21 giugno 2015

VERMEER E LA SCOPERTA DELLA CAMERA SCURA





Franco Giudice

Il microscopio e la camera oscura

L’idea, oggi così ovvia, che gli strumenti siano un aiuto dei sensi è una conquista relativamente recente nella storia dell’umanità. Risale a circa quattrocento anni fa, all’epoca della cosiddetta rivoluzione scientifica del XVII secolo, quando iniziò ad affermarsi un modo di “guardare” la natura del tutto nuovo.

Il canone percettivo, fondato sul primato degli organi di senso, si rivelò improvvisamente inadeguato, tanto da sconvolgere la rassicurante immagine che l’uomo aveva dell’universo e di se stesso. E a mostrare questa inadeguatezza furono appunto gli strumenti inventati in quel periodo, soprattutto il telescopio e il microscopio, che per la prima volta consentivano di trascendere i limiti imposti dalla natura ai sensi e alla conoscenza umana.

Tra resistenze e polemiche, a farsi strada fu l’idea che il mondo visibile non coincideva più con quello catturato dallo sguardo naturale, a occhio nudo, e che bisognava pertanto ripensare l’azione stessa del vedere. Una svolta cruciale insomma, che capovolgeva lo statuto dell’osservatore e inaugurava una stagione senza precedenti.

È di questa «rivoluzione dello sguardo» che Laura J. Snyder racconta nel suo libro, facendo immergere il lettore nell’Olanda del secolo d’oro, dove sembra che gli strumenti ottici abbiano esercitato un’attrazione irresistibile e contagiosa. Al punto che se gli scienziati, per scrutare la natura, non potevano più rinunciare al telescopio e al microscopio, anche gli artisti consideravano ormai indispensabile servirsi di lenti, specchi e camere oscure, sia per creare immagini straordinariamente dettagliate di fiori e insetti, sia per ottenere scene con effetti realistici di luce, ombra e colore.

Più che altrove, dunque, nella Repubblica olandese del XVII secolo il nuovo modo indagare la natura trasformò non solo la scienza, ma anche l’arte. E nessun luogo, secondo Laura Snyder, ne offre uno spaccato migliore di Delft. Due protagonisti assoluti di tale cambiamento furono infatti il più grande pittore e il più grande filosofo naturale di questa piccola città: Johannes Vermeer e Antoni van Leeuwenhoek.
Il loro rapporto costituisce da sempre un problema seducente, anzi uno splendido mistero. Poiché entrambi condividevano lo stesso interesse per gli effetti visivi delle lenti, si è ipotizzato che si conoscessero bene e si scambiassero informazioni sull’ottica o su altri argomenti analoghi. Tanto più poi che essi sembrano uniti da un’intricata ragnatela di fili: nacquero tutti e due nel 1632, addirittura nella stessa settimana; da adulti vissero e lavorarono nei pressi della Piazza grande del mercato di Delft; ebbero amici in comune; e quando nel 1675 Vermeer morì, Leeuwenhoek fu nominato suo esecutore testamentario. Purtroppo, però, non esiste alcuna testimonianza che dimostri una loro effettiva frequentazione.

Alcuni storici dell’arte hanno suggerito che lo studioso raffigurato in due famosi dipinti di Vermeer – L’astronomo (1668) e Il geografo (1668-69 ca.) – sia Leeuwenhoek, e che possa essere stato proprio lui a commissionarli al pittore. Anche in questo caso, però, non c’è alcuna prova documentaria. E non aiuta di certo il confronto con i ritratti noti di Leeuwenhoek che, essendo di epoca successiva, risultano poco rassomiglianti con quelli eseguiti da Vermeer.

L’impossibilità di stabilire se Vermeer e Leeuwenhoek si conoscessero è un fatto ammesso dalla stessa Laura Snyder, che lo considera perfino secondario, convinta com’è che «il vero fascino della storia delle loro vite e delle loro opere consista nel ruolo centrale che entrambi ebbero nell’affermazione dell’idea moderna di visione». È in questa idea che, a suo avviso, va ricercato l’autentico legame tra i due geni di Delft.

Mercante di tessuti e piccolo funzionario pubblico, Leeuwenhoek iniziò a far uso di lenti per motivi professionali: per esaminare le trame delle stoffe. Non aveva ricevuto alcuna istruzione universitaria, non conosceva il latino, e non aveva particolari cognizioni di storia naturale o di filosofia. Fu in tutto e per tutto un autodidatta, che nel tempo libero imparò a molare, lucidare e montare lenti con notevoli capacità di ingrandimento.
Quasi un passatempo, che finì però per trasformarsi in un secondo lavoro e in un’insaziabile curiosità per ogni aspetto della natura. Così, questo semplice uomo di commercio, nell’estate del 1674, poteva annunciare alla Royal Society qualcosa che aveva dell’incredibile: analizzando al microscopio l’acqua di un laghetto vicino a Delft, era riuscito a vedere una miriade di piccolissimi organismi viventi, ossia i protozoi. Era la prima di una serie di straordinarie scoperte, tra cui quella dei batteri e degli spermatozoi.

