cronaca politica, e purtroppo la
cronaca nera provvedono quotidianamente a rammentarci, l’autonomia e
l’intraprendenza delle donne suscitano diffidenza e fastidio, urtano
contro continue riemersioni di pregiudizi antichi e pulsioni ataviche[12]:
è dunque comprensibile che ancora possa essere ignorato o rintuzzato il
loro potere di trasformarsi da oggetto inerme in soggetto attivo della
comicità, e di maneggiarne le risorse più eversive; senza contare che,
forse proprio per le ragioni appena ricordate, sono ancora troppo poche
le registe, magari più in grado di valorizzare questo potere fino in
fondo (non sarà del tutto un caso se è nelle opere della Wertmüller che
la Melato ha raggiunto le sue performance cinematografiche migliori).
Ma resta il dubbio che queste
spiegazioni non siano sufficienti, o meglio che finiscano per risultare
troppo comode, trasformandosi in alibi di una stagnazione indefinita, e
aiutando a giustificare una certa attuale inerzia sia della fantasia
individuale che dell’immaginario collettivo. Dopo tutto, sappiamo che la
finzione artistica può complicare e contraddire il discorso sociale,
che i testi innovativi rimobilitano l’orizzonte di attese; e che
tantissimi autori hanno in tempi differenti oltrepassato barriere
ideologiche, smosso cliché inflazionati, e spesso sfidato e svecchiato,
magari in modo progressivo e impercettibile, le regole del mercato e
dello show business. A dimostrarlo basterebbe un esempio non
proprio recentissimo come quello di Goldoni, che abolisce il dominio
delle maschere, sostituisce ai canovacci i testi scritti, e inoltre
sconvolge gli intrecci invalsi e l’abituale costellazione scenica, anche
traendo spunto dal lavoro quotidiano con le compagnie: è la recitazione
anticonvenzionale e briosa di Maddalena Marliani, attrice che la
distribuzione allora fissa delle parti vincolava al ruolo della
servetta, a suggerirgli un’idea rivoluzionaria, mettere quel ruolo da
sempre secondario in primo piano, e concepirne articolazioni adatte
all’estro dell’interprete[13]; e da questa idea nascerà La locandiera
(1753) – messinscena dei conflitti di classe e della lotta tra i sessi
all’avanguardia non solo per il suo tempo ma pure per quelli successivi –
in cui una protagonista di condizione sociale modesta fronteggia uomini
di estrazione superiore, manipolando i loro sentimenti – e dominando
quelli propri – con la forza dell’intelligenza e dell’arguzia. Per
inciso, un caso di made in Italy di ampio successo sui
palcoscenici internazionali, che offrirebbe moltissimi spunti anche a
grandi trasposizioni cinematografiche (prevede movimentati
attraversamenti di interni, intreccia costantemente al linguaggio
verbale quelli del corpo, dello sguardo e dei sapori), ma che finora ha
ispirato solo trasposizioni deboli o pessime, e decisamente non delle
più tese a dar rilievo al protagonismo femminile: da una scialba
versione del 1944 di Luigi Chiarini, a uno sgangherato musical del 1980
con Celentano e Claudia Mori (di bruttezza inaudita pure per gli
spettatori che già conoscono le loro performance), a un liberissimo
adattamento del 1985 di Tinto Brass, Miranda (finalizzato
essenzialmente a lanciare la Serena Grandi nuova diva sexy di allora),
che, siccome teneva dietro a un gran successo del regista, La chiave,
fu pubblicizzato, e sì, con lo slogan “la chiave ha aperto la porta,
Miranda la spalanca” (tutte le accuse del mondo si merita il
berlusconismo, ma quella di aver precipitato nella volgarità un paese
innocente è un po’ esagerata).
