È uscito da poco il volume collettivo Subalternità italiane. Percorsi di ricerca tra letteratura e storia (Aracne),
a cura di Valeria Deplano, Lorenzo Mari, Gabriele Proglio. Si tratta di
una serie di riflessioni sul concetto di subalternità. Questa è
l’introduzione:
Subalternità italiane
di Valeria Deplano, Lorenzo Mari, Gabriele Proglio
È dagli anni Ottanta, dalla costituzione del collettivo dei Subaltern Studies presso l’Università di Nuova Delhi, che le analisi delle società coloniali e postcoloniali hanno iniziato ad essere messe in discussione dall’introduzione dei “subalterni” come
agenti della storia. Il termine, che rimanda alla formulazione
originale di Antonio Gramsci, nel contesto coloniale e postcoloniale
indica quegli individui la cui soggettività è stata soppressa in virtù delle differenze di genere, appartenenza etnica e classe, e la cui voce è stata
repressa e scompare dalla narrazione e dalla ricostruzione storica
dominanti. L’obiettivo originario del collettivo indiano – poi
allargatosi anche al di fuori del contesto asiatico, ridefinito e, come
si vedrà, criticato nelle sue basi dal dibattito successivo – consiste
nello smontare i sistemi di rappresentazione e classificazione che
hanno reso quei soggetti degli “oggetti muti”, al fine di leggere e
capire i vari processi di ibridazione, negazione e resistenza da loro
messi in atto. Il tentativo del gruppo di ricerca indiano è di smarcare le soggettività dei
subalterni dal doppio giogo del colonialismo, da un lato, e,
dall’altro, della nuova élite dirigente indiana, giunta al potere dopo
l’indipendenza dell’India, proclamata il 15 agosto 1947.
Come ricorda
Edward Said, intorno al tavolo convocato da Ranajit Guha si siedono
intellettuali che partono dalla constatazione che «la storia indiana è stata scritta da un punto di vista colonialista ed elitario, mentre una parte cospicua della storia indiana è stata fatta dalle classi subalterne».
Tali presupposti trovano forza ed ispirazione nelle pagine scritte da
Gramsci, da cui mutuano alcuni concetti e li declinando in una
prospettiva completamente differente da quella originaria: l’India. Si
pensi al testo di Guha, Dominance without hegemony (1997), in cui la critica a tre storiografie differenti (due del periodo inglese – affermatesi, rispettivamente, durante il periodo coloniale e nell’immediato dopoguerra – e una definita ‘nazionalista’), poggia sulle riflessioni di Gramsci sul Risorgimento e sul fallimento delle élite
dirigenti di parlare all’intera nazione. Parimenti, le tre narrazioni
della storia dell’India non tengono conto di quella maggioranza espulsa
dai discorsi unici e unificati della politica: le classi e i gruppi
subalterni attraverso cui si sono realizzate le trasformazioni
societarie. Nella stessa prospettiva teorica si colloca il lavoro di
Partha Chatterjee, Nationalist Thought and the Colonial World,
con l’intento di ridiscutere il rapporto tra periodo coloniale e fase
postcoloniale. Gramsci compare anche nell’altro importante lavoro di
Chatterjee, The Politics of the Governed, che si concentra sulla lettura delle forme di cittadinanza, con l’impiego del concetto di società politica tra metropoli asiatiche e i vecchi Stati occidentali.
Il
rovesciamento di prospettiva indotto dalla ricerca della voce dei
subalterni ha interessato solo in maniera marginale, e soltanto di
recente, gli studi sul caso italiano. Com’è noto,
la storiografia sul colonialismo in Italia ha sofferto di forti ritardi
rispetto agli altri contesti europei, limitandosi per decenni ad
analisi che privilegiavano la ricostruzione degli aspetti militari e
politici e mantenendo, anche dopo lo spostamento dell’attenzione sulle
implicazioni culturali dell’imperialismo, un approccio che raramente
consentiva l’emergere della questione della subalternità. Tale situazione si rivela come un’ulteriore conseguenza della “costruzione colpevole” della memoria dell’esperienza coloniale nell’Italia repubblicana, questa sì accuratamente sviscerata dal dibattito storiografico, a partire dai lavori di Angelo Del Boca e Nicola Labanca.
