Una riflessione sulle false notizie: l’attualità di Marc Bloch
La Prima Guerra Mondiale è stata, per motivi molteplici ed oltre l’orrore che si è trascinata con sé, un momento di svolta nello studio dell’uomo sull’uomo e sulla civiltà, un periodo favorevole all’analisi di una collettività che aveva subìto il primo atto di un orrore che sarebbe stato destinato a ripetersi dopo vent’anni. Basti pensare alla serie di studi che sono apparsi dopo la sua conclusione, al celebre Terra di nessuno di Eric J. Leed e a Il disagio nella civiltà di Sigmund Freud. Non a caso scelgo questi due testi, perché il primo è il ritratto più fedele e profondo delle conseguenze della guerra sui soldati e quindi sull’individualità, (argomento studiato oltretutto anche da Freud), mentre il secondo allarga lo sguardo all’intera civiltà, arrivando a conclusioni raggelanti all’alba dell’ascesa del nazismo e al nuovo orrore, ancor più grande, della Seconda Guerra Mondiale.
Ma se questi testi sono comunque successivi di molti anni all’evento traumatico (ancor di più, ovviamente, quello di Leed), c’è stata durante la guerra e nella sua immediata conclusione, un produzione assai variegata di studi, che vede la luce in questi anni in parte a causa dell’anniversario del centenario dello scorso anno (basti pensare alla pubblicazione di Adelphi del meraviglioso ’14 di Echenoz), in parte per l’attualità della riflessione per gli studi storici.
L’editore Castelvecchi riunisce per la prima volta, in Storia psicologica della prima guerra mondiale, un testo scritto durante la guerra, nel 1915, dal filologo Joseph Bédier e un famoso testo di Marc Bloch uscito nel 1921. L’accostamento dei due testi, come sottolinea il curatore Francesco Mores all’interno della prefazione, deriva da un forte nesso che li unisce e che rende quello di Bloch quasi una risposta a quello di Bédier. Quest’ultimo analizza, con l’esattezza filologica che lo caratterizza, in I crimini tedeschi provati con testimonianze tedesche, le ripetute e violente infrazioni alle regole belliche dell’esercito tedesco, analizzando i diari di guerra di circa quaranta soldati.
Il testo di Marc Bloch invece, Riflessioni di uno storico sulle false notizie di guerra, mette in relazione la diffusione delle false notizie, studiandone la nascita e lo sviluppo, con il rinnovarsi prodigioso della tradizione orale nel periodo di guerra, dialogando con la tradizione medievale dei cantori. È di particolare interesse soprattutto il secondo testo, grazie all’acutezza di uno storico che cerca sempre di stabilire un contatto con la contemporaneità, in uno spettro di tempo che va dalle origini della Francia moderna alla guerra attuale.
C’è in particolare un interesse verso quanto di importante ha ancora da dirci un testo scritto quasi cento anni fa, la sua sorprendente attualità che investe la nostra società dell’informazione e che ne fa una mezzo di analisi, in una società dell’informazione che sconta la sua continua liquefazione verso un’indeterminatezza che fa il suo prepotente sfoggio sui social. Ed è altrettanto importante vedere come l’assunto finale del testo di Bloch – ravvisabile ad ogni modo anche nel metodo filologico con cui conduce la sua analisi Joseph Bédier –, un assunto che può essere riassunto in una formula assai semplice, ovvero che la critica delle fonti deve sempre precedere la generalizzazione, sia quantomai attuale in questi giorni sporcati dalla violenza degli eventi di Parigi del 13/14 novembre, che hanno visto un proliferare impressionante di commenti e condivisioni sul web.
Marc Bloch ha il grande merito di non fermarsi alla notizia falsa solo evidenziandola e smascherandola, ma di concentrarsi su di essa andando ad indagare proprio lo spazio bianco, il vuoto che essa lascia, all’interno di un discorso più grande, che investa la sfera antropologica dell’uomo (anticipando uno sviluppo degli studi storici che trova uno dei suoi punti di maggiore interesse nell’opera di Carlo Ginzburg). Partendo da una dichiarazione di inattendibilità del testimone («Non esiste un buon testimone, nessuna deposizione è esatta in tutte le sue parti» p. 84), che non è solo chi racconta, ma anche colui che prende per vero quel racconto e gli dà respiro, Bloch va ad analizzare concretamente la nascita di una notizia falsa che lo vede coinvolto in prima persona durante la guerra . Ma ciò che ci interessa e che rende per chiunque interessante la lettura di queste pagine, come già detto poco sopra, è il metodo di Bloch e le conseguenze che lui ricava da questa analisi concreta.
