Nell'ultimo volume
pubblicato delle opere scelte di Lutero emerge netta la
contraddizione fra il monaco libertario delle tesi di Wittemberg e
l'alleato dei principi sostenitore dell'intangibilità dell'ordine
costituito che invita allo sterminio dei contadini in rivolta. Ancora
una volta risalta per contrasto la grandezza di Thomas Muntzer e del
suo comunismo religioso, prefigurazione del destino tragico dei
rivoluzionari del Novecento.
Massimo Firpo
Contraddizioni di
Lutero. Il rovesciamento della coscienza
Fu il successo stesso della Riforma a imporre a Lutero l’esigenza di misurarsi con la politica, di definirne la natura, i compiti, i limiti. E nel farlo, tutto immerso com’era nel mondo monastico e scolastico dal quale proveniva, il riformatore sassone guardò al passato, servendosi di concetti ormai inadeguati alle nuove realtà politiche e istituzionali e, ancor più, alle dirompenti lacerazioni religiose innescate dalla sua stessa protesta: la società cetuale intesa come corpus christianum, la netta separazione tra potere temporale e potere spirituale, l’origine divina di entrambi, il fondamento teocratico dell’ordine sociale.
Il 31 ottobre del 1517 aveva affisso le 95 tesi a Wittenberg, nel ’20 aveva pubblicato i suoi scritti più celebri, La libertà del cristiano, Alla nobiltà cristiana di nazione tedesca, La cattività babilonese della Chiesa, nel ’21 era stato condannato da papa Leone X con la bolla Exsurge Domine, che aveva dato pubblicamente alle fiamme con un gesto che ne sanciva la definitiva rottura con Roma. Convocato da Carlo V alla dieta imperiale di Worms, alla richiesta di ritrattare le sue dottrine aveva risposto che, se non si gli fosse dimostrato Bibbia alla mano che sbagliava, non avrebbe potuto negare ciò che la coscienza gli imponeva di credere. Quando scriveva quel libro, insomma, Lutero era al tempo stesso un eresiarca e un ribelle messo al bando sia dalla Chiesa sia dal sacro romano impero, e solo la protezione dell’elettore di Sassonia Federico il Saggio lo metteva al riparo dal patibolo.
Chiarire quali fossero i poteri e i limiti dell’autorità secolare, insomma, era in quel momento una questione cruciale. Come spiega assai bene Paolo Ricca nell’introduzione, due erano i principi enunciati in quelle pagine, in piena coerenza con l’assoluta distinzione tra spirituale e carnale, divino e terreno, che Lutero aveva teorizzato nella Libertà del cristiano: «Un cristiano è un libero signore sopra ogni cosa, e non è sottoposto a nessuno; un cristiano è un servo volonteroso in ogni cosa, e sottoposto ad ognuno».
Ne scaturiva una
concezione politica in base alla quale il potere secolare era stato
istituito da Dio per porre un freno ai malvagi e tutelare il vivere
civile; tutti dovevano quindi ad esso un’assoluta obbedienza
gerarchica, il cui unico limite consisteva in quella inviolabilità
della libertà spirituale di ciascuno che aveva consentito, anzi
imposto a Lutero stesso di non obbedire a Carlo V, suprema autorità
politica della cristianità.
Non stupisce che questa limpida e astratta costruzione dovesse misurarsi in breve tempo con profonde contraddizioni di fronte alle urgenze della concreta e mutevole realtà politica. Se infatti nel ’23 Lutero si preoccupava di garantire libertà d’azione e possibilità di espansione a una Riforma ancora minoritaria, di lì a poco si sarebbero presentati sulla scena anche altri protagonisti della grande crisi religiosa del secolo, come gli anabattisti per esempio, che traevano spunto dal suo messaggio per estenderne le istanze di rinnovamento anche sul terreno sociale e politico, fino all’esplosione rivoluzionaria della grande rivolta contadina scatenatasi in Germania nel 152425.
Durissima fu la risposta
di Lutero, che esortò i principi a non avere pietà nel reprimere e
scannare quei sediziosi che ardivano servirsi della parola di Dio per
istanze tutte terrene, dimentichi del fatto che il cristianesimo
autentico è e deve essere solo croce e sofferenza.
Non solo, ma pochi anni dopo il consolidamento della Riforma gli fece mutar parere – sia pure controvoglia – anche sull’inviolabilità della coscienza e il fido Melantone poté teorizzare il cosiddetto «diritto a riformare», in base al quale un principe cristiano non doveva tollerare che nei suoi domini si praticassero «culti empi», e cioè la fede cattolica; e se l’imperatore organizzava una Lega per debellare la Riforma, ai principi luterani era lecito fare un’eccezione al dovere di obbedienza e scendere in guerra contro il loro legittimo sovrano in quanto alleato dell’Anticristo papale.
Erano stati loro del
resto, in barba al principio della non ingerenza del potere secolare
nelle cose di fede, a guidare il processo di riforma ingoiando enormi
proprietà ecclesiastiche e impadronendosi dei poteri della Chiesa
laddove essa era crollata. La rigorosa teoria politica luterana,
insomma, non avrebbe tardato ad attenuare le distinzioni nette tra
buoni e malvagi, tra spirituale e terreno su cui si basava.
Il discorso tutto
teologico che traeva dalla Bibbia i principi con cui il mondo e gli
uomini dovevano essere governati non poteva esimersi nella realtà –
come sempre – dall’adattarsi ai tempi, all’immane dislocamento
di poteri in corso, alle contingenti opportunità politiche. E, com’è
noto, pressoché illimitata è la capacità dei teologi di piegare la
parola di Dio a ciò che di volta in volta conviene, tanto più in un
universo culturale in cui teologia e politica erano sempre due
inscindibili facce della stessa medaglia.
Lo dimostra il totale capovolgimento dell’intangibilità della coscienza individuale rivendicata dal primo Lutero nel dovere di adeguarsi alla religione del principe che verrà ufficialmente sancito alla pace di Augusta del 1555.
Dieci anni prima, nel
1513, Niccolò Machiavelli aveva teorizzato con spregiudicata
lucidità una politica tutta diversa, anzi antitetica a quella di
Lutero, totalmente esente da ogni fondamento religioso, in cui
diventava addirittura lecito «per mantenere lo stato operare contro
alla fede, contro alla carità, contro alla umanità, contro alla
religione». Principi poco edificanti, non c’è dubbio, ben più
carichi di modernità però rispetto al pensiero tutto medievale e
tutto teologico di Lutero, volto alla costruzione e preservazione di
un ordine immobile.
I fondamenti delle
moderne democrazie, infatti, non scaturirono dal principio della
libertà del cristiano, ma piuttosto dagli aspri e tortuosi percorsi
– segnati da conflitti, rivolte e rivoluzioni, da re decapitati e
“troni vuoti” – che segnarono le origini del contrattualismo
politico, di un potere cioè le cui base poggiavano in terra anziché
in cielo.
Il Sole 24 Ore – 31
maggio 2015
Martin Lutero
L’autorità
secolare, fino a che punto le si debba ubbidienza (1523)
Torino, Claudiana,
2015
€ 19,00
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