02 giugno 2015

UMBERTO ECO: DOLORE E FILOSOFIA

  Munch, Fanciulla malata



L' esperienza del dolore è comune a ogni uomo, così come eterno è l'interrogarsi se sia possibile dare alla sofferenza un senso che aiuti ad accettarla. 

Umberto Eco
La filosofia è la cognizione del dolore

Il dolore è certamente fenomeno universale, che può essere ricondotto all'altro grande tema che ha dominato nei secoli teologia e filosofia, ovvero la presenza del male nel mondo. Nella Teogonia di Esiodo, Eris, dea dell'oscurità, fomentatrice di odio e discordia, genera Ponos (la Fatica), Lethe (l'Oblio), Limós (la Fame), e poi Battaglie, Assassinii, Massacri, Conflitti, Menzogne, Controversie, Anarchia e Sciagura, e infine Algea (i Dolori che fanno piangere).

Sin dagli inizi dunque ogni cultura ha riflettuto su quell'esperienza ineluttabile della natura umana, e anche animale, che è il dolore. E non parlo solo della filosofia greca o di quella cristiana: basti pensare al buddismo, dottrina basata sulla coscienza del dolore e della sofferenza come realtà universali, che però possono essere vinte attraverso il loro annullamento nell'insensibilità, nel Nirvana appunto, la fine delle sofferenze, dei dolori e delle passioni.

Quando le diverse religioni e filosofie parlano del dolore, alludono principalmente, per usare una terminologia cartesiana che distingue la res extensa dalla res cogitans, a una passione dell'anima o a una delle passioni del corpo? Credo che sia molto difficile rispondere, come se le passioni corporali non possano avere influenza sui nostri stati psicologici. Le stesse cure palliative ne sono un esempio: certamente mirano a diminuire il dolore fisico, insopportabile nel caso di alcune malattie terminali, ma esse tendono anche a produrre una tranquillità e una disposizione psicologica che possono rendere più sereno il trapasso.

Allo stesso modo ci sono passioni dell'anima che influiscono sul corpo. Tralasciamo per il momento le sofferenze morali che possono portare alla malattia e alla morte, e tanto per alleggerire un po' l'umore, consideriamo le teorie musulmane medievali su una tipica passione dell'anima, il dolore per l'abbandono della persona amata. I primi sintomi sono, almeno per chi osserva il malato d'amore dall'esterno, di tipo corporale.

Per Avicenna il dolore amoroso è un pensiero assiduo di natura malinconica, che diventa tormento ossessivo, dove la memoria ripropone insistentemente l'oggetto amato alla mente di chi ama. I sintomi sono occhi cavi e secchi, mancanza di lacrime, moto continuo delle palpebre, respiro irregolare. L'ammalato ora ride ora piange, le palpebre sono pesanti a causa delle notti insonni, il polso irregolare. In questi casi è necessario toccare appunto il polso dell'ammalato e fare il nome di molte persone del sesso opposto, e quando il ritmo cambia significa che si è pronunciato quello dell'amata. I metodi "palliativi" per questa affezione dell'anima sono anzitutto di natura fisica: ordinare bagni in acqua dolce, comperare schiave e costringere l'ammalato a unirsi sessualmente con loro, prescrivere salassi che determinino una diminuzione dell'umor vitale.

Per Ibn Eddjezzar si deve poi dare vino al dolente, fargli ascoltare musica, portarlo a vedere giardini pieni di luce, di profumi e di frutti, farlo passeggiare con donne e uomini di aspetto piacevole. Trovo solo un suggerimento, in Avicenna, che è di natura non fisica ma psicologica: l'intervento di donne vecchie che denigrino costantemente l'amata. Non so se questi artifici permettessero ai giovani musulmani innamorati di dimenticare la loro sventura, e questo ci fa subito pensare che, mentre i dolori specificamente fisici, poniamo il mal di denti o il mal di ventre, consentivano già ai medici ippocratici di suggerire vari accorgimenti per lenirli, il problema del dolore morale, che si è sempre presentato di volta in volta come nostalgia, melanconia, rimpianto, rimorso, angoscia, ha spinto sin dall'antichità a elaborare una complessa filosofia sul tema.