La mancanza di una riflessione pubblica sul portato fattuale, ma anche
culturale, del colonialismo nell’Italia repubblicana ha consentito
l’acritico perpetuarsi e riproporsi di costruzioni culturali che molto
devono a quelle elaborate nel periodo precedente. Calando questo
discorso nel contesto italiano, è palese l’esistenza di un collegamento tra le diverse rappresentazioni, di duplice natura: vi è quello,
abituale in quasi tutti i Paesi europei, tra metropoli e oltremare
(nelle due diverse declinazioni italiane della Libia e del Corno
d’Africa); vi è poi quello tra Settentrione e
Mezzogiorno, ossia tra un Nord considerato sviluppato, bianco e civile e
un Sud raccontato come retrogrado, scuro, barbaro.
Anche
nell’ambito della critica letteraria, numerose sono state le riflessioni
che hanno inteso rispondere a questo rinnovamento trans-disciplinare,
incorporando, in primo luogo, le riflessioni dei Subaltern Studies
indiani e la successiva posizione critica assunta da Gayatri
Chakravorty Spivak, e risalendo soltanto in seconda battuta
all’originaria formulazione gramsciana. Negli approcci dei Subaltern
Studies e di Spivak, si può rilevare un forte interesse per le possibilità di rappresentazione della figura del subalterno, una prospettiva che, come ha sottolineato Marcus Green in un importante saggio di poco più di un decennio fa, acquisisce maggior rilievo negli studi più recenti, a discapito dell’interesse marxista e gramsciano per la coscienza dei subalterni e per la loro posizione sociale e politica. Come dimenticare, tuttavia, la reiterata critica di Gramsci dei Promessi Sposi manzoniani, dove il rapporto tra intellettuali italiani – la classe intellettuale è, secondo Green e molti altri, uno dei cardini della riflessione gramsciana su egemonia e subalternità – e
classi subalterne si sviluppa come un confronto «fra due razze, una
ritenuta superiore e l’altra inferiore, il rapporto come fra adulto e
bambino nella vecchia pedagogia o peggio ancora un rapporto da società protettrice degli animali»?
Rispetto a Gramsci, sono tuttavia i lavori dei Subaltern Studies ad avviare un confronto sistematico con la subalternità in
letteratura, facendone via via un interesse programmatico. Si legge, ad
esempio, nell’introduzione alla loro decima pubblicazione, Subaltern Studies X: Writings on South Asian History and Society: «[W]e have always conceived the presence and pressure of subalternity to go beyond subaltern groups; nothing – not elite practices, state policies, academic disciplines, literary texts, archival sources, language – was exempt from effects of subalternity». La questione della rappresentazione della subalternità raggiunge il suo culmine con l’opera critica di Spivak, a partire con ogni probabilità non dall’ormai classico “Can The Subaltern Speak?”, ma ancor prima, almeno da “Three Women’s Texts and a Critique of Imperialism”. In quest’ultimo saggio si registra la possibilità di rileggere Jane Eyre di Charlotte Brontë, accostandolo alla sua rielaborazione novecentesca e postcoloniale, Il grande mare dei Sargassi di Jean Rhys: la centralità di
Antoinette Cosway/Bertha Mason nel romanzo dell’autrice caraibica
evidenzia, per contrasto, quella che era la totale subordinazione,
nonché il silenzio pressoché completo, del personaggio caraibico – “la pazza della soffitta”, secondo una precedente definizione di Sandra Gilbert e Susan Gubar – all’interno del romanzo di Charlotte Brontë.
Se l’analisi
delle opere di Manzoni, Brontë e Rhys costituisce un fattore di
incoraggiamento nel proseguire l’esercizio critico mirato a verificare
l’ipotesi di una rappresentazione della subalternità nei testi letterari, questa stessa operazione non può prescindere, però, da un confronto con le forme specifiche che tale rappresentazione può assumere. In questo senso, si profilano due opzioni letterarie, etiche e politiche: parlare per le soggettività subalterne,
fornendo loro quella voce che la condizione di subordinazione e
marginalizzazione sociale non consente di udire, oppure parlare accanto a loro, creando, cioè, una possibilità dialogica
all’interno del testo, allo scopo di evitare, per quanto possibile,
ogni tipo di manipolazione ideologica. Mentre la prima strategia,
ampiamente censurata nella prospettiva critica di Spivak, si presta
sempre di più a operazioni di critica radicale, la seconda, che è basata su alcune rielaborazioni teoriche successive della questione, si configura come la strada maestra adottata dalla letteratura più recente, come si delinea anche nell’intervista allo scrittore Wu Ming 1 che chiude questo volume.
