04 giugno 2015

M. FOUCAULT: La penna come bisturi



Foucault: Ho trasformato il bisturi in pennino.


Quel che mi colpisce molto, per esempio, è che i miei lettori immaginano abbastanza spesso che ci sia una certa aggressività nella mia scrittura. Personalmente non ho affatto questa impressione. Credo di non aver mai attaccato realmente, esplicitamente, nessuno. Per me scrivere è un’attività estremamente dolce, felpata. Quando scrivo, ho come la sensazione di un velluto. Per me l’idea di una scrittura vellutata è come un tema familiare, al limite tra l’affettivo e il percettivo, che continua a ossessionare il mio progetto di scrivere, a guidare la mia scrittura mentre sto scrivendo, che mi permette in ogni momento di scegliere le espressioni che voglio utilizzare. Per la mia scrittura il vellutato è una sorta d’impressione normativa. Rimango perciò molto stupito quando vedo che gli altri riconoscono in me piuttosto la scrittura secca e mordace. Pensandoci bene, credo che siano gli altri ad avere ragione. Immagino che nel mio pennino ci sia una vecchia eredità del bisturi. E in fin dei conti non è vero forse che sul bianco della carta traccio quegli stessi segni aggressivi che mio padre tracciava nel corpo degli altri quando operava? Ho trasformato il bisturi in pennino.
(michel foucault)

Anticipazione // Il bel rischio, un inedito di Michel Foucault Lascio cicatrici perché uso la penna come un bisturi
Michel Foucault


Non sono molto affascinato dal lato sacro della scrittura. So che attualmente questo lato viene percepito dalla maggior parte delle persone che si dedicano alla letteratura o alla filosofia. Ciò che l’Occidente ha imparato da Mallarmé in poi è che la scrittura ha una dimensione sacra, che essa è una sorta di attività in sé, non transitiva. La scrittura si è eretta a partire da se stessa, non tanto per dire, mostrareo insegnare qualcosa, ma per essere là. Oggi questa scrittura è in qualche modo il monumento dell’essere del linguaggio. Sul piano della mia esperienza vissuta, confesso che non è stato così che per me la scrittura si è presentata. Ho sempre avuto una diffidenza quasi morale nei confronti della scrittura. (…)
Uno dei miei ricordi più costanti è quello delle mie difficoltà a scrivere bene. Scrivere bene nel senso in cui s’intende alle scuole elementari, cioè fare pagine di scrittura ben leggibile. Credo, anzi sono addirittura certo, di essere stato il più illeggibile della classe, della scuola. Questo è durato a lungo, fino ai primi anni della scuola secondaria. Alle medie mi facevano fare pagine speciali di scrittura, tali erano le mie difficoltà a tenere la penna come si deve e a tracciare, come si deve, i segni della scrittura. Ecco quindi un rapporto con la scrittura un po’ complicato, un po’ sovraccarico. Ma c’è un altro ricordo, molto più recente. È il fatto che, in fondo, non ho mai preso molto sul serio la scrittura, l’atto di scrivere. La voglia di scrivere mi è venuta solo verso i trent’anni. (…)
Mi domando se in questa svalutazione della scrittura non si esprimesse il sistema di valori della mia infanzia. Appartengo a una famiglia di medici, una di quelle famiglie di medici di provincia che, nella vita un po’ addormentata di una piccola città, rappresentano sicuramente un ambiente relativamente adattativo o, come si usa dire, progressista. Ciò non toglie che l’ambiente medico in generale, soprattutto in provincia, sia particolarmente conservatore. Si dovrebbe fare una bella ricerca sociologica sull’ambiente medico nella Francia di provincia. Ci renderemmo conto che è stato nel XIX secolo che la medicina, o meglio il personaggio medico, è diventato borghese. (…)
Ho vissuto in un ambiente in cui la razionalità gode quasi di un prestigio magico, un ambiente i cui valori sono opposti a quelli della scrittura. Il medico, infatti, non è colui che parla, bensì colui che ascolta. Ascolta la parola altrui, non per prenderla sul serio, non per capire che cosa voglia dire, ma per rintracciare attraverso di essa i segni di una malattia seria, cioè di una malattia del corpo, una malattia organica. Il medico ascolta, ma per attraversare la parola dell’altro e raggiungere la verità muta del suo corpo. Il medico non parla, ma agisce, cioè palpa, interviene. Il chirurgo scopre la lesione nel corpo addormentato, apre il corpo e lo ricuce, opera: tutto questo nel mutismo, nella riduzione assoluta delle parole. Le sole parole che pronuncia sono brevi parole di diagnosi e terapia. In questo senso la parola del medico è straordinariamente rara. È stata probabilmente questa svalutazione profonda, funzionale, della parola nella vecchia pratica della medicina clinica che ha pesato a lungo su di me, facendo sì che fino a una decina, dozzina d’anni fa, per me la parola fosse ancora e sempre parola vana. (…)
Nonostante tutto, quale che sia stata la mia conversione, ho sicuramente conservato della mia infanzia, e fin nella mia scrittura, un certo numero di filiazioni che dovrebbe essere possibile ritrovare. Quel che mi colpisce molto, per esempio, è che i miei lettori immaginano abbastanza spesso che ci sia una certa aggressività nella mia scrittura. Personalmente non ho affatto questa impressione. Credo di non aver mai attaccato realmente, esplicitamente, nessuno. Per me scrivere è un’attività estremamente dolce, felpata. Quando scrivo, ho come la sensazione di un velluto. Per me l’idea di una scrittura vellutata è come un tema familiare, al limite tra l’affettivo e il percettivo, che continua a ossessionare il mio progetto di scrivere, a guidare la mia scrittura mentre sto scrivendo, che mi permette in ogni momento di scegliere le espressioni che voglio utilizzare. Per la mia scrittura il vellutato è una sorta d’impressione normativa. Rimango perciò molto stupito quando vedo che gli altri riconoscono in me piuttosto la scrittura secca e mordace. Pensandoci bene, credo che siano gli altri ad avere ragione. Immagino che nel mio pennino ci sia una vecchia eredità del bisturi. E in fin dei conti non è vero forse che sul bianco della carta traccio quegli stessi segni aggressivi che mio padre tracciava nel corpo degli altri quando operava? Ho trasformato il bisturi in pennino.
Sono passato dall’ efficacia della guarigione all’inefficacia del libero discorso; ho sostituito alle cicatrici sul corpo i graffiti sulla carta; ho sostituito all’ incancellabile della cicatrice il segno perfettamente cancellabile della scrittura. Forse dovrei andare ancora oltre. Forse il foglio di carta è per me il corpo degli altri.


Traduzione di Antonella Moscati Tratto da “Il bel rischio. Conversazione con Claude Bonnefoy” 2011 Èditions de l’ École des hautes études en sciences sociales, 2013 Edizioni Cronopio pp. 88, € 10
da Repubblica, 26 luglio 2013 p. 40.

Testo ripreso da https://georgiamada.wordpress.com/2013/08/01/foucault-ho-trasformato-il-bisturi-in-pennino/

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