Questo saggio è uscito in versione francese, con il titolo La révolution du désir pendant Mai 68: Houellebecq et Lacan via Žižek, in Le Roman français contemporain face à l’histoire. Thèmes et formes, a cura di G. Rubino e D. Viart, Macerata, Quodlibet, 2015, pp. 407-421.
La rivoluzione del desiderio nel Sessantotto: Houellebecq e Lacan via Žižek
di Paolo Tamassia
Osservatore
acuto o, secondo alcuni, cinico dissettore dell’epoca contemporanea,
Michel Houellebecq ha sempre sostenuto la necessità di uno sguardo
storico retrospettivo per una comprensione profonda del presente. Uno
degli assi principali della sua opera consiste nel tentativo di
rispondere ad un quesito fondamentale: per quale motivo si è giunti alla
situazione attuale? Una situazione ritenuta catastrofica e senza via
d’uscita. È la domanda che si pongono molti personaggi delle Particelle elementari [1] ,
il romanzo su cui si concentrerà il mio discorso. Se Houellebecq non è
certo l’unico autore contemporaneo a rivolgersi al passato per
comprendere l’attuale stato delle cose, più rari sono coloro che
delineano nella propria opera romanzesca una sorta di filosofia della
storia[2],
come accade all’inizio di questo libro in cui – nota il narratore –
viene raccontata la storia «di un uomo che passò la maggior parte della
propria vita in Europa occidentale nella seconda metà del Ventesimo
Secolo» (p. 7). Si tratta qui di una concezione della storia secondo la
quale l’umanità è manovrata e scandita da alcune rare «mutazioni
metafisiche», ossia da alcune «trasformazioni radicali e globali della
visione del mondo adottata dalla maggioranza» (pp. 7-8). Ciò che
colpisce, in questa teoria, è il carattere assolutamente impersonale, ma
implacabile e inevitabile, di tali trasformazioni : «Appena prodottasi,
la mutazione metafisica si sviluppa fino alle proprie estreme
conseguenze, senza mai incontrare resistenza. Imperturbabile, essa
travolge sistemi economici e politici, giudizi estetici, gerarchie
sociali. Non esistono forze in grado di interrompere il corso – né umane
né d’altro genere, a parte l’avvento di una nuova mutazione metafisica»
(p. 8). Tale concezione del mondo, che determina l’economia, la
politica e i costumi di una società, viene dunque passivamente assunta
dalla maggior parte delle persone ed è il prodotto di un agente
totalmente anonimo («prodottasi»; «imperturbabile») e talmente potente
(«travolge») che nessuna forza umana è in grado di opporvisi. Tanto più
che finora tali mutazioni hanno sconvolto delle società tutt’altro che
fragili o indebolite, come sottolinea il narratore mentre descrive le
due maggiori trasformazioni dell’umanità:
All’avvento del
cristianesimo, l’Impero romano era al culmine della propria potenza;
perfettamente organizzato, esso dominava l’universo conosciuto; la sua
superiorità tecnica e militare era senza uguali. Eppure, non aveva
speranze. All’avvento della scienza moderna, il cristianesimo medievale
costituiva un sistema completo di comprensione dell’uomo e
dell’universo; serviva da base al governo dei popoli, produceva
conoscenza e opere, decideva tanto la pace quanto la guerra, organizzava
la produzione e la ripartizione delle ricchezze. Tutto ciò non riuscì
ad impedirne il tracollo (p. 8).
Tuttavia, se
l’intervento umano è stato finora del tutto assente in questa
concezione della storia, le cose cambiano in modo paradigmatico nella
«terza mutazione metafisica», la «più radicale», quella che dovrebbe
«inaugurare una nuova era nella storia del mondo» (p. 8). Di questa
trasformazione, descritta alla fine del romanzo, Michel Djerzinski – uno
degli eroi, o antieroi, del libro – è stato infatti uno degli artigiani
più lucidi. E vedremo a cosa è dovuta questa differenza fondamentale
che riguarda l’unica mutazione metafisica operata in modo volontario e
cosciente dall’essere umano. Ma prima è
necessario considerare la seconda mutazione all’interno della quale,
verso fine degli anni Sessanta, si è prodotto un fenomeno di cui viene
sottolineato a più riprese il carattere di totale novità e
irreversibilità [3].
