24 giugno 2015

IN MEMORIA DI LAURA ANTONELLI




Propongo di seguito due diversi profili della compianta Laura Antonelli.


Laura Antonelli, in memoriam

di

“Sto male, ma non riesco a reagire.”
Intervista al settimanale Chi, (21 novembre 2001)

Una persona semplice, timida. Una bellezza sconvolgente proprio perché quasi inconsapevole di sé: incolpevole. Uno straordinario catalizzatore per l’immaginario italiano anni Settanta e Ottanta: generazioni di maschi nazionali avvolti da questo fascino, senza sapere perché. Il senso autentico del “mistero” è la capacità di avvincere oltre le spiegazioni, anche al di qua di tutte le spiegazioni: questa femminilità raffinata era talmente sfuggente proprio perché è stata sempre molto più che ‘bbona’. Senza intellettualismi, senza sofisticherie, senza artificialità. La fronte alta, aliena, quattrocentesca. Italiana senza patria (era nata nel 1941 a Pola, all’epoca nel regno d’Italia, poi consegnata alla Jugoslavia: con Femi Benussi, Alida Valli e Sylva Koscina componeva il cosiddetto gruppo delle “bellissime quattro dalmato-istriane”: e sì, il nostro giornalismo è stato sempre maestro di definizioni semplificatorie, come tutti i giornalismi). Il mistero, il mistero italiano è tale proprio perché sfuggente, ineffabile, evanescente come una fantasma: la bellezza di Laura Antonelli è stata un fantasma, e come un fantasma è tornato a infestare la sua padrona. Un’attrice che non voleva essere attrice, a cui il cinema non interessava più di tanto e che rifiutò addirittura le offerte dei produttori americani con un indolente e rassegnato “non me piase, non me interesa”. Secondo il critico Tatti Sanguineti, in e di questa sua pigrizia l’attrice era anche vittima: in che senso? Nel senso – anche questo molto italiano – di un’accettazione che contiene un presagio, un annuncio, una prefigurazione. I guai giudiziari, i lineamenti deturpati, la sofferenza economica: il mito di un’età dell’oro, coincisa peraltro con gli anni di piombo dello stesso luogo fisico e psichico che l’aveva espressa, costretto a fare i conti con un altro tempo, con un altro mondo. Con l’esclusione e l’emarginazione.
E quella scena, atroce e magnifica: Laura Antonelli negli anni Novanta che, sfigurata, vaga per le strade di Cerveteri “con un grosso crocifisso tra le mani, vestita da santona” (V. Cappelli, Laura Antonelli, la bambola rotta che odiava essere un sex symbol, “Corriere della Sera”, 22 giugno 2015).
Laura Antonelli che, ricoverata nel 1996 al reparto psichiatrico dell’Ospedale di Civitavecchia, urla: “Non cercatemi, dimenticatevi di me, non esiste più Laura Antonelli!”
Non esiste più Laura Antonelli.
Tutti che parlano di questa straordinaria fragilità, e di questa sensualità forte come un tornado: ma il tornado è tale proprio perché fragile. Perché continuamente sul punto di spezzarsi, di infrangersi. La solitudine tremenda e dignitosissima di questa donna imperscrutabile, la grandezza del rifiuto ostinato opposto alla (finta) offerta di un minimo vitalizio: “Non voglio niente, voglio solo essere dimenticata”. Laura Antonelli non solo ci parla di un’era che non esiste più (Malizia, Sessomatto, L’innocente): ci dice anche di un’Italia sommersa, amara, antica; un’Italia con l’ossessione perenne della povertà (i genitori esuli, profughi…), con la sensazione costante di essere fuori posto in una realtà congelata ed estranea, e che sa benissimo di non poter lenire neanche con il successo e la fama il dolore di vivere: “Forse non ero tagliata per fare l’attrice. Non ero preparata ad affrontare quella carriera, il successo, la popolarità, quell’ambiente, con le illusioni e le delusioni. Sono sempre stata una persona semplice, timida, attaccata ai valori della famiglia. Oggi, per me, esiste Gesù” (E. Serra,  Laura Antonelli: cerco la pace, per me ora c’è solo Gesù, “Corriere della Sera”, 21 novembre 2001).