Oltre a essere fortemente sollecitata dallo stato degli studi, una riflessione sulle “subalternità italiane” è indotta e resa urgente da alcuni recenti avvenimenti che hanno posto e continuano a porre la questione della subalternità in modo estremamente visibile e al tempo stesso estremamente nascosto.
Si pensi, ad
esempio, alla protesta degli uomini e delle donne migranti reclusi nel
CIE (Centro di Identificazione e di Espulsione) di Ponte Galeria, a
Roma, iniziata nel dicembre 2013 e proseguita, a intervalli irregolari,
fino a oggi. All’interno della particolare attenzione mediatica dedicata
a questi eventi tra il gennaio e il febbraio 2014, la protesta è stata resa quasi esclusivamente a livello iconico, e dunque in una modalità già in
partenza fortemente stilizzata, attraverso le immagini di quei migranti
che, all’interno dell’azione di contestazione e di denuncia delle loro
condizioni di internamento, hanno deciso di cucirsi la bocca usando un
rocchetto di fil di ferro. Finiti per qualche giorno in prima pagina
sulle maggiori testate giornalistiche nazionali e nei servizi d’apertura
dei telegiornali, i primi piani dei migranti con le bocche cucite
rappresentano anche una perfetta illustrazione didascalica per le tesi
di fondo del saggio “Can the Subaltern Speak?” di Spivak.
La domanda
contenuta nel titolo del saggio di Spivak, infatti, riceve una risposta
piuttosto netta da parte della studiosa anglo-bengalese: no, il subalterno non può mai parlare, in virtù di
un processo, designato con il termine lacaniano di “forclusione”, che
introduce e al tempo stesso espelle dall’ordine socio-simbolico il
soggetto. In realtà, come già aveva osservato Patrizia Calefato nell’introduzione alla traduzione italiana di A Critique of the Postcolonial Reason. Towards a History of the Vanishing Present della stessa Spivak, l’interrogativo posto dall’autrice nel suo saggio del 1986 riguarda, in prima istanza, le soggettività subalterne femminili. “Can the Subaltern Speak?”, infatti, è dedicato alla pratica, molto diffusa nel subcontinente indiano in epoca coloniale, del sati, ossia del rituale di uccisione, sulla pira funeraria, delle donne rimaste vedove.
È opportuno quindi tradurre così la domanda di Spivak, in italiano: “può la subalterna parlare?”. La risposta sembra essere, una volta di più, negativa: la cosiddetta “rivolta delle bocche cucite” è stata
raccontata come un’azione organizzata e realizzata in larga parte da
migranti uomini, tacendo su ogni forma di partecipazione, o di
rivendicazione di agency, delle donne che pure hanno fatto e continuano a far parte della popolazione carceraria di Ponte Galeria.
C’è di più: la consacrazione fotografica e, in senso lato, mass mediatica della “rivolta delle bocche cucite” non contribuisce soltanto a giustificare la forclusione delle soggettività subalterne,
rendendola emblematica, ma produce anche altri interrogativi. Un
ulteriore motivo di riflessione proviene, ad esempio, dalla teoria della
fotografia, che ormai da molto tempo insegna a non cadere nel tranello
di chi vede nell’immagine fotografica una “testimonianza
incontrovertibile” della realtà, ottenuta, peraltro, dall’obiettivo
di chi scatta. Una fotografia, infatti, crea sempre il problema della
propria cornice: cosa c’è, dunque, intorno ai primi piani dei migranti
del CIE romano? Il CIE stesso, naturalmente, ossia uno spazio detentivo
istituzionalizzato dallo Stato italiano, con la finalità ufficiale di identificare ed espellere i migranti privi di documenti e in realtà destinato
all’attuazione di una politica di detenzione priva di giustificazioni
giuridiche. Non si tratta, in questo caso, di una circostanza
esclusivamente limitata al presente, poiché la produzione di subalternità attraverso tecniche di governamentality attraversa
tutta la storia coloniale e postcoloniale europea e anche italiana:
essendo determinata, nel caso dei CIE, da una politica di matrice
emergenziale, non sono rari gli spunti teorici che hanno inteso vedere
nella condizione dei soggetti là detenuti quella riduzione a nuda vita che Agamben, in Homo sacer, già individuava nei campi di concentramento del secolo scorso.
