25 giugno 2015

MELA MARCIA


Il voto amministrativo di domenica (come le regionali di due settimane fa) confermano che il vecchio PCI è davvero definitivamente scomparso e che il PD di Renzi non ne è, se non in minimissima parte, l'erede.



Luigi La Spina


La scomparsa sul territorio del vecchio Pci


È inevitabile, è intrigante, ma è inutile partire da questa doppia tornata di amministrative per prevedere il risultato del prossimo voto politico. Le variabili, a partire da una scadenza temporale prevista per il 2018 ma che potrebbe anche essere anticipata, sono numerose per azzardare pronostici. È vero che il metodo dei ballottaggi, adottato per le comunali, può richiamare quello dell’Italicum, il sistema col quale si dovrà votare per la Camera, ma c’è una differenza importante.

In sede nazionale, al duello finale va un partito, non una coalizione. Vista la tendenza storica, poi, le astensioni saranno sì in crescita, ma è difficile che, in elezioni politiche, raggiungano il picco straordinario a cui si è arrivati domenica scorsa. Infine, la variabile più importante. Quale sarà, al tempo del voto nazionale, la salute del governo in carica? E, soprattutto, quale sarà la salute della nostra economia e dei portafogli degli italiani?

I meteorologi del voto, perciò, rischiano di essere come quelli che, in pieno inverno, annunciano una estate caldissima. Se ci azzeccano, passano per profeti; se sbagliano, saranno assolti, perché «a lungo termine, non si può essere sicuri di nulla». Meglio, allora, invece di guardare al futuro, guardare in profondità e cercare di capire i mutamenti strutturali del sistema politico che le ultime votazioni hanno indicato.

Le elezioni di domenica hanno confermato la perdita anche dell’ultima eredità della prima Repubblica: il radicamento territoriale dell’unico superstite di quel periodo, il grande partito della storica sinistra italiana. Il Pd, figlio un po’ degenere, ma legittimo, del Pci, ha completato la sua metamorfosi ed è divenuto un partito d’opinione, con tutte le caratteristiche, nel bene e nel male, di tutti gli altri partiti dell’Italia d’oggi.

Il disconoscimento di quella eredità ha travolto tutti i miti di una lunga e anche gloriosa tradizione. A partire dall’universale rispetto, sempre confermato dai risultati elettorali, per la capacità di ben amministrare gli enti locali, per cui il voto delle comunali e delle regionali avvantaggiava regolarmente quel partito rispetto a quello politico nazionale.

Adesso, gli scandali nelle giunte di tutt’Italia, comprese quelle di sinistra simbolicamente rappresentate dal caso di Roma, «mafia capitale», hanno sepolto quell’«alterità morale», vera o presunta, di cui i dirigenti locali di quel partito si vantavano. Insomma, l’antica e forte presenza territoriale del più grande partito della sinistra o è in disfacimento o viene utilizzata da satrapi di tessere e di consensi che, in piena e incontrollata autonomia, usano il simbolo nazionale in «franchising», piegandolo nelle forme e nei contenuti più convenienti al loro personale successo.

L’erosione elettorale delle fortezze della sinistra nelle cosiddette «regioni rosse» del centro Italia, ormai traballanti in Emilia, in Umbria e, in parte, nella Toscana, come dimostra il caso di Arezzo, è certamente significativa di questo mutamento nella «natura» di quel partito. Ma ancor più indicativo di questa trasformazione è, al contrario, il recente successo del Pd nel Sud d’Italia. Territorio dove la sinistra, in generale, non poteva vantare grandi risultati e dove, ora, fa addirittura il «pieno» di giunte regionali, evidentemente nella stessa logica elettorale per cui il meridione votava prima Dc e poi Berlusconi: la speranza che l’adeguamento politico al potere nazionale aiutasse la generosità del governo per le esigenze di assistenza e di finanziamento locale.

Renzi, così, subisce l’andamento classico del consenso a un partito d’opinione ed è costretto a subire i condizionamenti tipici di un partito d’opinione. Innanzi tutto, la volatilità di un suffragio che dipende dagli umori dei cittadini più che da quelli dei militanti. Un voto che va riconquistato ogni volta e che non è più conservato in cassetto sicuro dal quale attingere nei momenti difficili. Poi, l’indisciplina cronica e irriducibile dei dirigenti del Pd, proprio perché, in un partito del genere, appunto, non può esistere una «linea» alla quale tutti debbano uniformarsi. Anche perché la «linea» del Pd renziano è, anch’essa, piuttosto volatile.

Un partito con caratteristiche simili, però, non accetta neanche di diventare «un partito personale», la forma che, nell’era berlusconiana, si pensava fosse il modello del futuro pure per le altre formazioni politiche. Renzi è riuscito a «rottamare» la vecchia dirigenza ex Pci ed ex sinistra Dc, ma ha «rottamato» pure la struttura che, sull’intero territorio italiano, riconosceva l’autorità del leader nazionale. Magari, per obbligo e non per convinzione. Ecco la necessità, per lui, non solo di convincere, giorno per giorno, gli italiani della bontà delle sue politiche, ma anche di assicurare che, con lui, il partito vince sempre Perché è stato lui a legittimare la leadership del Pd solo dal timbro del successo elettorale.

Tempi duri si annunciano per il premier e segretario del «nuovo» partito della sinistra italiana. Ma sarebbe davvero paradossale che un personaggio come Renzi, in questi giorni amari, cedesse alla tentazione della nostalgia.


La Stampa – 16 giugno 2015

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