I filosofi non si sono granché occupati del dolore fisico "buono", quello per cui il corpo ci avverte che stiamo correndo un pericolo, e per cui anche il bambino, dopo avere avvertito la scottatura, impara a non avvicinare più il dito alla fiamma della candela. O ancora, l'improvviso dolorino che ci consiglia di andare dal medico per verificare cosa accade di sgradevole nel nostro corpo. Questo tipo di dolore "buono" potremo chiamarlo fitta, perché, anche se intenso, è di breve durata, e nella breve durata assolve alla sua funzione di campanello d'allarme. Il dolore diventa cattivo quando, dopo averci avvertito che qualcosa non va, permane e anzi si intensifica, anche se abbiamo intrapreso la cura che dovrebbe eliminarne la causa. Insopportabile il dolore cattivo quando è fisico, e altrettanto insopportabile quando è morale.

È, mi pare, sul dolore morale che si intrattengono i primi filosofi dell'Occidente, come ad esempio Democrito, il quale afferma che esso può essere eliminato con il perseguimento dell'euthymìa, ossia della tranquillità, della serenità dell'animo. Vero saggio dunque è colui che impronta la sua vita a regole di moderazione, di accorta misura e di equilibrio, rifuggendo i beni inferiori. Più tardi Aristotele, nell' Etica Nicomachea, dirà che «Il saggio cerca di raggiungere l'assenza di dolore, non il piacere ». 

Già qui si disegna il tema della ricerca dell'imperturbabilità, che sarà poi tipico di stoici ed epicurei, i quali ci parleranno dell'atarassia e dell'apatia. La prima si riferisce all'imperturbabilità del saggio di fronte alle passioni e ai desideri, tale da generare in lui uno stato di serenità e tranquillità. Nell'atarassia l'uomo è soddisfatto della sua condizione, e rinuncia a ogni azione tesa a modificarla. Al contrario, l'apatia presuppone la liberazione dalle passioni per intraprendere un nuovo percorso, scevro dai sentimenti e condotto sotto il segno della razionalità. Ma si tratta di distinzioni che, per quanto abbiano grande rilievo filosofico, possiamo trascurare rispetto al progetto che in esse si esprime, quello cioè di raggiungere tranquillità e saggezza eliminando il dolore.

In generale i filosofi antichi non si sforzano di giustificare o eliminare il dolore fisico, se non quando, per esempio, elogiano chi sa resistere alla tortura, e ne lasciano piuttosto l'amministrazione ai medici della tradizione ippocratica. C'è però un momento nella storia dell'umanità in cui il dolore, non solo quello morale ma in particolar modo quello fisico, cambia di segno: ciò avviene con il Cristianesimo, nel quale il modello di vita diventa il Cristo sofferente, il cui dolore assume una funzione salvifica. La salvezza consiste appunto nell' imitatio Christi. Il problema allora non è liberarsi dal dolore, ma accettarlo e farlo fruttare come strumento di redenzione. 
Nei Sermones, Agostino paragona l'insieme degli eventi dolorosi e delle passioni distruttive che possono visitare un uomo («fame, guerra, carestia, morte, rapina e cupidigia ») alla macina che stritola le olive: «chi sopporterà con rassegnazione e persino con gioia il volere di Dio sortirà da questa terribile spremitura simile a olio lucente, mentre chi si ribellerà non sarà che nera morchia».

Ricorda Hegel nell' Estetica che nell'espressione artistica «non si può raffigurare il Cristo flagellato, coronato di spine, crocifisso, agonizzante nelle forme della bellezza greca». Questa accettazione della "bruttezza" di Cristo non è però stata immediata. L'arte paleocristiana si era limitata all'immagine idealizzata del Buon Pastore. La crocifissione non era ritenuta un soggetto iconografico accettabile e la si evocava al massimo attraverso il simbolo astratto della croce, come avverrà con Costantino. Solo nei secoli del Medioevo più maturo si riconosce nel Cristo in croce un uomo vero, battuto, insanguinato, sfigurato dai patimenti, e la rappresentazione sia della crocifissione sia delle varie fasi della passione diventa drammaticamente realistica.

La repubblica – 5 maggio 2015

Nessun commento:

Posta un commento