Munch, Fanciulla malata
L' esperienza del dolore è comune a ogni uomo, così come eterno è l'interrogarsi se sia possibile dare alla sofferenza un senso che aiuti ad accettarla.
Umberto Eco
La filosofia è la
cognizione del dolore
Il dolore è certamente
fenomeno universale, che può essere ricondotto all'altro grande tema
che ha dominato nei secoli teologia e filosofia, ovvero la presenza
del male nel mondo. Nella Teogonia di Esiodo, Eris, dea
dell'oscurità, fomentatrice di odio e discordia, genera Ponos (la
Fatica), Lethe (l'Oblio), Limós (la Fame), e poi Battaglie,
Assassinii, Massacri, Conflitti, Menzogne, Controversie, Anarchia e
Sciagura, e infine Algea (i Dolori che fanno piangere).
Sin dagli inizi dunque
ogni cultura ha riflettuto su quell'esperienza ineluttabile della
natura umana, e anche animale, che è il dolore. E non parlo solo
della filosofia greca o di quella cristiana: basti pensare al
buddismo, dottrina basata sulla coscienza del dolore e della
sofferenza come realtà universali, che però possono essere vinte
attraverso il loro annullamento nell'insensibilità, nel Nirvana
appunto, la fine delle sofferenze, dei dolori e delle passioni.
Quando le diverse
religioni e filosofie parlano del dolore, alludono principalmente,
per usare una terminologia cartesiana che distingue la res extensa
dalla res cogitans, a una passione dell'anima o a una delle passioni
del corpo? Credo che sia molto difficile rispondere, come se le
passioni corporali non possano avere influenza sui nostri stati
psicologici. Le stesse cure palliative ne sono un esempio: certamente
mirano a diminuire il dolore fisico, insopportabile nel caso di
alcune malattie terminali, ma esse tendono anche a produrre una
tranquillità e una disposizione psicologica che possono rendere più
sereno il trapasso.
Allo stesso modo ci sono
passioni dell'anima che influiscono sul corpo. Tralasciamo per il
momento le sofferenze morali che possono portare alla malattia e alla
morte, e tanto per alleggerire un po' l'umore, consideriamo le teorie
musulmane medievali su una tipica passione dell'anima, il dolore per
l'abbandono della persona amata. I primi sintomi sono, almeno per chi
osserva il malato d'amore dall'esterno, di tipo corporale.
Per Avicenna il dolore
amoroso è un pensiero assiduo di natura malinconica, che diventa
tormento ossessivo, dove la memoria ripropone insistentemente
l'oggetto amato alla mente di chi ama. I sintomi sono occhi cavi e
secchi, mancanza di lacrime, moto continuo delle palpebre, respiro
irregolare. L'ammalato ora ride ora piange, le palpebre sono pesanti
a causa delle notti insonni, il polso irregolare. In questi casi è
necessario toccare appunto il polso dell'ammalato e fare il nome di
molte persone del sesso opposto, e quando il ritmo cambia significa
che si è pronunciato quello dell'amata. I metodi "palliativi"
per questa affezione dell'anima sono anzitutto di natura fisica:
ordinare bagni in acqua dolce, comperare schiave e costringere
l'ammalato a unirsi sessualmente con loro, prescrivere salassi che
determinino una diminuzione dell'umor vitale.
Per Ibn Eddjezzar si deve
poi dare vino al dolente, fargli ascoltare musica, portarlo a vedere
giardini pieni di luce, di profumi e di frutti, farlo passeggiare con
donne e uomini di aspetto piacevole. Trovo solo un suggerimento, in
Avicenna, che è di natura non fisica ma psicologica: l'intervento di
donne vecchie che denigrino costantemente l'amata. Non so se questi
artifici permettessero ai giovani musulmani innamorati di dimenticare
la loro sventura, e questo ci fa subito pensare che, mentre i dolori
specificamente fisici, poniamo il mal di denti o il mal di ventre,
consentivano già ai medici ippocratici di suggerire vari
accorgimenti per lenirli, il problema del dolore morale, che si è
sempre presentato di volta in volta come nostalgia, melanconia,
rimpianto, rimorso, angoscia, ha spinto sin dall'antichità a
elaborare una complessa filosofia sul tema.