Il rapporto tra realtà e finzione è un argomento grandemente dibattuto in ogni epoca, e che investe la sfera della letteratura, quella della filosofia, della sociologia e via dicendo. Nei nostri giorni però, questo argomento ha un po’ perso la sua carica fortemente intellettuale – e si badi bene, questo non è un male –, ed è diventato una argomento di discussione quasi quotidiano che si amplifica enormemente quando la civiltà è colpita da fatti come quelli di Parigi, perché nella grande bacheca che è Facebook, nascono discussioni, proliferano notizie false che vengono smentite da altre notizie false, creando una vertiginosa sovrapposizione di piani che rende quasi impossibile un’analisi che prescinda da queste, soprattutto se guidata da un tentativo di delucidazione anche di questo stesso fenomeno.
Scrive Marc Bloch nel suo saggio: «Alcuni falsi racconti hanno fatto sollevare le folle. La vita dell’umanità è piena di false notizie, in tutta la molteplicità delle loro forme – semplici dicerie, imposture, leggende. Come nascono? Da quali elementi traggono la loro sostanza? Come si diffondono, diventando sempre più grandi a mano a mano che passano di bocca in bocca o di scritto in scritto?» (p. 87). Per avere un esempio nel passato, basti pensare all’incubo delle possessioni e della stregoneria, momento in cui bastava una diceria a condannare al rogo decine di persone («Ci sono stati alcuni abili mentitori che sono riusciti ad imporre leggende alle folle», p. 96) che nonostante gli spergiuri non venivano mai credute innocenti (l’ultimo pallido film di Marco Bellocchio ne dà un saggio; ancor più preciso e immaginifico il libro di Aldous Huxley I diavoli di Loudun, da cui è stato tratto il bello e disturbante film di Ken Russel I diavoli).
Nello stesso tempo però ci vuole anche poco a capire quanto simili domande riecheggiano continuamente anche nella nostra contemporaneità a 100 anni, è sempre bene ricordarlo, dalla loro stesura originale. Si tratta forse di alcuni interrogativi senza tempo certo, ma proprio questa continuità temporale dovrebbe farci pensare e un poco incupire.
Poco più avanti Bloch è ancora più profetico: «Il più delle volte la finta notizia giornalistica è semplicemente un oggetto costruito, è forgiata da una mano operaia con un determinato obbiettivo, per influenzare l’opinione pubblica, per obbedire a una parola d’ordine» (p. 93). Traslando il discorso dai giornali alla rete, e pensando agli avvenimenti degli ultimi giorni, l’attenzione non può non andare alla condivisione inarrestabile di un articolo della BBC datato aprile (si tratta della notizia dell’attentato in Kenya) e che, non si sa bene per quale serie di avvenimenti, è stato creduto attuale. La data in bella vista era diventata invisibile e Facebook e le condivisioni hanno fatto il resto. Non si tratta ovviamente di una vera e propria “bufala”, ma di una sorta di piegatura del tempo che va a colpire ancora una volta il rapporto tra notizie e verità. E si badi all’utilità di una simile notizia, per tutte le parti in causa, per esempio per alimentare paure razziste o per far salire ancor di più la paura e la tensione, altri fattori che giovano alla sua condivisione: «perchè nasca la leggenda – scrive Bloch – basterà oramai un episodio fortuito».
Ciò che preoccupa, e che però ovviamente nello stesso tempo divide l’interpretazione di Bloch da quella odierna, è la differenza tra i momenti di proliferazione della notizia. Se infatti per la prima grande guerra è il grande turbamento morale dovuto allo spaesamento, allo sradicamento dai legami sociali essenziali, al freddo, alla paura e ai pessimi alloggi, che fomenta la nascita e lo sviluppo di queste notizie, pare che oggi sia un discorso nello stesso tempo più complesso per estensione ma paradossalmente più diretto. “L’ho letto su Facebook” è diventato il sinonimo di una notizia che sin da subito va presa con le pinze per verificarne l’autenticità, richiedendo una sorta di analisi dell’«etnologia del dir vero» usando la dicitura di Foucault, sempre utile per l’analisi di gran parte degli avvenimenti della contemporaneità (il recente Mal fare, dir vero si concentra proprio sull’atto di dire la verità, su come essa appare e su come possa essa appoggiarsi, per assurdo, alla menzogna).
Il passaggio più inquietante, e grottescamente profetico, del saggio di Bloch è il seguente: «la falsa notizia è lo specchio nel quale “la coscienza collettiva” contempla le proprie fattezze». Non servono analisi di alcuna sorta, basta forse il senso di timore che crea e che ci fa interrogare su queste «fattezze» che la modernità della diffusione delle notizie sta prendendo.
Da minima&moralia giovedì, 19 novembre 2015
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