 Questo pezzo è uscito su Artribune .Ripreso da http://www.minimaetmoralia.it/

*****

Laura Antonelli: sassate sul moralismo.

Laura-Antonelli

«Per concludere: se qualcuno avesse da fare, qui a Milano, una rivoluzione, io ho un idea da proporgli… Mi occorrono mille uomini spregiudicati, decisi, ben addestrati… Mille uomini disposti a scendere dal tram in corsa, a passare col rosso, a cantare nei giorni feriali, a far capannello nelle vie del centro.. Disposti ad attraversare via Manzoni in canottiera, a entrare in ditta con mezzora di ritardo, a uscire dopo l’orario… Mille uomini, dico, disposti a far all’amore la notte del lunedì, verso l’alba… Datemi questi mille spericolati, e vi prometto che in mezza giornata la città sarà nostra: bloccata, congelata, esterrefatta, intasata, allibita, come se dagli spazi celesti fossero calati i marziani».
È un articolo di Luciano Bianciardi, del 1956, per «l’Unità». E si intitola Rivoluzione a Milano.
Bianciardi, anarchico spericolato, straordinario intellettuale e scrittore, non aveva ancora pubblicato La vita agra, che è del 1962, in cui si scagliava contro l’oppressione sociale di una vita regolata dalla dedizione e dall’ossessione del lavoro. Ma tutte le sue idee stanno già in quest’articolo. Anche quelle sul sesso, come via della liberazione – ne scriverà anche nella Vita agra.
«Mille uomini, dico, disposti a far all’amore la notte del lunedì, verso l’alba…». Nell’articolo, per tornare sulla questione, citava – una delle sue paradossali invenzioni del momento, dette come fossero cose provate: «So di una giovane signora che al marito troppo espansivo un mercoledì sera, ebbe a dire: Ehilà, giovanotto, impazzisci? Siamo appena a mercoledì e domattina ho la nota di cassa!»
Se si è schiavi del lavoro si uccide la vitalità, e la sessualità che la rappresenta, in nome della produttività economica.
Lo stretto rapporto tra sessualità e rivolta venne sviluppato anche in Aprire il fuoco, che è il suo ultimo romanzo, in cui rivisita l’insurrezione antiaustriaca delle Cinque giornate di Milano, situandola però nel marzo 1959, e mescolando realtà e finzione, passato e presente. Per dire: «Pare che vi fossero pubblici accoppiamenti nei giardini e nei parchi, verso mezzogiorno, ma questo non è del tutto sicuro, può anche essere che il Bianciardi abbia raccontato qualche balla». Per dire: «Secondo le statistiche del comune di Milano, approssimative per difetto, i casi di gravidanza salirono in quei giorni del settantadue per cento».
Perché vi parlo di Luciano Bianciardi? Perché Il merlo maschio, film di Pasquale Festa Campanile, in cui Laura Antonelli appare per la prima volta nella sua sfolgorante bellezza, è tratto da un suo racconto, Il complesso di Loth. Siamo a Verona, e c’è un violoncellista, Niccolò Vivaldi, che si sente frustrato. Inizia a fotografare la moglie in pose sempre più audaci. Ne prova piacere. Mostra le foto della moglie ai colleghi. Lei ne è partecipe. Finché, in un’esibizione all’Arena, lei non appare sul palco, nuda, a suonare il violoncello. Vennero giù i cinema. La Antonelli era meravigliosa. Bianciardi volle fare una piccola particina nel film, e Lando Buzzanca – che era il protagonista maschile – lo ricorda sempre ubriaco e ossessionato dalle giovani fanciulle. Fedele alla linea.
È vedendo Il merlo maschio che Samperi decide di affidare all’Antonelli – e alle sue generose forme – la parte della serva di casa in Malizia. Erano due anni che andava in giro con il copione pronto, ma non c’erano produttori convinti. Poi, uno decide di accettare ma vuole la Melato. Samperi non molla: Angela La Barbera – la serva che arriva il giorno del funerale della signora, e fa perdere la testa a tutti i maschi di casa, il padre e i due figli, e diventa, lei, “la signora” – è l’Antonelli. Samperi veniva da una buona e ricca famiglia, ma aveva incontrato il ’68 e il movimento studentesco. Molla tutto e fa il regista. E il suo primo film è Grazie zia, con Lou Castel e Lisa Gastoni. Uno scandalo. Il film è del ’68 e va a Cannes. Ma scoppia il maggio francese e il festival viene annullato. Magari avrebbe vinto la Palma d’oro, chissà.
