Ecco il grande racconto di Federico De Roberto che ha ispirato il bellissimo film di Olmi "Torneranno i prati".
Federico De Roberto
La paura
Contento di aver
prevenuto il senso di tristezza espresso da quel canto, Alfani si
affacciò alla feritoia che gli serviva da osservatorio, appuntando
il cannocchiale sulla linea nemica. Già troppo bene dissimulata,
essa non si poteva discernere contro la luce saliente dietro il
Montemolon. «Be’, ragazzi» disse ai suoi uomini «se hanno voglia
di rompersi le corna, li serviremo a dovere, i camerati!»
Stette ancora in ascolto,
ma non udì altro che il silenzio della montagna. «Chi è di vedetta
al posto del canalone?». «Vicenzino» rispose il capoposto,
storpiando il nome di Visentini come soleva storpiare tutti gli
altri. «Ma mo’ chesta è l’ora d’ ’o cambio.» «Fa’ venir
qui un momento chi va sulla piazzola.» «Nummero dodece: ohé
Galletta!» Mentre i cinque uomini del secondo turno, dal numero 7
all’11, sostituivano i compagni del primo ai posti interni,
Caletti, che aveva sentito approssimarsi anch’egli la sua volta,
riempiva di bombe a mano il tascapane, nella riservetta.
«Presente!» rispose,
udendosi chiamare e accorrendo. Era un ragazzo ancora imberbe, con un
viso bianco e roseo che pareva una mela, con occhi chiari, pieni di
stupore. Pochissimo amante dei lavori manuali, tutte le volte che
bisognava adoperare la piccozza e il badile rispondeva
invariabilmente: “Songo malato!” ma Alfani, che conosceva uno per
uno tutti i suoi uomini, sapeva di poter fare assegnamento sulla
prontezza e il coraggio dell’infingardo quando era il momento di
affrontare i nemici.
«Caletti, stammi bene
attento, perché quei brutti ceffi si sono destati di malumore,
stamattina.» «Non dubita, sor tenente.» «Apri bene gli occhi, e a
posto!» Di momento in momento il chiarore del giorno cresceva: il
cielo dell’alba luceva come uno specchio freddo e terso; solo un
fiocco di nuvolaglia, lungo e sottile, strisciava a guisa d’un
serpe sul muraglione del Montemolon e s’insinuava fra le due Grise.
«El promett on’altra gran bella giornada» osservò il sergente.
«Non tanto. Quella bambagia lì non è buon segno.»
Riportando lo sguardo sul
terreno fronteggiante la trincea, Alfani vide il soldato uscire dal
camminamento col fucile a bilanciarm e procedere fra le asperità del
passo scoperto, curvandosi appena, con la sicurezza che gli veniva
dalla lunga pratica e dalla tranquillità dei nemici. «No! No!»
voleva gridargli, poiché i nemici s’eran destati. «Più basso!…
Copriti!»
E parve veramente che
Caletti avesse udito le parole pensate dal suo tenente; perché,
dinanzi all’ultimo tratto, il più pericoloso, si fermò un
momento; poi si buttò in ginocchio, s’allungò e strisciò su per
la breve erta, verso la piazzola. Giuntovi vicino, levò un poco il
capo, forse nell’udirsi chiamare dal compagno che veniva a
rilevare; ma allora, improvvisamente, al sinistro ta-pum d’una
fucilata, il corpo s’accasciò.
«Porci Croati!»
L’ufficiale non aveva ancora finito di esprimere il suo rancore,
che un altro colpo rintronò: ta-pum! «E due!» disse una voce.
«Visentini!» esclamò il sergente. «Come, Visentini?… Che ti
salta?» «L’ha minga vist? El Visentini el s’è movu’, l’ha
miss foeura el coo!… G’han tiraa anca a lu!» Alfani strinse il
pugno ed affissò lo sguardo torvo sulla linea nemica, come cercando
il punto dove poter ritorcere i colpi. «Capoposto!» chiamò
rivoltandosi. «Manda chi viene dopo.» «Siconna squadra; nummero
uno d’ ’o primmo turno!» Ma poiché nessuno rispondeva, e alcuni
esprimevano il loro stupore apprendendo che il servizio della prima
squadra era così presto finito, il caporale chiamò per nome: 4
«Marmotta!… Ahò, Marmotta!… Addo’ sta, sto Marmotta?»