Una trasposizione degna di questo nome
potrebbe, chissà, scompigliare un po’ il quadro ripercorso, confermato
anche dalle commedie attuali più fantasiose e interessanti, che appaiono
più adatte a conquistare il mercato straniero, o che già sono arrivate a
farlo. Nel gustoso esordio registico di Sidney Sibilia, Smetto quando voglio (2014), rappresentazione di taglio sbrigliato e fondo amaro della nostra realtà di crisi e precariato[14],
sono tutti uomini i protagonisti, ricercatori universitari senza lavoro
talentuosi e disperati, uniti dalla passione intellettuale e dalla
voglia di rivalsa in una complicità degna della banda dei soliti ignoti;
a cui restano rigorosamente estranee le donne che appena si affacciano
ai bordi della trama, un gruppo di escort debitamente mute e
compiacenti, un’ingenua ragazza smaniosa di matrimonio, e una moglie
affidabile, concreta e scocciantissima quanto (è tutto dire) quelle
ricorrenti nei film di Muccino. Nella commedia drammatica di Paolo
Sorrentino La grande bellezza (2013), insignita dell’Oscar e
nostro vanto nazionale, le differenze di genere possono apparire meno
rigide, perché tutti i personaggi che affollano la Roma cultural-mondana
messa in scena sono insieme tristi e grotteschi, fluttuanti tra
illusioni perdute e ostentazioni compulsive. Però quelli maschili sono
intensamente consapevoli di questa condizione, e capaci di fronteggiarla
con atteggiamenti avvertiti, che vanno dal tagliente disincanto del
Toni Servillo protagonista, malinconico scrittore mancato, al cinismo
grossolano del Carlo Buccirosso furbo commerciante. Le figure femminili
invece (con l’eccezione della direttrice di giornale nana, che
l’anomalia fisica rende però un caso a parte) appaiono negate alla
consapevolezza, inabili a mettere in discussione sia se stesse sia la
realtà in cui si muovono: o sospese in un’identità rimasta indefinita
come la Sabrina Ferilli in piena spirale di autodistruzione; o chiuse in
un’identità troppo precisa e compiaciuta come la Galatea Ranzi
radical-chic supponente, facile preda dello spietato sarcasmo del
protagonista; o perse in un’identità devastata, come l’ex soubrette
sfiorita, preda ancor più facile dell’ilarità collettiva, che è proprio
la Serena Grandi già menzionata, ultimo esempio della classica parabola
che trasforma in oggetto di scherno la donna che non può più essere
oggetto di desiderio[15].
Il riso torna a essere quello facile e beffardo della superiorità e
della presa di distanze; e il secondo sesso risulta ancora una volta suo
ideale bersaglio.
Beninteso, si tratta di un film stratificato, su altri versanti assai più insolito e complesso[16],
che può aver colpito la critica e il pubblico americani per le ragioni
più varie. Ma non è escluso che la sua raffigurazione del femminile
abbia esercitato una certa fascinazione regressiva, che questa ulteriore
presentazione delle donne come oggetto anziché soggetto dell’ironia sia
riuscita congeniale a pregiudizi e diffidenze ancora vivi anche
oltreoceano. Se, come si accennava, alcune interpreti hollywoodiane
degli anni Trenta e alcuni volti della contestazione degli anni Sessanta
forzavano anche mediante l’umorismo discriminazioni ancora incombenti,
in epoca di diritti ormai ottenuti e conquiste ormai pacifiche certe
resistenze tornano a galla proprio attraverso la negazione dell’umorismo
femminile: di fatto, pure sugli schermi statunitensi al momento
latitano le attrici brillanti; e significativamente i due film che hanno
rilanciato la serie Sex & the City hanno neutralizzato la
verve dissacrante che ne costituiva il pregio, rendendo le protagoniste
molto più convenzionali, sottraendo loro il wit affilato e malizioso che le contrassegnava nell’originale televisivo. Mentre le evoluzioni dei Gender Studies mettono in crisi tutti gli steccati, sottolineando il carattere costruito, performativo dell’identità sessuale[17],
il cinema americano e quello italiano ribadiscono concordi le
distinzioni tra i sessi più tradizionali: innanzitutto e soprattutto
asserendo che la risata non è femmina. Ci sarebbe da trarne conclusioni
pessimiste. Ma sappiamo che la storia non segue lineari tracciati
evolutivi, e che lo stato attuale della realtà, come dell’immaginario, è
troppo denso di contraddizioni per non essere aperto a nuovi sviluppi;
inoltre, il discorso rischierebbe di farsi recriminante, dando così
ragione ai cliché finora discussi. Quindi fermiamoci qui e votiamoci ai
santi: mai però a quelli canonici, ma sempre e solo a San Giuseppe da
Copertino.
Note
[1] Sull’energia desiderante come forza narrativa, cfr. P. Brooks, Trame: intenzionalità e progetto nel discorso narrativo (1984), Einaudi, Torino 1995.
[2] Su permanenze e metamorfosi dell’immagine femminile nel cinema americano cfr. in particolare M. Rosen, La donna e il cinema. Miti e falsi miti di Hollywood (1973), dall’Oglio, Milano 1978.
[3] L’ambivalenza è colta da Simone de Beauvoir in un saggio uscito originariamente in inglese, Brigitte Bardot and the Lolita syndrome, Deutsch and Weinenfeld and Nicolson, London 1960.