La famiglia, le sue ipocrisie, le sue viltà, i suoi rancori, i suoi tabù, sono al centro dei racconti di Samperi. Lo aveva già fatto con Grazie zia, lo ripete con Malizia. Sono al centro della vita di quegli anni. Sesso, famiglia, rivolta. È un’Italia ipocrita e piccola quella di quegli anni. Gli anni del boom e del miracolo economico, anni di lavatrici e di frigoriferi, di migrazioni e di vita agra, sono immediatamente alle spalle. Siamo diventati ricchi, col duro lavoro, con le miniere e non si affitta ai meridionali. Ma la testa è meschina. Forse è tempo di riposare. Forse è tempo di svariare. Forse è tempo di riprendersi la vita.
E per magia tutte queste cose si incarnano in un volto e in un corpo: Laura Antonelli. È l’oggetto del desiderio degli italiani. Malizia si svolge nella Catania degli anni Cinquanta – la Milano del sud – ma potrebbe essere un posto qualunque della provincia italiana, un posto qualunque d’Italia. Non solo i siciliani sono affamati di sesso. Non solo i siciliani sono affamati di trasgressione. Non solo i siciliani sono affamati di rivolta – è da Avola che partì tutto.
«È una prospera cittadina, a pochi chilometri da Siracusa, al centro di una ricchissima zona di orti e di agrumeti. Fino a ieri era noto come il “posto delle mandorle”, le buone, dolcissime, tenere mandorle di Avola. Da oggi non si potrà più nominare senza venir colti da un senso di sgomento e di profonda amarezza». Inizia così Volevano solo trecento lire in più, il pezzo di Mauro De Mauro – il giornalista che scomparirà a Palermo nel 1970 inaugurando la stagione dei misteri mai risolti – sui “fatti di Avola”. C’era stato uno sciopero dei braccianti contro le gabbie salariali. Solo che non protestavano contro il fatto che ci fosse una differenza di salario tra Milano e Siracusa, ma contro il fatto che a Avola venissero pagati meno che a Lentini. C’era una Zona A e una Zona B. Avola era Zona B. E allora, sciopero. I grandi latifondisti non ne vogliono sapere di incontrare i rappresentanti dei braccianti. Lo sciopero continua. Si fanno i blocchi stradali. I latifondisti chiamano la polizia. La polizia arriva da Catania con le camionette. Hanno i candelotti fumogeni, hanno i mitra. Lunedì 2 dicembre, tutta Avola è bloccata. La strada statale è bloccata. Ci sono le motociclette e le biciclette dei braccianti. C’è un mucchio di pietre. I braccianti lanciano pietre contro la Celere. I poliziotti sparano i candelotti. Solo che il vento è contrario. E i fumogeni vanno verso la polizia. Non vedono nulla. Le pietre arrivano dal cielo. I poliziotti sparano. Due morti, quasi cinquanta feriti. Due chili di bossoli – qualcuno li raccolse e li pesò. È così che comincia il 1968. In Sicilia.
In Sicilia, a Acireale, Samperi gira il suo Malizia. Chissà se lo ha fatto perché era a uno sputo da Avola. La Antonelli – un’istriana, nata a Pola, di cognome era Antonaz – recita in siciliano. Chi ci faceva caso?
La sua parabola di vita – il desiderio collettivo, l’immaginazione accesa, l’erotismo come forma di democrazia popolare, e poi il lento declino, i disastri, i guai, il ritiro, il silenzio – sembra un po’ la parabola di quegli anni e dell’Italia tutta.
Era bella l’Italia tra la fine degli Sessanta e l’inizio dei Settanta. Era bella e desiderabile. Mai volgare. Bella e desiderabile come non lo è stata mai più. Mai volgare come è diventata poi.

Nicotera, 22 giugno 2015


Nessun commento:

Posta un commento