La truffa della società egualitaria
di Antonio PascaleSono a un convegno e sto guardando in aria. Non che mi annoi, anzi. Si dovrebbe discutere di letteratura ma il discorso è virato sul capitalismo e sul mercato. Molti – e anche atei – citano Papa Francesco e la sua enciclica, e vengono fuori spesso e un po’ a raffica le seguenti parole: corruzione, egoismo. Di contro, a mo’ di mantra protettivo: etica e beni comuni.
Per questo guardo in aria, un gesto istintivo, credo: se in tanti invocano l’etica, è chiaro che da qualche parte ci deve essere essere una sfera – l’immagino illuminata con un’aureola sacrale galleggiante sopra la mia testa – che contenga tanti e variopinti bei valori, pronti, viste le invocazioni, a piovere su di noi, per sconfiggere egoismi e corruzioni, e, chissà, cambiare radicalmente il mercato. Perché è chiaro, etica e mercato non vanno d’accordo, almeno qui, in questa sala.
Invece quando torno a casa in moto passo dalle invocazioni alla dea etica alle maledizioni contro gli amministratori: le buche di Roma, veramente nefaste e pericolose. Non faccio nemmeno in tempo a elaborare metà del mio repertorio di reprimende quando un motociclista davanti a me prende una buca, sbanda e cade. Un brutta botta di schiena, però immediatamente un automobilista si ferma e a gesti blocca le altre auto, un altro scende dalla moto e soccorre il malcapitato, due persone escono da un bar, accorrono e poi all’unisono chiamano l’ambulanza poi naturalmente tutti malediciamo con più forze le buche.
Meno male che il motociclista si è alzato, e anche per questo ho pensato: vedi, dentro la sala si parlava di egoismo e corruzione, qui fuori ho appena assistito a un gesto di evidente cooperazione. Nella modernità capitalista, siamo più egoisti e corruttibili o più socievoli e collaborativi? Voglio dire, siamo cittadini consumatori, facciamo parte di un grande mercato, dovremmo essere tentati e corrotti – almeno a giudicare dalla discussione del convegno – dall’egoismo e poco inclini alla collaborazione, allora cosa è successo qui? La sfera dell’etica ha lasciato che i valori fluissero su di noi.
È la vecchia questione. Se non si crede alla sfera con dentro i valori che di tanto in tanto dopo invocazioni cadono su di noi, allora da dove nasce la morale? E il mercato è causa di egoismi o produce altruismi? E poi, i valori sono sempre uguali nel tempo? Forse per cominciare a rispondere vale la pena scomporre tutte le domande in una più pratica: le cose che vanno bene per noi, vanno bene anche per il gruppo? In fondo, la cooperazione – siccome ha vantaggi e costi – presuppone sempre un dilemma morale: io o noi?
Da dove si potrebbe partire? Daniel Friedman, in Morale e mercato. Storia evolutiva del mondo moderno (Ibl libri ) parte, per rispondere, dalle amebe. Sembra che la prenda alla lontana, ma mica tanto. Il nome dell’ameba è (il solito nome) complicato, Dictyostelium discoideum e tuttavia il comportamento è fonte di interesse anche per noi. Vive nel suolo delle foreste, si nutre di batteri, cresce e poi si riproduce per scissione. Tutto bene finché c’è cibo, ma nel caso di scarsità, le amebe si uniscono fino a formare un ammasso, una specie di lumaca. La maggior parte delle amebe si raggruppa e costruisce uno stelo, altre usano lo stelo per formare un corpo fruttifero. Le amebe dello stelo si disidratano, quelle del corpo fruttifero diventano spore che trasportate dal vento approderanno (si spera) in un territorio migliore: così la colonia è salva.
Come si spiega che migliaia di individui senza un briciolo di cervello e in competizione tra loro in certe condizioni comincino a cooperare tra loro, creando una piattaforma di fuga? La spiegazione è chimica, le amebe affamate producono una sostanza, la cAMP.
Più sono alte le concentrazioni di questa sostanza più le amebe si aggregano. E va bene. Ma come si è evoluto questo meccanismo? Perché è chiaro che da una parte ci devono essere delle amebe egoiste che a dispetto delle altre raggiungono il corpo fruttifero, dall’altra parte se tutte le amebe fossero egoiste lo stelo non si formerebbe nel modo appropriato, e la colonia non avrebbe scampo. Anche le amebe hanno un dilemma sociale da risolvere: per avere successo come gruppo devono sì ridurre le egoiste ma non troppo, qualcuna deve pur salire e diventare spora, mentre altre devono sacrificarsi e formare lo stelo.
È una questione costi/benefici, ma in fondo questo caso è semplice, ogni ameba è un clone dell’altra, e una colonia può nascere da un unico antenato, quindi anche se un individuo muore nello stelo, le istruzioni per ricopiarlo (perfettamente identico) sopravvivono altrove, ecco perché il gene del sacrificio prospera.