Maramotti dormiva, con
l’elmo in capo, i ginocchi sul ventre, in fondo al ricovero.
Dormiva d’un sonno greve, dal quale fu tratto a fatica. «Jammo,
ja’, Marmo’, tocca a te de vedetta.» Maldesto, il soldato si
stropicciò gli occhi, bestemmiando: «Corpo!… Sangue!… Mi son de
vedetta ai cinqu’ôr!… Mi son dopo del Caletti!». Con la punta
del dito il caporale segnò in aria una croce. «Galletta sta
’mparaviso» «Cossa?» «E Vicenzino isso puro!… Emb’, jammo,
guaglio’… Fa’ vede’ ’a giberna… ’o fucile… E vatt’a
piglià l’ova toste!»
Non capiva ancora,
Maramotti. Aveva il fucile carico e la giberna piena, come bisognava;
ed ora provvedeva anche di bombe a mano, secondo la prescrizione
rammentatagli dal caporale; ma non capiva perché mai toccasse a lui,
come mai Visentini e Caletti fossero morti.
«Avanti, avanti
Maramotti!» lo spronò l’ufficiale, vedendolo procedere un poco
traballante, come avvinazzato. «Tu sei un ragazzo di giudizio,
Maramotti?» Dinanzi al superiore il soldato si riscosse e sgranò
gli occhi. Sulla faccia bruna, magra, cotta dall’aria e dal sole,
il bianco dei grandi occhi dalle pupille di giaietto pareva latteo.
«Come crede, signor tenente.» «Guarda di non farti beccare anche
te. Quante volte ve l’ho detto? Non bisogna esporsi, non bisogna
esporsi, non bisogna esporsi! L’ho da porre in musica?» «Sissior…»
«Oggi i sassi hanno messo gli occhi, da quella parte! Stammi bene
attento, che ne va della pelle, ne va!»
Buttatosi il fucile a
spallarm con la canna in giù, il soldato si diede uno scossone come
per assestarsi la roba addosso, trasse il sottogola dal fondo
dell’elmetto dove stava calcato e se lo passò sotto il mento: poi
s’avviò. Giunto dinanzi all’ultimo tratto, il più pericoloso,
sostò più a lungo; poi riprese a spingersi su; poi si fermò ancora
e mosse appena il capo a destra e a manca, senza sollevarlo, perché
aveva dovuto smarrire il senso della direzione; poi si protese
ancora, di traverso; guadagnò ancora un palmo di terreno, e poi un
altro, fino a raggiungere i piedi del compagno immobile. Doveva
averlo chiamato ed essere rimasto senza risposta, perché
istintivamente si sollevò un poco a vedere che cosa avesse, ed ecco:
ta-pum! si abbatté inerte accanto al corpo inerte.
«E tre!» «E quattro, e
cinque, e sei!» gridò Alfani, torcendo improvvisamente lo sguardo
dai caduti e volgendolo intorno a sé. «Chi è quel bravo che sa
così bene l’aritmetica?»
Nessuno fiatò. Il
tenente era molto amato, ma anche molto temuto. Quando assumeva
questo tono non si scherzava. Ma non soltanto la severità del loro
comandante faceva muti i soldati. Un senso d’inquietudine si
diffondeva tra loro alla vista dei compagni colpiti, al pensiero che
chi doveva andare sulla piazzola correva lo stesso pericolo. «O
credete che si possa tralasciar la consegna perché i vostri compagni
ci sono rimasti?… Se bersagliano la vedetta è segno che non
vogliono esser visti, che preparano qualche colpo, che ammassano
gente nel canalone, per piombarci addosso senza mandarcelo a dire, e
massacrarci tutti quanti!»
