Piero Boitani
Miti riscritti alla
Borges
«Il mito», scrive uno
dei maggiori poeti europei del Novecento, il portoghese Fernando
Pessoa, «è il nulla che è tutto». L’affermazione suonerebbe
come una generalizzazione senza senso se non fosse subito qualificata
da due esempi importanti, uno di mitologia «teologica», l’altro
di mitologia «eroico-storica». Il primo riguarda il sole, «mito
brillante e muto» perché è «il corpo morto di Dio / vivente e
nudo». L’astro rappresenta infatti da sempre la divinità: essa
muore al tramonto e risorge all’alba.
Il secondo esempio verte
invece su Ulisse, il navigatore protagonista dell’Odissea, del
canto XXVI dell’Inferno di Dante e di mille altre storie. Una
leggenda diffusa nell’antichità e nel Medioevo e particolarmente
rilevante per il Portogallo sostiene che, prima di scomparire
nell’Atlantico, Ulisse abbia fondato Lisbona («Ulixabona»).
Pessoa scrive: «Questi, che qui approdò, / fu per il non essere
esistente. / Senza esistere ci bastò. / Per non essere venuto venne
/ e ci creò».
Il discorso è
paradossale e inclina alla metafisica, ma risulta chiaro nelle sue
implicazioni: Ulisse è un personaggio mitico, dunque non è mai
esistito nella realtà. È esistito, invece, come mito, sul piano del
non essere. Tuttavia, il mito è sufficiente a dar forma al reale e
soprattutto, nei miti di fondazione, a un’identità. Senza mai
giungere in Portogallo, Ulisse ha “creato” i portoghesi, ha dato
il suo volto a un popolo. «Così», conclude il poeta, «la leggenda
si dipana / entrando nella realtà, / e a fecondarla decorre. / In
basso la vita, metà / di nulla, muore».
Questo brano mi è tornato in mente leggendo il libro di Maurizio Bettini, Il grande racconto dei miti classici, nel quale l’autore narra tanti dei miti che il mondo greco ci ha lasciato, dall’inizio del cosmo a Teseo, da Medea a Pegaso, da Orfeo a Eracle, da Sisifo agli Argonauti. Trentotto capitoli, dove il filologo classico, che per Einaudi cura una serie intitolata Mithologica (nella quale hanno già trovato posto Sirene, Arianna, Circe, Edipo, Enea, Elena, Narciso), si lascia prendere dal gusto di narrare e incantare.
Narra, come fa Ulisse ad
Alcinoo delle proprie avventure nei Libri IX-XII dell’Odissea,
«come un aedo», inanellando storia dopo storia, variante su
variante, trama intrecciata con trama, quasi fosse un mitografo
medievale, un ri-scrittore alla Borges. Racconta in maniera piana,
comprensibile a tutti, tentando di restituirci quella che egli stesso
chiama la «voce del mito»: una parola «che viaggia, che comunica
dei racconti, degli intrecci, delle verità, e poi si perde nel
vento» (mythos vuole dire racconto e parola allo stesso tempo).
Racconta: talvolta si ferma a riflettere in guisa di antropologo o di
storico della cultura, perché «il mito tramanda contemporaneamente
una cultura, le sue regole e i suoi significati».
Insomma, si diverte e diverte. Per esempio, si domanda con l’imperatore Tiberio e con altri dopo di lui che cosa cantassero le Sirene (Omero non lo dice). Naturalmente, non può rispondere: allora, dopo aver descritto l’incanto che le Sirene dell’Odissea suscitano e la morte che esse nascondono (il brano è lì, sulla stessa pagina, a testimoniarlo), Bettini salta al viaggio degli Argonauti, durante il quale si svolge una gara di canto tra le Sirene stesse e Orfeo. Orfeo vince e le Sirene si gettano a capofitto dalla rupe. Le si ritrova però vivissime alla generazione successiva, perché uno degli Argonauti è Laerte, il padre di Ulisse, il quale dovrà a sua volta passare davanti alle Sirene e vorrà ascoltare il loro canto.
Il mito opera corti
circuiti del genere senza curarsi della cronologia o della geometria
euclidea, e l’enigma del canto delle Sirene giunge intatto sino a
noi. Qualcuno ha provato a rispondere alla domanda di Tiberio:
Cicerone sostenne che le Sirene offrissero a Ulisse la conoscenza;
Benjamin – glossando Il silenzio delle Sirene di Kafka – optava
per la poesia, che resta muta dinanzi alla tecnica; Italo Calvino
decide: le Sirene cantano «ancora l’Odissea, forse uguale a quella
che stiamo leggendo, forse diversissima».
Il fascino di un libro architettato così, che si presenta a metà tra le Metamorfosi di Ovidio e le Genealogie degli dei pagani del Boccaccio, sarebbe quindi grande di per sé. Ma il volume possiede anche un’altra caratteristica che lo rende speciale: è abbondantemente, elegantemente, accuratamente illustrato, tanto da trasformarsi in libro dai mille colori e dai mille stili che parla anche agli occhi con forza travolgente. Il mito ha infatti esercitato sull’immaginazione degli artisti occidentali un’attrazione del tutto particolare, e ogni vaso arcaico, ogni scultura ellenistica o romana – migliaia di opere d’arte o umili oggetti quotidiani che sopravvivono a testimoniare, spesso in frammenti o rovine, l’età antica, si riverberano nelle miniature e nei capitelli medievali, negli affreschi del Rinascimento, nei quadri e nelle statue del Barocco, del Neoclassicismo, del Romanticismo, dell’Ottocento, giù giù sino ai film e ai fumetti del Novecento e del nostro postmodernismo.
C’è un’Afrodite che
nasce dalle acque sul cosiddetto Trono Ludovisi, del V secolo avanti
Cristo, ma c’è anche una Venere sorgente dal mare, entro una
conchiglia, da Pompei.Botticelli, Tiziano, Ingres, Picasso, Vania
Elettra Tam: e poi Verushka in posa di Anadiomene nel 1968, e Kylie
Minogue su conchiglia dorata durante l’Aphrodite Tour del 2010.
Persino Chaucer, in pieno secolo XIV, presenta nella Casa della Fama
Venere nuda sul grande mare. Se si sfogliano le centinaia di pagine
che Joseph Reed ha compilato nel 1999 per la Oxford Guide to
Classical Mythology in the Arts, 1300-1990s (e che elencano anche
opere musicali) ci si fa un’idea di tale universo.
Vederlo raccontato e illustrato in un volume fa bene all’anima. Uno studioso del IV secolo della nostra era, Saturnino Secondo Salustio, sodale e collaboratore di quell’imperatore romano che i cristiani chiamarono l’Apostata, offre questa definizione: «Anche il mondo infatti può esser detto un mito, poiché in esso corpi e oggetti si manifestano, mentre le anime e le intelligenze si nascondono». Il mito imita l’attualità degli dèi, il mondo è la realtà degli dèi in atto, «allusione a quelle essenze»: perciò mito. Davvero il mito è il nulla che è tutto.
Il Sole 24Ore – 15
novembre 2015
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