I filosofi non si sono
granché occupati del dolore fisico "buono", quello per cui
il corpo ci avverte che stiamo correndo un pericolo, e per cui anche
il bambino, dopo avere avvertito la scottatura, impara a non
avvicinare più il dito alla fiamma della candela. O ancora,
l'improvviso dolorino che ci consiglia di andare dal medico per
verificare cosa accade di sgradevole nel nostro corpo. Questo tipo di
dolore "buono" potremo chiamarlo fitta, perché, anche se
intenso, è di breve durata, e nella breve durata assolve alla sua
funzione di campanello d'allarme. Il dolore diventa cattivo quando,
dopo averci avvertito che qualcosa non va, permane e anzi si
intensifica, anche se abbiamo intrapreso la cura che dovrebbe
eliminarne la causa. Insopportabile il dolore cattivo quando è
fisico, e altrettanto insopportabile quando è morale.
È, mi pare, sul dolore
morale che si intrattengono i primi filosofi dell'Occidente, come ad
esempio Democrito, il quale afferma che esso può essere eliminato
con il perseguimento dell'euthymìa, ossia della tranquillità, della
serenità dell'animo. Vero saggio dunque è colui che impronta la sua
vita a regole di moderazione, di accorta misura e di equilibrio,
rifuggendo i beni inferiori. Più tardi Aristotele, nell' Etica
Nicomachea, dirà che «Il saggio cerca di raggiungere l'assenza di
dolore, non il piacere ».
Già qui si disegna il
tema della ricerca dell'imperturbabilità, che sarà poi tipico di
stoici ed epicurei, i quali ci parleranno dell'atarassia e
dell'apatia. La prima si riferisce all'imperturbabilità del saggio
di fronte alle passioni e ai desideri, tale da generare in lui uno
stato di serenità e tranquillità. Nell'atarassia l'uomo è
soddisfatto della sua condizione, e rinuncia a ogni azione tesa a
modificarla. Al contrario, l'apatia presuppone la liberazione dalle
passioni per intraprendere un nuovo percorso, scevro dai sentimenti e
condotto sotto il segno della razionalità. Ma si tratta di
distinzioni che, per quanto abbiano grande rilievo filosofico,
possiamo trascurare rispetto al progetto che in esse si esprime,
quello cioè di raggiungere tranquillità e saggezza eliminando il
dolore.
In generale i filosofi
antichi non si sforzano di giustificare o eliminare il dolore fisico,
se non quando, per esempio, elogiano chi sa resistere alla tortura, e
ne lasciano piuttosto l'amministrazione ai medici della tradizione
ippocratica. C'è però un momento nella storia dell'umanità in cui
il dolore, non solo quello morale ma in particolar modo quello
fisico, cambia di segno: ciò avviene con il Cristianesimo, nel quale
il modello di vita diventa il Cristo sofferente, il cui dolore assume
una funzione salvifica. La salvezza consiste appunto nell' imitatio
Christi. Il problema allora non è liberarsi dal dolore, ma
accettarlo e farlo fruttare come strumento di redenzione.
Nei
Sermones, Agostino paragona l'insieme degli eventi dolorosi e delle
passioni distruttive che possono visitare un uomo («fame, guerra,
carestia, morte, rapina e cupidigia ») alla macina che stritola le
olive: «chi sopporterà con rassegnazione e persino con gioia il
volere di Dio sortirà da questa terribile spremitura simile a olio
lucente, mentre chi si ribellerà non sarà che nera morchia».
Ricorda Hegel nell'
Estetica che nell'espressione artistica «non si può raffigurare il
Cristo flagellato, coronato di spine, crocifisso, agonizzante nelle
forme della bellezza greca». Questa accettazione della "bruttezza"
di Cristo non è però stata immediata. L'arte paleocristiana si era
limitata all'immagine idealizzata del Buon Pastore. La crocifissione
non era ritenuta un soggetto iconografico accettabile e la si evocava
al massimo attraverso il simbolo astratto della croce, come avverrà
con Costantino. Solo nei secoli del Medioevo più maturo si riconosce
nel Cristo in croce un uomo vero, battuto, insanguinato, sfigurato
dai patimenti, e la rappresentazione sia della crocifissione sia
delle varie fasi della passione diventa drammaticamente realistica.
La repubblica – 5
maggio 2015
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