Quali maestri?
La domanda nasce come un gioco davanti a una vecchia pubblicità (apparsa su linus nel maggio 1976): chi può spiegarci, oggi, “perché siamo diventati come siamo”? Chi potremmo metterci al posto di quei tre (Elio Vittorini, Alberto Moravia, Eugenio Montale)? e conduce fatalmente a interrogarsi sull’endemico senso di inferiorità che attraversa il nostro paesaggio culturale. Osservare quegli illustri scrittori prima ancora che uno sforzo d’intelligenza storica, di critica letteraria o militanza culturale, ha tutta l’aria di un esperimento emotivo. Come ci sentiamo, come vogliamo sentirci rispetto al nostro tempo?
Delle tante accuse che ci rivolgono i nostri predecessori, una sembra particolarmente azzeccata: oggi c ’è molto più giudizio, acume, finezza di analisi, e sempre meno capacità di scelta, volontà di schierarsi. È innegabile. Si cerca, non si trova. Mancano gli appigli. Spesso ci si perde. Al limite si fa dell’ironia. Incapace di indicarne una definitiva, ho pensato ad alcune possibili soluzioni:
L’autocritica triste
Nel paese campione mondiale dell’autodenigrazione, gli ormai attempati decani della cultura si affacciano dalle terze pagine tuonando contro la decadenza delle patrie lettere. Al programmatico ottimismo renziano la vecchia guardia oppone un solido e simmetrico disincanto. Tra agosto e settembre scorsi si è avuto un campionario abbastanza esemplare: Pier Vincenzo Mengaldo, sulla Stampa, lamenta la “omogeneizzazione sociale” e quindi letteraria. Franco Cordelli, sul Fatto, sostiene che il pubblico degli scrittori non esiste più, essendo composto per lo più da altri scrittori o aspiranti tali. Una gigantesca orgia endogamica. Piergiorgio Giacché, nell’ultimo numero dello Straniero, recensendo un libro di Enzo Traverso dal titolo Che fine hanno fatto gli intellettuali? ribadisce: “Già perché intellettuali siamo diventati tutti, dopo la scolarizzazione di massa e l’industria culturale (…) siamo immersi in un sapere diffuso e confuso che ci appartiene anche senza il dovere di apprendere nulla, e però con il diritto di trasmettere tutto”. Se altri lettori di queste pagine dovessero riconoscersi nel ritratto sarebbe da considerare la possibilità di fare come quella volta il Time: al posto dei volti dei noti scrittori mettiamo tre specchietti e guardiamo in faccia il problema.
La reazione confusa
Poi c ’è Asor Rosa, che ripubblica un libro di molti anni fa con un nuovo saggio a mo’ di aggiornamento (che Alfonso Berardinelli, su Avvenire, definisce “sbrigativo e incongruo”), e quando ne parla sui giornali al posto dell’omogeneizzazione mengaldo-cordelliana si attiene a uno speculare e altrettanto vulgato “atomismo individualistico”: «non ci sono gruppi, tendenza, centri di elaborazione collettiva che integrino scrittori, critici, intellettuali». Di conseguenza non ci sono personalità di rilievo. La scoraggiante solitudine dell’intellettuale. Eppure siamo circondati da spazi collettivi, circoli, librerie-caffetterie, biblioteche. Sarà certamente un effetto di quella abnorme “democrazia culturale” di cui sopra. La società letteraria è morta (dicono), ma occasioni di confronto non mancano. Potrei citare per esperienza diretta numerose riunioni consumate a elaborare progetti culturali più o meno riusciti. Infine i blog, le riviste on line, un flusso quotidiano di riflessioni e dibattiti spesso più approfonditi e animati di quelli cartacei. Valerio Mattioli e Raffaele Alberto Ventura hanno cercato di mappare questa “galassia” su linus giungendo alla conclusione che si tratta di “un immenso casino”. A questo casino forse un giorno la storia riconoscerà una certa importanza. Quel che è certo è che Asor Rosa non lo bazzica.