Jean Comaroff sintetizza da par suo questo trait d’union: «Anche i regimi coloniali governarono mettendo in strada le vite dei loro sudditi, allontanandoli dai mezzi di sussistenza – da intendersi come possibilità economiche, cure sanitarie e diritti civili – nel tentativo di ridurli a nudi organismi biologici sotto il marchio della differenza razziale».
Tuttavia, nella sua analisi delle controverse politiche sanitarie del
Sudafrica del post-apartheid, sotto la guida di Thabo Mbeki, Comaroff
aggiunge anche: «Anche allora il bando non fu mai totale e i sudditi
coloniali soffrirono tanto a causa della squisita applicazione della
legge quanto a causa della sua sospensione». È allora possibile, per Comaroff, «ricongiungere la sofferenza a una eziologia sociale critica e così dunque
opporre resistenza alla riduzione della vita a bruta biofisicità», in
quanto «queste lotte mirano anche a un cambiamento di registri e a una
generale politica positiva di titolarità e cittadinanza».
Ciò accade
anche nel caso della ‘rivolta delle bocche cucite’, nel quale la
narrazione mediatica non fornisce alcun tipo di appiglio utile a
riportare l’immagine al suo contesto, tanto istituzionale quanto
resistenziale, ossia alla ripetuta azione di protesta e di rivolta
organizzata all’interno del CIE romano. Eppure, questi eventi risultano
essere almeno parzialmente paragonabili, a livello strutturale, alle
manifestazioni seguite alle aggressioni di lavoratori migranti a
Castelvolturno (nel 2008) e Rosarno (nel 2008 e nel 2010). Davanti a
questa forclusione didascalica della subalternità, ottenuta a mezzo
fotografico, può esistere uno spazio sociale e politico per l’agency che Federico Olivieri e altri sociologi hanno rintracciato nei riots di Castelvolturno e di Rosarno?
Gli interrogativi che emergono dall’analisi delle immagini legate alla “rivolta delle bocche cucite” non costituiscono un tentativo, che sarebbe altresì goffamente
limitato, di sottoporre il saggio di Spivak a un esercizio di critica
radicale. “Can the Subaltern Speak?”, anzi, resta, per molte buoni
ragioni, un punto di riferimento imprescindibile per molti dei saggi
inclusi in questa antologia; fornisce, infatti, una prospettiva critica
estremamente duttile e, pertanto, in grado di interrogare
approfonditamente le questioni storiografiche, culturali e letterarie
legate alla “razza”, alla classe e al genere che i saggi qui raccolti
intendono affrontare. Ciò non toglie, parimenti, che la prospettiva critica di Spivak sulla subalternità apra più ambiti di riflessione di quelli che la tesi del saggio stesso sembrerebbe chiudere, negando ogni possibilità di auto-rappresentazione per le soggettività subalterne.
Il rapporto tra subalternità e agency, ad esempio, invoca una riflessione più ampia
sulla coscienza soggettiva e inter-soggettiva, come ha osservato Neil
Lazarus nella sua recente critica della posizione di Spivak in The Postcolonial Unconscious. Lazarus sottolinea come “Can the Subaltern Speak?” assecondi
una precisa tendenza politica delle élite accademiche globali,
permettendo l’assorbimento reificante della coscienza delle classi
subalterne nei termini generali e generici della ‘subalternità’.
Ricordando come “Can the Subaltern Speak?” abbia
costituito l’atto di separazione definitivo di Spivak dal progetto
storiografico e culturale dei Subaltern Studies indiani, promosso da
studiosi della levatura di Ranajit Guha, Lazarus
afferma che i Subaltern Studies si erano originariamente impegnati
proprio nel tentativo di recuperare i contenuti e le forme della
coscienza del “popolo”, indipendentemente dal fatto che queste fossero
emerse in modo autonomo oppure attraverso la mediazione e manipolazione
delle élite.
