Franco Giudice
Il microscopio e la camera oscura
L’idea, oggi così ovvia, che gli strumenti siano un aiuto dei sensi è una conquista relativamente recente nella storia dell’umanità. Risale a circa quattrocento anni fa, all’epoca della cosiddetta rivoluzione scientifica del XVII secolo, quando iniziò ad affermarsi un modo di “guardare” la natura del tutto nuovo.
Il canone percettivo, fondato sul primato degli organi di senso, si rivelò improvvisamente inadeguato, tanto da sconvolgere la rassicurante immagine che l’uomo aveva dell’universo e di se stesso. E a mostrare questa inadeguatezza furono appunto gli strumenti inventati in quel periodo, soprattutto il telescopio e il microscopio, che per la prima volta consentivano di trascendere i limiti imposti dalla natura ai sensi e alla conoscenza umana.
Tra resistenze e polemiche, a farsi strada fu l’idea che il mondo visibile non coincideva più con quello catturato dallo sguardo naturale, a occhio nudo, e che bisognava pertanto ripensare l’azione stessa del vedere. Una svolta cruciale insomma, che capovolgeva lo statuto dell’osservatore e inaugurava una stagione senza precedenti.
È di questa «rivoluzione dello sguardo» che Laura J. Snyder racconta nel suo libro, facendo immergere il lettore nell’Olanda del secolo d’oro, dove sembra che gli strumenti ottici abbiano esercitato un’attrazione irresistibile e contagiosa. Al punto che se gli scienziati, per scrutare la natura, non potevano più rinunciare al telescopio e al microscopio, anche gli artisti consideravano ormai indispensabile servirsi di lenti, specchi e camere oscure, sia per creare immagini straordinariamente dettagliate di fiori e insetti, sia per ottenere scene con effetti realistici di luce, ombra e colore.
Più che altrove, dunque, nella Repubblica olandese del XVII secolo il nuovo modo indagare la natura trasformò non solo la scienza, ma anche l’arte. E nessun luogo, secondo Laura Snyder, ne offre uno spaccato migliore di Delft. Due protagonisti assoluti di tale cambiamento furono infatti il più grande pittore e il più grande filosofo naturale di questa piccola città: Johannes Vermeer e Antoni van Leeuwenhoek.
Il loro rapporto
costituisce da sempre un problema seducente, anzi uno splendido
mistero. Poiché entrambi condividevano lo stesso interesse per gli
effetti visivi delle lenti, si è ipotizzato che si conoscessero bene
e si scambiassero informazioni sull’ottica o su altri argomenti
analoghi. Tanto più poi che essi sembrano uniti da un’intricata
ragnatela di fili: nacquero tutti e due nel 1632, addirittura nella
stessa settimana; da adulti vissero e lavorarono nei pressi della
Piazza grande del mercato di Delft; ebbero amici in comune; e quando
nel 1675 Vermeer morì, Leeuwenhoek fu nominato suo esecutore
testamentario. Purtroppo, però, non esiste alcuna testimonianza che
dimostri una loro effettiva frequentazione.
Alcuni storici dell’arte hanno suggerito che lo studioso raffigurato in due famosi dipinti di Vermeer – L’astronomo (1668) e Il geografo (1668-69 ca.) – sia Leeuwenhoek, e che possa essere stato proprio lui a commissionarli al pittore. Anche in questo caso, però, non c’è alcuna prova documentaria. E non aiuta di certo il confronto con i ritratti noti di Leeuwenhoek che, essendo di epoca successiva, risultano poco rassomiglianti con quelli eseguiti da Vermeer.
L’impossibilità di
stabilire se Vermeer e Leeuwenhoek si conoscessero è un fatto
ammesso dalla stessa Laura Snyder, che lo considera perfino
secondario, convinta com’è che «il vero fascino della storia
delle loro vite e delle loro opere consista nel ruolo centrale che
entrambi ebbero nell’affermazione dell’idea moderna di visione».
È in questa idea che, a suo avviso, va ricercato l’autentico
legame tra i due geni di Delft.
Mercante di tessuti e piccolo funzionario pubblico, Leeuwenhoek iniziò a far uso di lenti per motivi professionali: per esaminare le trame delle stoffe. Non aveva ricevuto alcuna istruzione universitaria, non conosceva il latino, e non aveva particolari cognizioni di storia naturale o di filosofia. Fu in tutto e per tutto un autodidatta, che nel tempo libero imparò a molare, lucidare e montare lenti con notevoli capacità di ingrandimento.
Quasi un passatempo, che
finì però per trasformarsi in un secondo lavoro e in un’insaziabile
curiosità per ogni aspetto della natura. Così, questo semplice uomo
di commercio, nell’estate del 1674, poteva annunciare alla Royal
Society qualcosa che aveva dell’incredibile: analizzando al
microscopio l’acqua di un laghetto vicino a Delft, era riuscito a
vedere una miriade di piccolissimi organismi viventi, ossia i
protozoi. Era la prima di una serie di straordinarie scoperte, tra
cui quella dei batteri e degli spermatozoi.