A grado a grado
l’acredine della voce si veniva temperando, mentre lo sguardo
frugava le posizioni avversarie e la mano stringeva forte il calcio
della pistola. «Ecco perché avranno appostato qualche tiratore
scelto, con un fucile di precisione, montato probabilmente su
cavalletto!… Sperano che non ci manderemo più nessuno, per poter
quindi accomodarsi!… Chi si contenta di lasciarli fare?»
Molti risposero insieme:
«Ma coma!» «Ma nissun!» «Abbisogna annà!» «Chi l’è che dis
de no?» Quando il coro dei consensi tacque, una voce osservò,
posatamente: «Ci va chi l’è di turno.» «Naturalmente! Bella
scoperta!… Caporale, chi è di tu…»
Ma prima che l’ufficiale
compisse la domanda, Gusmaroli, un altro dei lombardi che abbondavano
nel plotone, un ragazzone atticciato e nerboruto, si fece avanti.
«Scior tenent, vo mi!» «Tocca a te?» «Nossignor: tocca al
Zocchi; ma el Zocchi el g’ha miée e fioeu… E poeu, mi ghe foo
vedè a tücc come l’è che se schiva i ball del Cecchin!» «Bravo
Gusmaroli! Questo è parlar da soldato! Non già stare a cavare i
numeri del lotto!… Ah, bene: va!»
Svelto, giocondo, con
l’elmo sulle ventitré, il volontario andò a fornirsi di bombe, si
fece saltare il fucile dalla sinistra nella destra impugnandolo sotto
l’alzo, e salutò il compagno al quale si sostituiva. «Alègher,
Zocchi, che vo mi!… Ma com’è?… Cosa l’è sto muson?… Te
set no content?… Cosa l’è che te ghet?» Non pareva molto
rassicurato, Zocchi: un anziano dell’ ’84, alto e magro, con sul
viso scarno e nelle cave occhiaie i segni delle lunghe fatiche. «Te
spetti dessôra, de chi dò ôr, neh?… Se ghe resti anca mi, te
lassi in testament i scatolett!…E manda l’elmo a cà!…»
Zocchi non rise come
altri compagni, né gli occhi dissero che egli era grato al
volontario per la sostituzione, gli occhi che si volgevano intorno
inquieti e sospettosi. «Alegri, ragassi!… Ciao, caporal!» E
l’ardimentoso s’avviò, regolando il passo col canto: E mi
comandi ch’el mio corpo in sei tocchi el sia taglià: el prim tocch
al Re d’Italia, el second tocch al Battaglion!… «Bravo!» ripeté
forte Alfani, come se il partente potesse udirlo, ma indirettamente
parlandoai rimasti. «E bagnargli il naso, a quelli che se la fanno
nei calzoni!»
La voce si andava ora
spegnendo in fondo al camminamento e le parole si indovinavano più
che non si udissero: El terz tocch a la mia mamma, per regordagh el
so fioeu… El quart tocch a la mia tosa, per regordagh el prim
amor!… L’esempio, il canto avevano dissipato il senso di freddo
diffuso nella trincea. E quantunque le parole fossero tristi,
parecchi canticchiavano allegramente, o fischiettavano, e il coro
sommesso compiva la canzone perdutasi nella lontananza: Il quinto
pezzo alle montagne, che lo fioriscano di rose e fior: il sesto pezzo
alle frontiere, che si ricordino del fucilier!
Poi Gusmaroli apparve
fuori del camminamento, ritto quant’era lungo. Voltosi verso i
compagni, levò l’arma in segno di saluto e si lanciò di corsa
verso l’appostamento. Alfani sentì rimescolarsi il sangue
dall’ammirazione e dall’angoscia. Ma, rapidamente spostandosi, il
corpo del soldato poteva meglio sfuggire alla mira, e giunto sulla
piazzola il parapetto lo avrebbe coperto. Vi fu in un lampo, entrò
nel raggio di sole che scendeva allora dal Palalto, e prima di
accosciarsi si voltò ancora una volta verso i compagni agitando
trionfalmente il fucile; poi l’arma gli sfuggi di mano e le braccia
batterono l’aria e il corpo cadde riverso, mentre la fucilata
echeggiava di balza in balza.