È un esempio di base, del resto si tratta di amebe, ma il meccanismo è comune – con varie declinazioni – in tutte le specie: l’altruismo e la cooperazione, anch’essi elementi di base per discutere sui nostri princìpi morali, altro non sono che egoismi ritardati. Su quest’aspetto troviamo notevoli riflessioni (non di biologia) nelle massime di Frangois de la Rochefoucauld: “La pietà è il sentimento dei propri mali in una persona estranea: è un’abile previsione delle sventure che ci possono capitare e che ci fa prestare soccorso agli altri per impegnarli poi a restituircelo in occasioni simili, cosicché i servizi che rendiamo a quelli che sono incappati in qualche sventura sono, propriamente parlando, benefici anticipati che facciamo a noi stessi”.
Non siamo amebe, certo, ma come le amebe abbiamo i nostri dilemmi morali e, se guardiamo bene, non sono poi così sofisticati. Friedman cerca di affrontarli partendo dai princìpi evolutivi, appunto, quelli di costi/benefici, cosa sacrifico oggi per aver un beneficio domani? E sarò abbastanza abile (per dirla alla De la Rochefoucauld) da indovinare oggi che sacrificio devo compiere per uno sventurato affinché quest’ultimo arrechi domani a me un beneficio?
Calcoli, previsioni, empatia, sacrificio, guadagno, sopravvivenza: mercato appunto. È il rapporto tra questi due semplici elementi che forma un pur raffinato impianto etico. Perché costi e benefici si misurano sul mercato e i mercati non sono stati sempre uguali, dunque i valori morali sono cambiati e potranno cambiare ancora: “Il presupposto è che il mondo moderno è un matrimonio turbolento tra morale e mercato, gli scandali sono solo un esempio di discordia coniugale, in cui il mercato sabota la morale e la morale danneggia il mercato. Eppure qualche volta il matrimonio funziona bene, esporta salute, ricchezza e nuovi amici a miliardi di persone in tutto il pianeta”.
Come siamo arrivati fin qui? Facciamo una corsa (saltando molti passaggi)? La storia di questo matrimonio: cominciamo dal Paleolitico superiore, cosa succedeva in assenza di mercato? I gruppi di cacciatori-raccoglitori possono avere codici morali differenti, e tuttavia ci sono molte evidenze empiriche che mostrano che le dinamiche morali dei cacciatori-raccoglitori fossero di tipo egualitario. Anche se in un gruppo esiste un cacciatore più forte, questo non arriva mai a esercitare un potere di comando sugli altri. Se avesse provato a farlo sarebbero scattate una serie di sanzioni morali, il personaggio sarebbe stato parecchio “chiacchierato”.
L’egualitarismo – e dunque la cooperazione – si diffuse perché funzionava, le partite di caccia necessitano sì di leader ma occasionali e temporanei, mentre la raccolta di piante si basava su un’organizzazione alla pari, una struttura di classe sarebbe stata superflua. Naturalmente la nostalgia romantica c’ha messo il carico di poesia e anticonformismo e i cacciatori-raccoglitori, i buoni selvaggi sono stati idealizzati.
È tuttavia interessante cercare di capire perché mai, dopo, quei sistemi politici basati sull’egualitarismo non abbiamo funzionato affatto, come certi “beni comuni” socialisti, per esempio potremmo chiamarli, svantaggi o utopie della cooperazione. A Roma è da poco stata inaugurata la mostra Russia on the road. Ci sono splendidi quadri che ritraggono paesaggi industriali, operai e studenti felici, tram, treni, aerei e navicelle spaziali (una pacchia per un industrialista come me, soggetto a varie e insensate idiosincrasie verso la conservazione di alcune amene colline italiane).
Tutto in comune, tutti felici, tutti per la grande madre Russia. Dunque? Sembrava facile. Il problema era il divorzio: mercato e morale avevano divorziato. Cioè, c’erano beni e modi per produrli ma non c’era il mercato per allocarli (del resto non eravamo più cacciatori raccoglitori), al loro posto c’erano invece solo forti codici morali. In fondo l’evoluzione del marxismo leninismo si è basata su alcune tattiche e strategie:
“Costruire un forte senso di appartenenza al gruppo, slogan, canti e sentimenti comunitari. Fare appello a un elevato senso morale. Lo stile egualitario e soprattutto la rappresentazione artistica di tale stile di vita contribuisce a suscitare le simpatie delle persone. Rivolgersi a giovani idealisti, soprattutto a quelli dotati di tempo libero. Trovare gruppi di interesse provvisti di risorse. Gli intellettuali disoccupati avevano risentimento, tempo e talento, i lavoratori i muscoli, gli aristocratici i soldi. Avere capi opportunistici, non troppo vincolati dagli ideali, e quindi disposti a usare tutti i mezzi per ottener i propri fini”.