L ’entusiasmo plebiscitario
Il numero estivo della rivista Orlando Esplorazioni conteneva i risultati di un sondaggio voluto da Paolo di Paolo e Giacomo Raccis e animato da preoccupazioni simili alle nostre. La domanda era: «Chi tra gli scrittori che oggi hanno tra i quarantanove e i sessantanove anni continueremo a leggere in futuro?»: Si può essere più o meno d’accordo, ma il verdetto è stato unanime: Michele Mari, Walter Siti, Antonio Moresco (i risultati sono stati pubblicati qui). Indubbiamente dei “maestri”, ma nel senso in cui lo erano Montale, Moravia, Vittorini (eccetera)? Possiamo comunque accontentarci di un così bell’accordo intorno al canone futuro: il tempo e la selezione naturale (se esiste) ci diranno se abbiamo avuto ragione. Mari, Siti, Moresco, immaginiamoli insieme a sorseggiare un drink.
Il benaltrismo aggiornato
Indubbiamente la scrittura ha perso importanza sullo scacchiere delle arti e nel libero mercato dei prodotti culturali. Occuparsene, oggi, è fare professione di inattualità. Altri sono i territori che contano, e i Grandi Maestri, se proprio vogliamo, andranno cercati lì. Chi dice meglio come siamo diventati: un uomo su una panchina di Sandro Veronesi o gli amici della De Filippi? Farinetti e il trionfo dell’universo food o un saggio di Recalcati sulla bulimia? Una pubblicità di Dolce & Gabbana o un’autofiction di W. Siti?
La riduzione del danno
Con le grandi narrazioni sono finiti i grandi narratori, ma non tutto è perduto. La letteratura è una creatura dotata di insospettabili facoltà adattive, capace di vivere lungamente nascosta negli anfratti più riposti di un mondo ostile. Spostarsi dal macro al micro. Ad esempio: se i grandi editori sono sempre più cinicamente “industriali” (e il gigante mondazzoliano non lascia sperare nulla di buono), forse dovremmo guardare ai piccoli. E se i letterati non sono più autorizzati a interpretare ruoli guida questo non significa che non si trovino ancora opere di alto livello. Siamo sicuri che per esempio Il tempo materiale di Giorgio Vasta, o Eravamo bambini abbastanza di Carola Susani siano meno validi di Agostino di Moravia? La vita in tempo di pace di Francesco Pecoraro mi ha appassionato almeno quanto Conversazione in Sicilia. Se fosse nato trent’anni prima questo autore avrebbe forse fatto “progettazione culturale” come Vittorini. Invece è un incallito e geniale frequentatore di social network. A ogni modo il libro c’è, e forse anche grazie ai social network.
Il fatalismo storico
L’Italia è un paese letterariamente stanco, semplicemente non ci sono più scrittori così bravi. Capita: esistono alti e bassi nella storia delle arti. Si può ragionare all’infinito sul perché. Sta di fatto che adesso bisogna rivolgersi altrove: Stati Uniti, Sudamerica, Asia, Sudafrica. Al posto di quei tre dovremmo allora mettere le foto di altrettanti autori stranieri, che ne so: Coetzee, DFW, Pamuk. A bilanciare il fatalismo storico potrebbe comunque essere utile accompagnare un pizzico di…
…Ottimismo della volontà
Non ci sono più grandi maestri? inventiamoceli. Non siamo disposti ad accettare passivamente la nostra “minorità” (come la chiama Daniele Giglioli in un recente saggio, tanto interessante quanto avvilente): qualcuno del calibro di Vittorini dovrà tornare prima o poi a illuminare coscienze e comitati editoriali. Prendiamo tre bambini: saranno i nostri Futuri Maestri. Mettiamoli nella fotografia, almeno uno di origine extraeuropea, per ragioni politiche o semplice realismo demografico. E cerchiamo di farli crescere nel modo migliore.
Questo pezzo è uscito sul numero di Linus attualmente in edicola.
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