Tutti i cuori tremarono;
la voce dell’ufficiale gridò: «Borga! Dov’è il porta-ordini?»
«Travelli!» chiamò a sua volta il sergente. Travelli accorse,
intanto che Alfani scriveva rapidamente qualche rigo sopra una pagina
del suo taccuino. «Corri subito al comando del Battaglione: hai
capito? Di’ che mi mandino uno scudo da parapetto: questo è il
buono di prelevamento: hai capito?» «Sciorsì!» e fece per andare.
«Un momento!» Tracciate ancora poche parole sopra un altro foglio,
per riferire la novità, consegnò anche quello.
«Al signor maggiore in
persona. E portami lo scudo! Se non c’è al Battaglione cercalo al
Reggimento: non perdere il tempo in chiacchiere: scappa!» Poi,
brevemente, al capoposto: «A chi tocca?» Si avanzò Zocchi, già in
pieno assetto, tacitamente preparatosi dopo aver visto cadere il
compagno. Lo presentiva, che la sua volta sarebbe subito venuta: per
questo non si era molto rallegrato della sostituzione, del troppo
breve respiro.
E pareva ora più piccolo
che non fosse, perché teneva le spalle leggermente aggobbite e il
capo un poco chino sotto il peso dell’elmetto acciaccato e calcato
molto basso. Sarto a casa sua, provvidenza dei compagni tutte le
volte che avevano strappi e sdruci da farsi rammendare, non era molto
marziale, Zocchi, in verità, con quel suo viso largo di zigomi e
appuntito sul mento, un gran naso sottile, gli occhi piccoli e
fuggenti, il collo lungo e scarno, le orecchie grandi e spalmate come
manichi di pignatta. «Animo, Zocchi: tocca a te.»
La testa si chinò ancora
un poco, per dir di sì. «Tu sei un ometto a posto… Senza
spavalderie, dunque, che costano caro.» S’avviò senza aprir
bocca, l’anziano. Quando stava per imboccare il camminamento, si
fermò come se avesse dimenticato qualche cosa e tornò sui propri
passi. «Che c’è?»
Sollevato lo sguardo in
faccia all’ufficiale, inghiottì in modo che il pomo di Adamo gli
viaggiò per il collo; poi disse, con stento: «Sor tenente, io ci ho
moje e tre bambini… Caso mai, il Governo ce pensa lui, alla mia
famija?» «Ma sì: il Governo ci pensa, ci penserà: lo sapete tutti
che il Governo ci ha pensato!… Ma stammi allegro, perdio! Cos’è
sta fifa?» La paura era nel suo sguardo tremulo, nelle sue labbra
pallide, nei suoi ginocchi che si piegavano, nella mano che pareva
sul punto di abbandonare il fucile.
E Alfani lo conosceva
anch’egli il brivido tremendo dinanzi al pericolo certo, presente,
inevitabile. Finché la minaccia è imprecisata, nello scoppio d’una
granata che non si vede arrivare, in una raffica di mitragliatrice o
in una scarica di fucileria inaspettata, che possono e non possono
colpire, il coraggio riesce ancora facile; ma se la morte è lì,
acquattata, vigile, pronta a balzare e a ghermire; se bisogna
andarle incontro fissandola negli occhi, senza difesa, allora i
capelli si drizzano, la gola si strozza, gli occhi si velano, le
gambe si piegano, le vene si vuotano, tutte le fibre tremano, tutta
la vita sfugge; allora il coraggio è lo sforzo sovrumano di vincere
la paura; allora la volontà deve irrigidirsi, deve tendersi come una
corda, come la corda del beccaio che trascina la vittima al macello.
Un senso di rimorso
vinceva il cuore dell’ufficiale dinanzi al soldato immobile e muto:
il rimorso d’avere augurato che i nemici si ridestassero, se il
risveglio doveva consistere in quell’eccidio e un prepotente
bisogno di evitare il pericolo a quello sciagurato; e una pena
ineffabile per non trovare il come. «Via, Zocchi: tu hai fatto la
guerra, tu sai che le pallottole sono cieche, che il nostro destino è
in mano di Dio… Guardati, e va’!»