Si tratta di trasformazioni politiche e sociali in cui il narratore
scorge l’origine di una catastrofe mondiale senza via d’uscita, la cui
responsabilità principale viene attribuita al movimento del Sessantotto;
movimento tanto ben noto quanto complesso e controverso, oggetto di una
enorme quantità di interpretazioni estremamente contrastanti e
divergenti. Quella proposta da Houellebecq, condivisibile o meno, ha
senz’altro il merito di essere chiara e decisa. A suo vedere, se il
Sessantotto [4] si è proposto come
movimento di liberazione, in particolare nell’ambito sessuale, il
problema fondamentale risiede proprio nel senso profondo di questa
pretesa emancipazione. Perché attribuendo un valore capitale
all’individuo [5], la liberazione cancella ogni possibilità di «legame»[6] all’interno della società in modo così efficace che i suoi effetti sono tuttora evidenti:
Fa un certo effetto osservare come spesso tale liberazione sessuale
venisse presentata sotto forma di ideale collettivo mentre in realtà si
trattava di un nuovo stadio nell’ascesa storica dell’individualismo.
Coppia e famiglia rappresentavano l’ultima isola di comunismo primitivo
in seno alla società liberale. La liberazione sessuale ebbe come effetto
la distruzione di queste comunità intermedie, ultime a separare
l’individuo dal mercato. Un processo di distruzione che continuo
oggigiorno (p. 116).
Dopo aver
descritto questo fenomeno storico come rottura radicale e sconvolgimento
di un’intera civiltà, Houellebecq – attraverso la voce di Michel che
commenta Il mondo nuovo di Aldous Huxley – riconosce in esso una conseguenza logica della seconda mutazione metafisica:
La
mutazione metafisica che ha creato materialismo e scienza moderna ha
avuto due grandi conseguenze: il razionalismo e l’individualismo.
L’errore di Huxley è stato quello di non aver valutato adeguatamente il
rapporto di forza tra queste due conseguenze. In dettaglio, il suo
errore sta nell’aver sottovalutato l’aumento di individualismo prodotto
da una incrementata coscienza della morte. Dall’individualismo nascono
la libertà, il senso dell’io, il bisogno di distinguersi e di essere
superiori al prossimo (p. 161).
Perciò in
ragione di questa libertà individuale, contrariamente a quanto pensava
Huxley, sorgono la competizione economica e quella sessuale [7]:
In una società razionale com’è quella descritta da Il mondo nuovo,
lo scontro più essere attenuato. In una società ricca dove i flussi
economici siano sotto controllo, la competizione economica, metafora del
dominio dello spazio, non ha più ragione di esistere. La competizione
sessuale, metafora, tramite la procreazione, del dominio del tempo, non
ha più ragione di esistere in una società dove la dissociazione
sesso/procreazione sia perfettamente realizzata; ma Huxley ha
dimenticato di tener conto dell’individualismo. Non ha saputo capire che
il sesso, una volta dissociato dalla procreazione, sussiste meno come
principio di piacere che come principio di differenziazione
narcisistica; lo stesso dicasi per il desiderio di ricchezza (p. 161).
Si giunge così ad una esacerbazione del desiderio:
Perché la
mutazione metafisica operata dalla scienza moderna si porta dietro
l’individuazione, la vanità, l’odio e il desiderio. Di per sé il
desiderio – contrariamente al piacere – è fonte di sofferenza, di odio e
di infelicità. E, questo, tutti i filosofi – non solo i buddisti, non
solo i cristiani, ma tutti i filosofi degni di questo nome – l’hanno
capito e insegnato. La soluzione degli utopisti – da Platone a Huxley
passando per Fourier – consiste nell’annientare il desiderio, e le
sofferenze connesse, organizzandone l’immediata soddisfazione (p. 161).