Anche se altri avevano già ottenuto importanti risultati con il microscopio, Leeuwenhoek finì per superarli tutti. Le sue osservazioni rivelavano una dimensione della vita sconosciuta e non percepibile ai sensi, un nuovo mondo di cui nessuno prima aveva immaginato l’esistenza: il mondo microscopico. E con la pubblicazione delle sue ricerche sulle «Philosophical Transactions», la rivista ufficiale della Royal Society, Leeuwenhoek divenne uno scienziato di fama internazionale. Studiosi, dignitari di corte e perfino sovrani, come Pietro il Grande di Russia, si recavano a Delft per assistere allo stupefacente spettacolo di minuscole creature viventi che Leewenhoek preparava per loro.
Vermeer, invece, un successo del genere non lo assaporò nemmeno. L’artista che ha creato alcune delle opere più ammirate e celebrate di tutti i tempi – dalla Veduta di Delft alla Fanciulla con perla all’orecchio, dalla Merlettaia all’Allegoria della pittura – rischiò quasi di essere cancellato dagli annali della storia dell’arte. Certo, durante la maggior parte della sua carriera si conquistò una buona fama a Delft ed era conosciuto anche al di fuori della sua città. Ma dipingeva con estrema lentezza, la sua produzione fu piuttosto esigua, e non diventò mai una figura di spicco nel mercato dell’arte.
Quando nel 1672, in
seguito alla guerra con la Francia, l’Olanda precipitò in una
drammatica crisi economica, Vermeer ne fu letteralmente inghiottito.
Alla sua morte, lasciò la moglie, dieci figli minorenni e un’ingente
quantità di debiti. I suoi dipinti andarono dispersi e in molti casi
attribuiti a pittori più noti di lui. La rivalutazione critica della
sua opera iniziò soltanto a Settecento inoltrato.
Laura Snyder ripercorre ogni tappa di questa tragica vicenda, ma la sua attenzione si rivolge soprattutto a una delle questioni più complesse e dibattute tra gli studiosi: il ruolo della camera oscura nella pittura di Vermeer.
Questo dispositivo, che
nel XVII secolo era diventato ormai di ampio uso, si basa su un
principio alquanto semplice: la luce che passa attraverso un piccolo
foro ed entra in una stanza immersa nel buio proietta sulla parete
opposta un’immagine capovolta di qualsiasi oggetto o scena si trovi
all’esterno. L’immagine viene poi messa a fuoco con una lente
convessa collocata in prossimità del foro e può, con l’aiuto di
uno specchio, essere raddrizzata. Poiché però la camera oscura non
lascia tracce visibili nei dipinti, è sempre difficile stabilirne
l’impiego da parte di un artista.
Nel caso di Vermeer,
dopo l’importante studio di Philip Steadman (Vermeer’s Camera,
Oxford University Press, 2001), che ha dimostrato come, nella
composizione di almeno dieci quadri, il pittore si sia avvalso di una
camera oscura, la discussione poggia ora su un terreno più solido.
Laura Snyder è molto critica – e un po’ ingenerosa – nei
confronti di questo libro.
Ma anche lei, pur
sottolineando che «Vermeer non era schiavo dell’ottica della
camera oscura», è certa che l’artista di Delft ne facesse uso e
riuscisse così, come ripete più volte, a vedere «cose nuove»,
cose non visibili a occhio nudo. Sfugge tuttavia quali siano queste
“cose” che soltanto la camera oscura rende visibili.
Ovviamente, la camera oscura, l’abbiamo detto, mostra in scala oggetti e fenomeni che ci circondano, ma non come quelli veramente invisibili, in quanto troppo lontani o troppo piccoli, rivelati dal telescopio e dal microscopio. Le suggestive descrizioni che fa Laura Snyder di alcuni effetti di colore, luce e ombra presenti nei dipinti di Vermeer, non bastano quindi a spiegare quale fosse, in concreto, il supplemento visivo che la camera oscura offriva all’artista.
Il ricorso a questo
dispositivo scaturiva infatti dalla sua capacità di trasformare
scene tridimensionali in immagini bidimensionali, che potevano essere
studiate in dettaglio e perfino ricalcate. Ma ciò che Vermeer
apprezzava di più era che la camera oscura produceva immagini con un
sensibile aumento del tono e del colore, permettendo di vedere, o di
vedere meglio rispetto alla scena originale, le sfumature di luce e
ombra.
Il libro di Laura Snyder è scritto con un’efficacia narrativa che non ha nulla da invidiare a un romanzo come quello che Tracy Chevalier ha dedicato a Vermeer (La ragazza con l’orecchino di perla, Neri Pozza). Questo pregio, che ne rende piacevole la lettura, non sempre però si concilia con il rigore storico che ci aspetterebbe da una studiosa.
A stupire quindi non sono
tanto certe sue interpretazioni, su cui si può essere d’accordo o
meno, quanto alcuni scivoloni. Anche perché, soprattutto in epoca di
Wikipedia, erano facilmente evitabili, come la sede dell’Accademia
dei Lincei, che l’autrice colloca a Firenze e non a Roma, o come la
traduzione dell’«occhialino» di Galileo con un improbabile little
eye, anziché con il più appropriato small eyeglass.
Il Sole 24 ore – 14
giugno 2015
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