Sopraggiungevano in quel
punto gli uomini di corvée, col calderotto del caffè, per la
distribuzione mattutina. I soldati porgevano le gavette, nelle quali
il distributore versava la bevanda attinta con la tazza dal lungo
manico. «Chì, vôi!» chiamò il sergente. «Servii prima el scior
tenent!» «No, grazie.» Non si sentiva di prender nulla; volle
seguire l’anziano che già procedeva lungo il fosso, che si traeva
da parte, nei cunicoli; per lasciar passare gli uomini che
risalivano.
Lo raggiunse mentre stava
per entrare nel camminamento; gli raccomandò: «Bada a tenerti più
sulla sinistra, Zocchi, ché il terreno è più riparato.»
«Sissignore.» «E di buon animo; che se spunta il solo naso d’un
austriaco, te lo concio per le feste.» Ripresa la via, il soldato si
fermò un momento allo svolto, si fece il segno della croce e sparì.
Ora gli uomini spezzavano il pane nelle gavette, vi facevano la zuppa
e la mangiavano golosamente.
Pochi, oltre le
sentinelle, stavano affacciati alle feritoie per veder riuscire i
compagni allo scoperto, ma senza smettere di lavorare con i cucchiai
e le mascelle. «Zocchi la fa franca.» «Ghe resta anca lu!» «Cossa
l’è che te scommett?» Un umbro disse, sentenziosamente,
masticando: «Pecora nera, pecora bianca: chi more more, chi campa
campa.» E un abruzzese cantilenò: Lu nasce e lu murì, ’icea
Quagliuccia, vanne accucchiate come la saggiccia… Per poco non
impegnarono scommessa sul destino del compagno, sfamandosi con la
zuppa dolce e calda, accendendo le pipe, divenuti filosofi col
risveglio degli istinti egoistici, mentre invisibili occhi,
dirimpetto, fra le nude rocce, aspettavano al varco il predestinato.
A un tratto, nella gran
pace, un sibilo, uno strido, e poi, più netto, un crocchiar
cadenzato,per aria, sul canalone. «I scorbatt!» Roteavano
altissimi, digradando lentamente verso la piazzola, attirati
dall’odore del sangue. «Spetta, carogna!» Una fucilata li
disperse e Alfani non ebbe cuore di rimproverare chi trasgrediva il
divieto d tirare senza ordini.
«Ma Zocchi?» domandò
ai graduati. «Com’è che non spunta ancora?» «Va’ ti a vedé!»
ingiunse il sergente al caporale. Ed ecco, nel silenzio tornato
profondo, un altro suono, il suono d’una voce lontana…
Unlamento?… Sì, ecco: un Ahi! e poi ancora, lunghi e fiochi, altri
Ahi! Ahi!… Alfani volle poter dubitare. «Cos’è?» «Gh’è on
quaichedun, là dessôra, che l’è viv ancamò, scior tenent!»
spiegò Borga a bassa voce. «Non è Zocchi?» «Nossignor! El
sent?…» confermò, più piano. «La ven de pussee lontan, la vôs!»
Ma i soldati avevano anch’essi compreso, e accostati al parapetto,
nuovamente turbati e inquieti, scambiavano domande e osservazioni:
«Chi sarà quel disgrassiato?» «Ha da mori’ comm’un cane?»
«Pôro fijo de mamma sua!»
Con le mascelle contratte
e gli occhi rossi, Alfani tornò a puntare il binocolo sul gruppo dei
caduti. Non si vedeva muovere nessuno dei corpi, ma il gemito
giungeva più distinto e straziante: Ahi!… Ahi!… Ahi!… Tutto il
cielo del nord, dietro il Lamagnolo, appariva ora appreso in una
tetra lastra di piombo, mentre stracci di vapori uscivano dal fondo
della Fòlpola, come da una caldaia e si alzavano intorno al sole.
