Riprendiamo un
articolo su Antonio Tabucchi, trovato in rete, che
sintetizza bene l'opera dello scrittore “italo-portoghese”.
Osvaldo guerrieri
Tabucchi, la
letteratura come inquietudine
Il 25 marzo di un anno fa
moriva a Lisbona Antonio Tabucchi. Aveva sessantotto anni e nessuno
sapeva che era malato. Anche gli amici ignoravano che un cancro ai
polmoni gli stava spolpando la vita.
L’urna con le sue
ceneri fu collocata nella cappella gotica del cimitero dei Prazeres
dedicata alla memoria degli «escritores portugueses»: sembrava la
scelta più naturale custodire in quel luogo i resti del più
portoghese dei nostri scrittori. E poi, come per indicare un legame
astrale, la cappella della «saudoza memoria» non è molto distante
dal monastero dei Jeronimos dove riposano le spoglie di quel Pessoa
che Tabucchi fece conoscere in Italia, tradusse in collaborazione con
la moglie Maria José de Lancastre, detta Zé, e divenne quasi un suo
misterioso doppio.
Naturalmente
Tabucchi non è stato soltanto il fervido divulgatore della poesia di
Fernando Pessoa, né l’inquilino di Lisbona tanto abbagliato dalla
sua luce da suggerire agli amici l’immagine dell’italiano che
sogna in portoghese. Tabucchi è stato molte altre cose che, pur
diverse fra loro, sono riuscite ad armonizzarsi dentro la sua
persona. È stato un viaggiatore e un uomo del mondo che, oltre a
Pisa e all’amato rifugio di Vecchiano, oltre a Lisbona, aveva
Parigi nel cuore e nella mente. È stato un narratore di atmosfere
misteriose. È stato un intellettuale senza padroni, obbediente al
motto «non serviam»: non servirò.
Queste sue molteplici
facce, quasi una proiezione del «baule pieno di gente» di cui
trabocca la poesia di Pessoa, sono rintracciabili in una produzione
letteraria che ha raggiunto presto il cuore dei lettori, da Piazza
d’Italia a Notturno indiano che, pubblicato nel 1984, fu
trasformato in film nel 1989 da Alain Corneau. Nel 1994, anno per lui
importantissimo, Tabucchi pubblicò due libri che ancora oggi paiono
fondamentali. Il primo era Requiem, scritto direttamente in
portoghese e solo successivamente tradotto in italiano. In quelle
pagine si incontrano tutti gli incubi e i sogni dell’io narrante,
tutte le persone che gli sono state care, compreso Pessoa che parla
in inglese.
L’altro libro era
Sostiene Pereira, che diede a Tabucchi una larghissima rinomanza e
nel ’95 diventò un film di successo con la regia di Roberto
Faenza. Quando il romanzo finì nelle mani di Marcello Mastroianni,
l’attore, a lettura finita, si attaccò al telefono, chiamò lo
scrittore e gli disse, quasi gli urlò: «Pereira sono io!» come
rivendicando una primogenitura interpretativa. Complessa la genesi
del Pereira. Tabucchi trasse il nome da Eliot e da un suo piccolo
intermezzo intitolato What about Pereira? In un articolo scritto per
Il Gazzettino, contenuto in appendice al volume pubblicato da
Feltrinelli, confessò che Pereira veniva a visitarlo per chiedergli
di essere scritto. Sembrava un personaggio in cerca di autore,
un’invenzione di Pirandello.
Ma Pereira era esistito.
Tabucchi lo aveva incontrato a Parigi. Era un giornalista portoghese
rifugiatosi in Francia per difendersi dalle rappresaglie poliziesche
dopo avere scritto un articolo contro la dittatura. Tornato in patria
dopo la caduta di Salazar, nessuno si ricordava più di lui. Tabucchi
se lo trovò sotto gli occhi leggendo il necrologio della sua morte.
Andò a salutarlo. Disteso nella bara, gli parve grasso e flaccido.
Tornarono i ricordi, poi la fantasia fece il resto.
Al di là della riuscita
letteraria, Sostiene Pereira segnò uno snodo cruciale nella vita e
nella carriera di Tabucchi. Il romanzo dell’intellettuale che dalla
sua marginalità si oppone a un regime dittatoriale superava la
dimensione della favola e diventava un simbolo di condotta civile. In
Italia erano gli anni dell’ascesa berlusconiana. I maîtres-à-penser
che avevano nutrito l’animo di Tabucchi - primo fra tutti Camus e
il suo homme révolté - si svegliarono. E lui, anche quando
continuava a offrirsi come narratore, si trasformava in uomo
pubblico. «Non crede - domandava il personaggio del Convitato nel
finale di Requiem - che sia proprio questo che deve fare la
letteratura, inquietare?».
E Tabucchi, fuori e
dentro la letteratura, inquietava, provocava. Nell’attività
politica di Berlusconi, e nell’opposizione insignificante, vedeva
un paese condannato alla deriva. Cominciò a protestare. Pubblicò
articoli durissimi su Micromega e su Le Monde. Sull’Unità attaccò
Renato Schifani e il presidente del Senato lo denunciò chiedendo un
milione di euro come risarcimento. «Sosteniamo Tabucchi» proclamò
Le Monde raccogliendo firme di solidarietà tra gli intellettuali di
tutto il mondo.
Ma Tabucchi si
considerava così libero da andare anche contro gli «intellos» che
lo avevano sostenuto. È accaduto in occasione dell’ultima
battaglia civile combattuta contro Cesare Battisti. In Francia l’ex
terrorista condannato in contumacia dalla giustizia italiana per
quattro omicidi commessi durante gli anni di piombo aveva ottenuto
una larga rete di protezione. Gli «innocentisti a priori», primo
tra tutti il filosofo Bernard-Henri Lévy, lo consideravano un
perseguitato, la vittima di un sistema iniquo.
E Tabucchi reagiva, li
trattava da ignoranti, da gente che non sapeva l’italiano e perciò
non era in grado di leggere una sentenza. Gente, soprattutto, che
ignorava la Storia. Era fatto così, ed è superfluo notare come
sembri essersi perduto, con lui, lo stampo dell’intellettuale che
pone la verità e l’onestà al di sopra di ogni altro bene.
È stato un uomo plurale
come Pessoa, ed è su questa sua molteplicità che si snoderanno le
tre giornate fiorentine con cui, un anno dopo, si renderà omaggio a
un uomo che, alludendo a se stesso, aveva scritto: «Gli artisti sono
sempre piccoli David di fronte a un enorme Golia. Non sono loro a far
cadere i regimi, ma vivendo nell’Attuale, nel loro tempo, nel loro
”ora”, se non altro ne osservano le storture; se non altro,
tentano di capire il perché e il quando delle cose, di ciò che non
va. E capire è già molto».
La stampa – 22 marzo 2013
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