Lungi dal prendere una posizione definita nella diatriba che Lazarus suscita nei confronti di Spivak – poiché anch’essa è definibile, prima di tutto, secondo regole interne alla divisione del lavoro accademica – si
intende qui cogliere almeno uno spunto positivo, ed estremamente
fecondo, che emerge dalle parole di Lazarus, invitando, cioè, a
considerare il lavoro storiografico dei Subaltern Studies insieme a oppure oltre alla prospettiva, propria della teoria culturale, avanzata da Spivak.
Ne deriva così un
forte impulso verso la costruzione di un progetto interdisciplinare
sulle questioni della “subalternità”, nel quale ricerca storiografica e
teoria culturale sono invitate a debordare e a sconfinare
reciprocamente, aprendo nuovi ambiti di riflessioni piuttosto che
chiuderli.
Un primo e provvisorio bilancio delle esperienze di studio che da più di un decennio si muovono nell’ambito italiano mette in evidenza come la riflessione sul passato coloniale e sulle eredità postcoloniali
ad esso correlate soffra di un duplice isolamento, esterno e interno
agli studi stessi. In Italia gli studi storici e letterari sono
continuamente limitati nella loro capacità epistemologica
dall’adozione di statuti che funzionano come confini impenetrabili,
estremi e definitivi del farsi e disfarsi delle discipline. Cogliendo le
teorizzazioni sul discorso coloniale, questo volume nasce invece
dall’esigenza di approfondire lo studio del caso italiano portando
avanti un’analisi in profondità che renda
permeabili i confini disciplinari e che, mettendo in relazione la
letteratura con la storia, lavori per mettere in luce le discontinuità di registro e le continuità di narrazione. Su entrambe è necessario
interrogarsi per comprendere le forme di domino del passato, le molte
facce della storia coloniale del paese, ma anche le condizioni di
soggettivazione postcoloniale.
Nel contesto
epistemologico e teorico-metodologico precedentemente definito, sembra
opportuno approfondire la pratica di ri-significazione che l’apposizione
dell’attributo “italiane” produce all’interno del nesso “subalternità italiane”.
Non si tratta, infatti, di rimarcare l’esistenza, che dovrebbe essere
ontologicamente verificabile, di una specificità nazionale nelle questioni storiografiche, culturali, letterarie e politiche attraversate dalla presente antologia di saggi. Né si
tratta di ri-territorializzare in modo greve e unilaterale narrazioni
legate a “razza”, genere e classe che, derivando spesso da una
prospettiva critica influenzata dallo sviluppo teorico degli studi
postcoloniali, si intendono ormai molto spesso come “trans-nazionali” e “trans-culturali”.
Per contro,
si mira, in primo luogo, a ricostituire quel nesso tra una riflessione
di stampo economico e politico e una riflessione di stampo più chiaramente ‘culturale’ di
cui, per tornare al nostro esempio, il dibattito critico-accademico tra
Neil Lazarus e Gayatri Spivak (ma molti altri potrebbero essere i nomi e
le posizioni in gioco) ancora non fornisce un’esplicazione articolata,
preferendo offrirsi nei termini di una polarizzazione dicotomica. Tale
processo di ri-avvicinamento, ove non sia possibile una completa
riconciliazione, può avvenire anche, senza dubbio, entro i limiti materiali e simbolici di una cornice nazionale – intendendo, naturalmente, per ‘nazionale’ sia ciò che postula i confini del significante “Italia”, sia ciò che questi limiti mettono in discussione e in crisi. In un’ottica compiutamente post-coloniale e trans-nazionale, infatti, non è più possibile pensare al significante ‘Italia’ come
irrelato rispetto ad altri significanti, continuando a perseguire, a
titolo di esempio, un lavoro storiografico che guarda al colonialismo
italiano come a un fatto politico (o anche militare, economico,
culturale, letterario, etc.) che nasce e termina, chiudendo
perfettamente il cerchio, nell’alveo della storia d’Italia. Né sembra
possibile perseverare in una concezione di critica letteraria che si
sofferma in modo esclusivo sulla tradizione in lingua italiana,
includendovi magari anche la “letteratura migrante in lingua italiana” e
la “letteratura postcoloniale italiana”. A quest’altezza, pare
opportuno, invece, prendere seriamente in considerazione quelle
tradizioni letterarie, artistiche e culturali, che pur sviluppandosi in
altre lingue, sono entrate in un medesimo processo di circolazione dei
saperi con la storia italiana, coloniale e post-coloniale. Questo libro è l’esemplificazione del fatto che un processo culturale può avvenire a più voci.