Il passo del caporale che
tornava fece rivoltare l’ufficiale. «Ebbene, Zocchi?» Il graduato
restò un poco in silenzio. «Si può sapere dove s’è cacciato?».
«Signor tenente, s’è sciogliuto ’o corpo…» Ma subito dopo
più voci annunziarono: «Eccolo, Zocchi!» Riappariva infatti in
quel punto fuori del camminamento. Sporse prima la testa; poi la
ritrasse; poi si gettò a terra. Impossibile essere più guardinghi.
Schiacciato, spiaccicato, Zocchi pareva fare una cosa col suolo.
Nondimeno avanzava, impercettibilmente, senza lavorar di gomiti per
non sollevarsi d’una linea, cercando a tastoni con le mani e i
piedi le sporgenze alle quali s’afferrava per tirarsi su o
s’appoggiava per spingersi innanzi.
Quando uscì nel terreno
più scoperto fu visto obliquare a sinistra e poi annaspare senza che
si comprendesse perché; forse per essersi impigliato, lui o il
fucile; e a un tratto la canna dell’arma emerse: immediatamente
rintronò la schioppettata austriaca seguita da un grido lacerante e
da voci furenti e minacciose: «Ciappa su!» «A ti!» «Mori
ammazzato!»
E, di scatto, parecchi
colpi partirono. L’ufficiale tacque ancora a quella nuova
infrazione della consegna. Come incolpare i soldati se, esasperati
nel veder cadere tanti compagni, non potevano trattenersi dal
difenderli contro il rostro dei rapaci e dal rispondere ai nemici,
sia pure invano? Ora lo faceva anch’egli, mentalmente, il conto che
facevano tutti: cinque colpiti, tra morti e mal vivi, senza che si
potesse pensare a ritirarli, senza che si potesse soccorrerli.
Aveva anch’egli il
petto oppresso dall’angoscia che stringeva tutti, oramai, i primi
del turno come i più lontani; perché il turno si svolgeva troppo
rapidamente, perché quanti tentavano di raggiungere quel posto
maledetto tanti ce ne restavano. E lo pensava a sua volta, ciò che
qualcuno cominciava a dire sottovoce: «Non c’è mica gusto, a
fass’ ammazza’ così!» «Passiensa ciapè d’le bote; ma sôssì
a s’ciama fé la mort d’l ratt!» Dopo avere tentato inutilmente
di convincere i superiori dell’inutilità della missione, il
tenente Alfani si trova costretto a proseguire.
E nel silenzio tornato
sovrano, nel tenebrore del cielo sovrapposto al tenebrore della terra
ricominciarono a venire, dal gruppo dei caduti, le voci di lamento,
più forti e più lugubri, gli Ahi!… Ahi!… prolungantisi invano
in Aiuto!… A pugni stretti, fremente, Alfani fissava la piazzola.
Mai, in due anni di guerra, nelle mischie terribili, sotto il
grandinare della mitraglia, fra le messi sanguinose degli uomini
falciati a manipoli, a schiere, egli aveva provato il raccapriccio
che ora lo invadeva dinanzi a quella lenta, metodica e inutile
strage.
Nelle circostanze più
gravi, nelle situazioni più imbarazzanti, per temperamento e per
ragionamento egli era stato sempre certo di non sbagliare attenendosi
strettamente alla consegna; ora no, ora esitava, ora sentiva che
quella consegna costava già troppe vite. Infrangerla? Assumersi la
responsabilità delle conseguenze?… Il Consiglio di guerra, allora;
il plotone di esecuzione… Ah, no! Una pistolettata nella tempia,
prima!… O andare sulla piazzola, piuttosto: accorrere presso i
caduti, piantarsi egli stesso al posto dei suoi soldati! E mosse un
passo.