[4]
Sulla presa internazionale del prototipo incarnato dalle maggiorate,
riproposto ai giorni nostri dalla Bellucci e dalla Cucinotta, cfr. S.
Gundle, Figure del desiderio. Storia della bellezza femminile italiana (2007), Laterza, Roma-Bari 2009.
[5] Sull’attaccamento della nostra filmografia alla visione della femminilità tradizionale, cfr. P. Carrano, Malafemmina. La donna nel cinema italiano, Guaraldi, Rimini 1977; la raccolta di articoli di G. Grazzini, Eva dopo Eva. La donna nel cinema italiano dagli anni Sessanta a oggi, Laterza, Roma-Bari 1980; M. Cottino-Jones, Women, Desire and Power in Italian Cinema,
Palgrave Macmillan, New York 2010, ricognizione che va dall’epoca del
muto agli anni Novanta, e sottolinea particolarmente il peso costante
dell’ideologia patriarcale.
[6]
I rimandi di questi film alle tensioni del loro tempo sono messi in
luce (e anche un po’ sopravvalutati) nel libro del collettivo che usa lo
pseudonimo Douglas Mortimer, Quando tutto era possibile. 1960-1980: come l’Italia esporta cultura, Manifestolibri, Roma 2013.
[7] Sugli sviluppi e sull’involuzione del genere, cfr. M. D’Amico, La commedia all’italiana. Il cinema comico in Italia dal 1945 al 1975 (1985), Il Saggiatore, Milano 2008, M. Grande, La commedia all’italiana (a cura di O. Caldiron), Bulzoni, Roma 2003, e le molte preziose osservazioni comprese in A. Masecchia, Vittorio De Sica. Storia di un attore, Kaplan, Torino 2013.
[8] Sull’attrice cfr. il profilo di C. Borsatti, Monica Vitti, L’Epos, Palermo 2005.
[9]
Per la concezione del comico e dell’umorismo sottesa a questo discorso,
si fa riferimento, oltre che ai notissimi saggi di Bergson, Pirandello e
Freud, a F. Orlando, Lettura freudiana del “Misanthrope” e due scritti teorici (1979), Einaudi, Torino 1990, e a C. D’Angeli, G. Paduano, Il comico, Il Mulino, Bologna 1999.
[10] M. Cottino-Jones, Women, Desire and Power in Italian Cinema, cit., che dà un certo peso all’immagine della donna nel cinema comico, include La ragazza con la pistola tra i film che più demoliscono la tradizionale immagine maschile.
[11] Beninteso, con notevoli eccezioni, come il recente film di Fabio Mollo, Il sud è niente,
che si impernia proprio sui due poli da cui abbiamo preso le mosse, la
rassegnazione e la rabbia, e che ruota tutto intorno alla ricerca di
identità di una ragazzina calabrese, in lotta per uscire dai limiti
della propria condizione (e anche da quelli della propria pelle).
[12] Tra le ultime riflessioni in merito cfr. C. Soffici, Ma le donne no. Come si vive nel paese più maschilista d’Europa, Feltrinelli, Milano 2010, e L. Zanardo, Il corpo delle donne, Feltrinelli, Milano 2011.
[13] Cfr. il racconto dell’episodio (secondo il suo solito, schivo e un po’ sornione) in C. Goldoni, Memorie (1787), Einaudi, Torino 1967, pp. 302-12.
[14] D. Balicco, La commedia all’italiana 2.0. Smetto quando voglio di Sidney Sibilia,
“Le parole e le cose”, 9 febbraio 2014, mostra che il film sa aprire
uno squarcio sulla nostra specifica situazione attraverso tecniche
compositive e formali adeguate ai più alti standard internazionali.
[15]
La sceneggiatura del film precisa che l’ex soubrette ispira una “tenue
compassione” e sottolinea la “banale saccenza” della radical-chic (cfr.
P. Sorrentino, U. Contarello, La grande bellezza, Skira, Ginevra-Milano 2013, pp. 12, 48).
[16] Cfr. D. Brogi, La grande bellezza, “Between”, III, 5, 2013, e gli articoli compresi in questo numero.
[17] Cfr. in particolare i noti saggi di J. Butler, Gender Trouble (1990), nella nuova ed. a cura di S. Adamo, Questione di genere. Il femminismo e la sovversione dell’identità, Laterza, Roma-Bari 2013, e Corpi che contano. I limiti discorsivi del “Sesso” (1993), Feltrinelli, Milano 1996.
[Una prima versione di questo saggio è uscita sul numero 68 di «Allegoria»].
Nessun commento:
Posta un commento