Esso affronta alcune questioni italiane gettando lo sguardo oltre la
soglia nazionale, prendendo spunto dal dibattito scaturito dalle
teorizzazioni di Spivak per una trasformazioni dei saperi che non è mai riproposizione di modelli importati, tradotti, di paradigmi e di griglie interpretative prestabilite, ma di una circolarità e
di una circolazione che, nel sovrapporre ipotesi diverse, contribuisce a
ri-definire la cornice interpretativa italiana e le sue mille
sfaccettature.
In secondo luogo, parlare di ‘subalternità italiane’ implica
l’applicazione di una serie di correttivi rispetto all’ipertrofia
vorace, e pur tuttavia non esente da limitazioni e banalizzazioni, di
tutto ciò che oggi può essere rubricato come “travelling theory”, cioè teorie
che, viaggiando, possono modificarsi e ibridarsi, «dando luogo a
concatenazioni e a esiti tanto imprevisti quanto interessanti». In The World, the Text and the Critic,
l’opera di Edward Said che ha canonizzato quest’ultima definizione, lo
studioso anglo-palestinese si chiedeva, a proposito della circolazione
all’epoca ormai trans-nazionale delle opere di Lukács «whether by virtue
of having moved from one place and time to another an idea or a theory
gains or loses in strength, and whether a theory in one historical
period and national culture becomes altogether different for another period or situation». A conferma della propria bontà profetica, il dilemma esposto da Said è andato perduto nella vulgata saidiana, a favore, invece, dell’esaltazione, spesso a-critica, di una “travelling theory” libera di muoversi nello spazio e nel tempo e di trasformarsi ad libitum.
Anche la riflessione teorico-critica sulla subalternità ha goduto delle stesse possibilità e delle stesse restrizioni di altre “travelling theories”. L’originaria affermazione di Karl Marx ne Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte (1852) sulla necessità che qualcuno fornisca la rappresentazione che le classi subalterne non riescono a darsi in modo autonomo è stata poi elaborata e approfondita, com’è noto, da Antonio Gramsci nei Quaderni dal carcere. Il pensiero di Gramsci ha poi “viaggiato” sia
all’interno della tradizione marxista occidentale che in India e,
successivamente, di nuovo negli Stati Uniti, venendo accolto e
manipolato creativamente, in questi ultimi casi, tanto dal gruppo dei
Subaltern Studies quanto da Spivak.
Se così può essere riassunta, molto rapidamente e per sommi capi, una parte del “viaggio” ormai
canonico della teoria della subalternità, collocare gli studi che
seguono entro una cornice nazionale italiana non vuol dire tanto
ribadire l’ortodossia gramsciana a fronte di una sua vulgata spesso
teoricamente carente – magari facendosi scudo di
un’impostazione direttamente o indirettamente filologica che non è, in
ogni caso, l’unica a poter fornire un’interpretazione esauriente del
pensiero del filosofo sardo – bensì riconoscere che la teoria della subalternità, così come altre “travelling theories”, può guadagnare o perdere qualcosa nelle diverse circostanze in cui è applicata, inclusa quella fornita dalla cornice “italiana”.
Il volume propone pertanto una riflessione sul concetto di subalternità e
sulle sue molteplici declinazioni assunte in colonia o in Italia
attraverso dodici saggi e un’intervista che, ricercando una relazione
tra storia e letteratura, ed aprendosi anche ad altre forme espressive
quali il cinema e la televisione, mettono a fuoco le narrazioni, i
processi, le pratiche i cui precipitati hanno prodotto e/o continuano a
generare forme di subalternità.
Testo ripreso da http://www.leparoleelecose.it/
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