Ma Borga, che ne spiava
le mosse, che gli aveva letto in viso, alzò la voce: «A chi l’è
che tocca?» «Nummero uno d’a siconna squadra!» Tutti gli uomini
del secondo turno della prima giacevano a terra. «Morana!» chiamò
il capoposto. Nessuno dei soldati ripeté il nome, mentre il nuovo
chiamato si avanzava, pallido ma con passo fermo. Era un prode, un
veterano d’Africa: aveva il petto fregiato del nastrino azzurro per
una medaglia di bronzo guadagnatasi in Libia con una motivazione
degna di quella d’argento. Bel giovane, alto, forte, animoso:
Alfani lo aveva esperimentato in molte occasioni, e sempre se n’era
lodato, predicendogli che quel nastrino ne avrebbe presto figliato
altri.
Poiché l’atroce
ingranaggio ricominciava a funzionare, poiché il destino inesorabile
doveva compiersi meccanicamente, egli disse, studiandosi di dare
fermezza alla voce: «Be’, Morana: questa è la volta di far vedere
come si compie il proprio dovere.» Senza lasciare con gli occhi gli
occhi del superiore, il soldato rispose: «Signor tenente, io non ci
vado.» Alla prima, Alfani credette d’aver frainteso. «Cos’hai
detto?» Livido, Morana rispose, più forte: «Signor tenente, io non
ci vado.»
Invaso da un immenso
stupore, l’ufficiale volse lo sguardo agli astanti. Taciti,
immobili, agghiacciati, evitavano tutti di guardare il loro
comandante, evitavano di guardarsi tra loro. L’orrore di ciò che
avevano visto era superato dal terrore di ciò che udivano, da quel
rifiuto d’obbedienza freddo, risoluto, premeditato. E dinanzi
all’inaudito rifiuto il sentimento della disciplina insorse nella
coscienza dell’ufficiale. «Avete sentito, voialtri?» Nessuno
rispose. Egli rise d’un falso riso.
«Oh, oh!… Questa
davvero che è nuova!» Poi non volendo e quasi non potendo credere:
«Andiamo, Morana: guarda che non è tempo di scherzi. Piglia il tuo
fucile, e svelto!» Parve un momento che lo sguardo del soldato si
smarrisse. Poi diede un lampo, e la voce strozzata ripeté la terza
volta: «Signor tenente, io non ci vado».
Alfani avvampò.
Appuntandogli un dito contro il viso terreo e avanzandosi d’un
passo, esclamò: «Tu?… Sei tu che ti neghi?… Un valoroso come
te?… O non sei più il Morana del Passo dell’Antenna e del
Casello di Breno? O non sei più quello che ha visto a faccia a
faccia i diavoli di Libia e li ha fatti scappare?» Improvvisamente,
il soldato fu preso da un tremore che dalle mani e dalle braccia si
diffuse a tutta la persona. Ed anche Alfani rabbrividì, mentre per
l’aria agghiacciata stillavano le prime gocce di neve strutta.
«Ma cos’è?… Hai
paura?… Anche tu?» Gli occhi smarriti, le labbra paonazze dicevano
di sì, che egli aveva paura, tanta paura, una paura folle, ora che
non si doveva combattere in campo aperto, ora che l’orrida morte
era accovacciata lassù.
E la pietà, una pietà
impotente, tornò ad invadere il cuore dell’ufficiale dinanzi a
quell’uomo che la legge della guerra gli dava il diritto di
uccidere. «Ma tu non sai che cosa significano le tue parole? Lo sai,
è vero, che cosa importa rifiutare un ordine, qui?» Gli occhi, i
soli occhi assentirono. «O dunque, va’!» Non rispose, ricominciò
a tremare, arretrandosi come per istinto: e Alfani raccolse tutta la
sua forza per riprendere ad esortarlo: «Or via, non me lo far
ripetere!… Vedrai che l’austriaco non tirerà… Aspettiamo un
poco: crederanno che abbiamo rinunziato a staccar la vedetta… Farò
riprendere il fuoco dell’artiglieria, finché non lo ridurremo a
star zitto!»
Ma l’altro si traeva
ancora indietro, quasi sotto la minaccia del colpo mortale; e non
tanto il rifiuto quanto l’irragionevolezza dalla quale gli pareva
dettato arrovellò l’ufficiale. «Ma come?… Preferisci sei
pallottole nella schiena ad una che può anche lasciarti vivo?» La
morte, infatti, stava dinanzi al soldato; ma più certa e inesorabile
e ignominiosa lo guatava anche alle spalle.