Anche se altri avevano già ottenuto importanti risultati con il microscopio, Leeuwenhoek finì per superarli tutti. Le sue osservazioni rivelavano una dimensione della vita sconosciuta e non percepibile ai sensi, un nuovo mondo di cui nessuno prima aveva immaginato l’esistenza: il mondo microscopico. E con la pubblicazione delle sue ricerche sulle «Philosophical Transactions», la rivista ufficiale della Royal Society, Leeuwenhoek divenne uno scienziato di fama internazionale. Studiosi, dignitari di corte e perfino sovrani, come Pietro il Grande di Russia, si recavano a Delft per assistere allo stupefacente spettacolo di minuscole creature viventi che Leewenhoek preparava per loro.

Vermeer, invece, un successo del genere non lo assaporò nemmeno. L’artista che ha creato alcune delle opere più ammirate e celebrate di tutti i tempi – dalla Veduta di Delft alla Fanciulla con perla all’orecchio, dalla Merlettaia all’Allegoria della pittura – rischiò quasi di essere cancellato dagli annali della storia dell’arte. Certo, durante la maggior parte della sua carriera si conquistò una buona fama a Delft ed era conosciuto anche al di fuori della sua città. Ma dipingeva con estrema lentezza, la sua produzione fu piuttosto esigua, e non diventò mai una figura di spicco nel mercato dell’arte.

Quando nel 1672, in seguito alla guerra con la Francia, l’Olanda precipitò in una drammatica crisi economica, Vermeer ne fu letteralmente inghiottito. Alla sua morte, lasciò la moglie, dieci figli minorenni e un’ingente quantità di debiti. I suoi dipinti andarono dispersi e in molti casi attribuiti a pittori più noti di lui. La rivalutazione critica della sua opera iniziò soltanto a Settecento inoltrato.

Laura Snyder ripercorre ogni tappa di questa tragica vicenda, ma la sua attenzione si rivolge soprattutto a una delle questioni più complesse e dibattute tra gli studiosi: il ruolo della camera oscura nella pittura di Vermeer.
Questo dispositivo, che nel XVII secolo era diventato ormai di ampio uso, si basa su un principio alquanto semplice: la luce che passa attraverso un piccolo foro ed entra in una stanza immersa nel buio proietta sulla parete opposta un’immagine capovolta di qualsiasi oggetto o scena si trovi all’esterno. L’immagine viene poi messa a fuoco con una lente convessa collocata in prossimità del foro e può, con l’aiuto di uno specchio, essere raddrizzata. Poiché però la camera oscura non lascia tracce visibili nei dipinti, è sempre difficile stabilirne l’impiego da parte di un artista.
Nel caso di Vermeer, dopo l’importante studio di Philip Steadman (Vermeer’s Camera, Oxford University Press, 2001), che ha dimostrato come, nella composizione di almeno dieci quadri, il pittore si sia avvalso di una camera oscura, la discussione poggia ora su un terreno più solido. Laura Snyder è molto critica – e un po’ ingenerosa – nei confronti di questo libro.
Ma anche lei, pur sottolineando che «Vermeer non era schiavo dell’ottica della camera oscura», è certa che l’artista di Delft ne facesse uso e riuscisse così, come ripete più volte, a vedere «cose nuove», cose non visibili a occhio nudo. Sfugge tuttavia quali siano queste “cose” che soltanto la camera oscura rende visibili.

Ovviamente, la camera oscura, l’abbiamo detto, mostra in scala oggetti e fenomeni che ci circondano, ma non come quelli veramente invisibili, in quanto troppo lontani o troppo piccoli, rivelati dal telescopio e dal microscopio. Le suggestive descrizioni che fa Laura Snyder di alcuni effetti di colore, luce e ombra presenti nei dipinti di Vermeer, non bastano quindi a spiegare quale fosse, in concreto, il supplemento visivo che la camera oscura offriva all’artista.
Il ricorso a questo dispositivo scaturiva infatti dalla sua capacità di trasformare scene tridimensionali in immagini bidimensionali, che potevano essere studiate in dettaglio e perfino ricalcate. Ma ciò che Vermeer apprezzava di più era che la camera oscura produceva immagini con un sensibile aumento del tono e del colore, permettendo di vedere, o di vedere meglio rispetto alla scena originale, le sfumature di luce e ombra.

Il libro di Laura Snyder è scritto con un’efficacia narrativa che non ha nulla da invidiare a un romanzo come quello che Tracy Chevalier ha dedicato a Vermeer (La ragazza con l’orecchino di perla, Neri Pozza). Questo pregio, che ne rende piacevole la lettura, non sempre però si concilia con il rigore storico che ci aspetterebbe da una studiosa.
A stupire quindi non sono tanto certe sue interpretazioni, su cui si può essere d’accordo o meno, quanto alcuni scivoloni. Anche perché, soprattutto in epoca di Wikipedia, erano facilmente evitabili, come la sede dell’Accademia dei Lincei, che l’autrice colloca a Firenze e non a Roma, o come la traduzione dell’«occhialino» di Galileo con un improbabile little eye, anziché con il più appropriato small eyeglass.
Il Sole 24 ore – 14 giugno 2015

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