Ma la novità
dell’epoca aperta dal Sessantotto è costituita da un trattamento
particolare del desiderio. Contrariamente alle soluzioni proposte dagli
utopisti, come afferma Michel, «la società erotico-pubblicitaria in cui
viviamo si accanisce ad organizzare il desiderio, a svilupparlo fino a dimensioni inaudite, al tempo stesso controllandone
la soddisfazione nel campo della sfera privata. Affinché la suddetta
società funzioni, affinché la competizione continui, occorre che il
desiderio cresca, si allarghi e divori la vita degli uomini» (pp. 161-162 ; corsivi miei) [8].
E proprio in
questa «organizzazione» del desiderio, cioè in questa ingiunzione a
desiderare e a godere, consiste il tratto inedito della seconda
mutazione metafisica, in cui lo sviluppo artificiale del desiderio si
accorda alla trasformazione del godimento in merce:
In
quegli stessi anni [Settanta], l’opzione edonista-libidica d’origine
nordamericana trovò un valido sostegno negli organi di stampa
d’ispirazione libertaria (il primo numero di «Actuel» uscì nell’ottobre
del 1970, quello di «Charlie-Hebdo» in novembre); benché sostanzialmente
collocate in una prospettiva politica di contestazione del capitalismo,
quelle riviste concordavano con l’industria del divertimento quantomeno
sull’essenziale: distruzione dei valori morali giudaico-cristiani,
apologia della gioventù e della libertà individuale (pp. 56-57).
Si tratta di
ciò che potremmo considerare un paradosso dell’individualismo. Accade
insomma che un’azione impersonale esercitata dalla società
sull’individuo per liberarlo, esaltando la sua atomistica individualità,
lo trasformi in un’entità anonima e passiva. Ha luogo così una sorta di
assoggettamento dell’individuo liberato. Prendiamo il caso di Bruno, il
fratellastro di Michel, vittima eminente della liberazione intesa come
rivoluzione del desiderio. A un certo momento Bruno comprende che
«l’obiettivo principale della sua vita era stato esclusivamente
sessuale; non era più possibile cambiare» (p. 65) e in ciò – sottolinea
il narratore – era un personaggio «emblematico della sua epoca» (p. 65).
Ma stando così le cose è possibile considerare Bruno un individuo? È la
domanda che si pone il suo fratellastro Michel (la coscienza critica
all’interno del romanzo). Da un punto di vista fisico certamente, pensa
Michel: «la putrefazione del suo organismo, sì, gli apparteneva
individualmente; avrebbe conosciuto a titolo personale il declino fisico
e la morte», ma «d’altra parte […] la sua visione edonista della vita, i
campi di forze che strutturavano la sua coscienza e i suoi desideri,
quelli appartenevano al complesso della sua generazione» (p. 178).
Dunque, se sul piano fisico poteva apparire come un individuo, «da un
altro punto di vista non era altro che l’elemento passivo dello
spiegamento di un movimento storico. Le sue motivazioni, i suoi valori, i
suoi desideri: nulla di tutto ciò lo distingueva neppure in misura
minima dai suoi contemporanei» (p. 178). In questo senso tutti gli
individui rivelano un identico atteggiamento nei confronti del desiderio
sessuale, atteggiamento emblematizzato dal comportamento dei
frequentatori di locali scambisti, luoghi simbolo di questa società:
Gli
uomini e le donne che frequentano i locali per coppie finiscono
rapidamente per rinunciare alla ricerca del piacere (che richiede
finezza, sensibilità, pacatezza) a vantaggio di un’attività sessuale
fantasmatica, assai insincera nel suo principio, in pratica ricalcata
supinamente sulle scene di gang bang dei porno alla moda trasmessi da
Canal +. In omaggio a Karl Marx, che pone al centro del proprio sistema,
come un’entelechia deleteria, l’enigmatico concetto di «caduta
tendenziale del tasso di profitto», sarebbe allettante postulare, al
centro di del sistema libertino nel quale avevano fatto ingresso Bruno e
Christiane, l’esistenza di un principio di caduta tendenziale del tasso
di piacere; sarebbe allettante, ma anche approssimativo e inesatto (p.
243)..