Né lo sciagurato traeva
più indietro il capo: lo abbassava, anzi protendendo tutto il corpo,
come sul punto d’essere abbattuto dalla molteplice e infallibile
scarica. Con più duro sforzo, con voce velata dalla commozione,
Alfani riprese: «E forse che non siamo qui tutti per dare la nostra
pellaccia?… Non ci siamo preparati tutti a crepare, dal giorno che
partimmo?… Vuoi proprio mettere con le spalle al muro il tuo
tenente che ti vuol bene, che vi vuol bene tutti, che darebbe la sua
vita per quella dei suoi ragazzi?… Gli ordini, li sai?… Lo sai,
che io debbo eseguirli?»
Vedendo che gli sguardi
del tremebondo si volgevano ora ansiosi e supplici ai compagni, egli
incalzò: «O vorresti che andasse ancora un altro?… Ma lo sai
anche da te che il turno è sacrosanto, se non ci sono volontari.»
Poiché lo sciagurato non si muoveva e si guardava ancora intorno,
Alfani gridò sdegnosamente rivolto ai suoi uomini muti ed
esterrefatti: «Soldati! Qui c’è un vigliacco che vorrebbe esser
saltato!»
Alla sferzata Morana
sussultò, alzò il capo, e le guance livide, investite dalla
pioggia, furono rigate da grosse gocce che parevano lagrime. «Chi di
voi vuol prendere il posto del vigliacco?» Risposero il silenzio
delle altitudini, i rantoli dei caduti e il gracchiar dei rapaci
roteanti di nuovo sulla piazzuola. «Allora, se non va nessuno…»
E invaso dal disgusto,
dal corruccio, dal ribrezzo, in una violenta reazione di tutto
l’intimo essere suo, scotendo da sé la viltà dalla quale si
sentiva guadagnare anch’egli, rompendo il ferreo cerchio dal quale
si sentiva serrare, Alfani afferrò il moschetto del sergente rimasto
appoggiato contro la scarpata interna, e si slanciò verso il
pericolo in mezzo alle prime folate di nebbia che giungevano sulla
trincea. Ma si sentì tosto inseguito, afferrato e trattenuto.
Rispettoso ma concitato,
il sottufficiale lo richiamava in sé, disarmandolo. «Scior tenent!…
Cossa el fa!… Lu el po minga!» «Lasciami andare, perdio!» «Lu
no!… Lu el dev no lassà el so post!» Poi, tornando indietro,
deposta l’arma dentro un cunicolo, investì violentemente il
soldato: «Insomma, Morana: te vet, sì o no?» «E gli danno anche
le medaglie!» gridò Alfani riavvicinandosi, in preda a
un’eccitazione terribile dinanzi alla persistente immobilità e al
cieco diniego di quell’uomo. «E portano il segno del valore!»
Parve che si desse un pugno in petto; ma col gesto violento si
strappò i nastrini e li buttò a terra. «Via, questi stracci, se
han da portarli i vili!»
Il tremore del soldato
crebbe, spaventosamente; le stesse labbra scomparvero dalla faccia
cadaverica. Nel silenzio attonito, più greve, ovattato dai vapori,
una voce annunziò: «L’ispession!… El scior maggior!…»
Afferrato allora il riluttante con le due mani per le spalle, Borga
lo scosse forte, e gli gettò in faccia: «Di’, vôi, come l’è
che femm?» Improvvisamente gli occhi di Morana lampeggiarono, mentre
il corpo si torceva per sottrarsi alla stretta: «Ecco… così…»
E prima che nessuno avesse tempo di comprendere che cosa volesse
dire, che cosa stesse per fare, corse lungo il fosso, fino al
cunicolo, si chinò ad afferrare il moschetto, ne appoggiò al ciglio
di fuoco il calcio, se ne appuntò la bocca sotto il mento, e trasse
il colpo che fece schizzare il cervello contro i sacchi del
parapetto.
Federico De Roberto
Federico De Roberto
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