Parole, perché, insomma, se non è il mercato a organizzare l’economia, chi lo fa al suo posto? Ci voleva per forza una classe di burocrati che cercavano di allocare le risorse. Le risorse si allocano in modo relativamente semplice quando si tratta di grandi opere a economia di scala (quante ferrovie furono costruite in Urss), diventa complesso e faticoso quando ti devi occupare di chiodi e bulloni. Alla fine cos’è bene e cos’è male lo decidevano i burocrati – i teorici della decrescita, per esempio, quando argomentano di beni necessari e superflui, di profitto e altro, non hanno mai il coraggio di ammettere che la decrescita dovrebbe contemplare anche la riduzione del mercato (di quanto non si sa) e dunque l’esistenza di una classe di persone responsabili di: a) definire cos’è necessario, cosa superfluo (tra l’altro, lavoro antipatico); b) allocare i beni in assenza di uno specifico segmento di mercato.
Il matrimonio è necessario, ma il problema è come rendere felice e salubre la convivenza. La questione si è incancrenita fin dagli esordi, quando con la scoperta dell’agricoltura (ma chi ce l’ha fatto fare?) il codice della savana è venuto meno. Insomma, l’allevamento è un’invenzione e una tecnologia nuova. Invece di aspettare la selvaggina, la seguo o l’allevo. Più animali ho, più devo proteggerli – i razziatori in fondo non potrebbero esistere in una clima di scarsità di risorse.
Più animali, più popolazione, più invenzioni, più specializzazione, più decisioni. L’inevitabile risultato è la gerarchia. I codici morali che danno autorità a un singolo individuo o a un gruppo ristretto tendono a essere preferibili quando la dimensione della popolazione permanente supera le poche centinaia. I nuovi codici soppiantano quello della savana e risultano più efficaci nel mantenere la coesione e la produttività del gruppo.
È il processo di civilizzazione. Non è detto che abbia portato un miglioramento alla qualità della vita di tutti, ma di sicuro ha offerto possibilità nuove. Per esempio, con l’abbondanza di beni, la specializzazione e le norme scritte, era fisiologico arrivare alla logica del bazar. In fondo, il bazar altro non è che un tentativo di scambiare beni per altri beni e dunque trasformare e giocare sul dilemma di base: quello che è preferibile per me lo è anche per il gruppo? Il negoziatore accanito ed egoista potrebbe vincere sulle prime ma perdere clienti, alla lunga.
Senza considerare che il successo dei bazar potrebbe rappresentare un problema. Attraggono molti partecipanti e aumentano il numero dei beni in vendita, ma se la varietà di beni cresce diventa difficile effettuare un semplice scambio diretto. Cioè, se ho delle asce e cerco un vestito, potrei trovare tante persone disposte a vendere asce e molte disposte ad acquistare vestiti, e potrebbe essere difficile trovare uno disposto a fare entrambe le cose.
Due economisti, Clower e Howitt, hanno pubblicato un programma per simulare gli scambi e capire se e come, nel tempo, si sviluppa il problema. Se giocate con la loro simulazione, già dopo pochi decenni avete problemi di scambi e alla fine c’è bisogno di un terzo bene da scambiare: la moneta. Che, tra l’altro, era anche il bene più facile e meno pesante da trasportare. Abbiamo capito dunque che si tratta di un matrimonio a tre: io, il mercato, noi. Le trasformazioni del mercato – i mercati stimolano l’innovazione, l’innovazione cambia i mercati – hanno comportato l’acquisizione di codici morali differenti e in fondo non sempre i codici erano truffaldini, anzi.
Ci sono esempi nella storia che mostrano come il mercato a volte si sia ben incanalato. Pensate al Rinascimento italiano e alle sue agili strutture creditizie, basate su un codice d’onore e di fiducia: contabilità a partita doppia, i banchieri e mercati registravano per ogni transazione crediti e debiti. Non erano ammesse confusioni e ambiguità. Lettere di credito: una semplice lettera bastava a trasferire risorse, ma anche se lo stile delle lettere usavano il linguaggio dell’amicizia, erano precisissime nello stabilire gli importi dovuti o le condizioni del rimborso. Buoni esempi dunque non mancano.
E oggi? Con i problemi ambientali – una forma di bene comune – come si fa a far durare il matrimonio? Come si fa a evitare le nuove utopie della cooperazione? E costruire mercati migliori? Forse bisogna essere guardinghi, vero, il profitto può erodere tessuto sociale e l’ambiente, ma tirarci fuori con le sole belle parole e attendere l’arrivo della sfera dell’etica, insomma, dài, noi cittadini del mondo ogni giorno cerchiamo di risolvere il nostro dilemma morale.
Noi o il gruppo? Siamo parte in causa. Con la popolazione in crescita e nuovi mercati in arrivo, con l’inevitabile allungamento della filiera di produzione, ci toccherà capire meglio come fare per ridurre gli egoisti predatori e aumentare l’altruismo e la cooperazione, sapendo bene, però, che l’altruismo è solo un egoismo ritardato: in fondo lo sanno anche le amebe.
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