Il fatto è
che il desiderio e il piacere sono facilmente manipolabili : «Fenomeni
culturali, antropologici, vicari, in sostanza desiderio e piacere non
spiegano quasi nulla della sessualità; lungi dall’essere un fattore
determinante, sono viceversa sociologicamente determinati» (p. 243). Se
in un sistema monogamico romantico, basato sull’amore, il desiderio e il
piacere si ottengono attraverso l’essere amato, «nella società liberale
in cui vivevano Bruno e Christiane, il modello sessuale proposto dalla
cultura ufficiale (pubblicità, riviste, organizzazioni sociali e della
pubblica sanità) era quello dell’avventura: all’interno di tale sistema, desiderio e piacere si manifestavano al termine di un processo di seduzione,
centrato sulla novità, la passione e la creatività individuale
(caratteristiche altresì cruciali per gli impiegati, nell’ambito della
loro vita professionale)» (p. 243). In altri termini, gli individui
rispondono all’appello, o piuttosto all’imposizione, di un sistema che
può essere considerato «come calco [«fantasme»] della cultura ufficiale»
(p. 244). In questo senso, conclude il narratore, «il godimento è
questione di costume – come probabilmente avrebbe detto Pascal se si
fosse interessato a questo genere di cose» (p. 244).
«Questione
di costume»! in che senso? Lascerò qui da parte l’interpretazione di
questa intrigante allusione a Pascal, per sollecitare invece un autore
vilipeso da Houellebecq, al punto di considerarlo un «ciarlatano» [9]:
Jacques Lacan. Anche se, nel mio discorso, il riferimento sarà
piuttosto il Lacan tratteggiato dalla penna pungente di Slavoj Žižek,
perché mi sembra che da questo accostamento emergano dei punti di
tangenza tanto inattesi quanti illuminanti.
Nel sesto capitolo di Leggere Lacan (2006), intitolato «“Dio è morto, ma non lo sa”: Lacan gioca con Bobòk»,
Žižek elabora un’interpretazione lacaniana della società contemporanea
fondata sull’ateismo. All’origine di questa società c’è senz’altro
l’annuncio della «morte di Dio», formulata per la prima volta da
Nietzsche nella Gaia Scienza (§ 125), dove il celeberrimo
discorso dell’uomo folle segna la fine di un’epoca, anzi la fine della
«storia»: epoca e storia concepite come l’insieme delle esperienze umane
dotate di un senso ultimo intelligibile. E tale fine deve essere
compresa come nichilismo, ossia come scomparsa o distruzione dei valori
supremi sui quali l’Occidente si è fondato a partire da Platone. Ora,
come osservava Nietzsche, il responsabile della morte di Dio è l’uomo,
anche se non ne è ancora pienamente cosciente. È questo il senso della
constatazione dell’uomo folle – «vengo troppo presto […] non è ancora il
mio tempo» –, in cui si evince che gli uomini non sono ancora in grado
di rendersi conto della loro azione criminale. Così, secondo Lacan, per
evitare la responsabilità traumatica della morte di Dio, l’uomo ha
rimosso l’esistenza stessa del Dio che ha ucciso. Proprio per questo «la
vera formula dell’ateismo non è Dio è morto […], la vera formula dell’ateismo è che Dio è inconscio» [10],
come afferma Žižek riprendendo Lacan. Una volta rimosso dall’uomo, il
quale non vuole ammetterne l’assassinio, Dio abita il suo inconscio
mantenendo il potere delle antiche proibizioni. Così la svalutazione dei
valori supremi diagnosticata da Nietzsche viene interpretata da Žižek
come un problema che attualmente riguarda lo scacco degli ordini
simbolici, cioè di quel che Lacan chiama «il grande Altro». Con questa
espressione bisogna intendere una sorta di «agency» anonima e
impersonale, costruita culturalmente, alla quale l’individuo si sente in
dovere di aderire col suo comportamento assumendola come parametro
rispetto al quale misurarsi. Si tratta della regola implicita che
governa la società:
L’ordine
simbolico, vale a dire la costituzione non scritta della società, è la
seconda natura di ogni essere parlante: è qui che dirige e controlla le
mie azioni, è il mare nel quale nuoto, eppure resta – in ultima analisi –
impenetrabile, poiché mai potrò porlo dinanzi a me e afferrarlo. È come
se noi, soggetti del linguaggio, parlassimo e interagissimo alla
stregua di marionette, come si nostri discorsi e i nostri gesti fossero
dettati da un qualche anonimo agire [agency] onnipervasivo. Questo
significa forse che, per Lacan, noi esseri umani siamo meri epifenomeni,
ombre prive di un nostro potere reale? Significa forse che la nostra
autopercezione come agenti [agents] autonomi e liberi sia una sorta di
illusione del fruitore che ci rende ciechi di fronte al fatto che siamo
semplici strumenti nelle mani del grande Altro, il quale si nasconde
dietro lo schermo e manovra i fili? (p. 30).
Ognuno di
noi cerca continuamente di riferirsi a un «Altro» virtuale ma sempre
presente e sempre pronto ad assicurarsi che le nostre azioni siano
conformi alle sue aspettative. E questo agente impersonale, il grande
Altro, trova un corrispondente «vendicativo, sadico e punitivo» (p. 98)
nel Super-io. In altre parole dobbiamo agire in un certo modo perché
così comanda il grande Altro, e ci sentiamo colpevoli se non gli
ubbidiamo perché il Super-io ha deciso così.
Secondo
Žižek nella nostra epoca, determinata dal fallimento degli ordini
simbolici tradizionali in seguito alla morte di Dio, si è prodotta una
duplice perversione: del grande Altro e al contempo del Super-io. In
effetti il grande Altro mostra sempre più di aspettarsi, da parte delle
persone, non certo la moderazione, ma ben piuttosto l’eccesso –
coerentemente al carattere edonista della società. Ed è proprio questo
eccesso che viene imposto dal Super-io. Insomma, il Super-io si converte
in un paradossale imperativo di godimento, come ha affermato Žižek in
un’intervista: «La conseguenza paradossale e tragica è una corsa
sfrenata al godimento – che giunge evidentemente all’impossibilità di
godere perché il Super-io esige sempre di più» [11].
Allora il Super-io, che un tempo era depositario esclusivo
dell’interdizione di godere, sembra piuttosto incarnare uno strabiliante
«divieto di non godere». Per cui oggi « non ci si sente più colpevoli
quando si hanno dei piaceri illeciti, come accadeva prima, ma quando non
si è capaci di approfittarne, quando non si riesce a godere» (pp.
31-32). Tuttavia, le dinamiche simboliche sovvertite dalla morte di Dio
non ci hanno affatto affrancati dalle proibizioni tradizionali in quanto
esse si sono insinuate nelle profondità della nostra psiche. Proprio in
quello che era considerato il luogo di pulsioni sregolate e
inconfessabili desideri, l’inconscio, possono allora sorgere moderati
impulsi al pudore: «Se un tempo fingevamo pubblicamente di credere,
mentre nel profondo eravamo scettici o addirittura impegnati a burlarci
delle nostre credenze pubbliche, oggi tendiamo pubblicamene a professare
il nostro atteggiamento – scettico, edonistico o rilassato che sia –
mentre dentro di noi rimaniamo abitati da credenze e rigide proibizioni»
[12].
Bisogna prendere atto «che la vecchia situazione in cui la società
deteneva le interdizioni e l’inconscio le pulsioni sregolate è oggi
invertita: la società è edonista e sregolata, mentre è l’inconscio che
regola»[13].
Evidentemente la società va qui intesa come uno dei nomi del grande
Altro che ha come pendant sadico un Super-io sempre insoddisfatto il cui
imperativo è divenuto un’oscena ingiunzione: «Godi»!
Ma allora,
se la libertà si traduce in una singolare condanna alla libertà, è
possibile sostenere che «tutto è permesso»? Secondo Lacan, come
riferisce Žižek, il celebre motto di Dostoevskij – «Se Dio non esiste […] allora tutto è permesso»
(p. 108) – si rivela in realtà un’affermazione del tutto ingenua. Si
dovrebbe dire piuttosto: «Se Dio non esiste, allora niente è permesso»
(p. 108). In effetti, l’ateo che ha rimosso Dio pensa che senza Dio
tutto sia permesso, mentre l’esorbitante arbitrarietà prodotta dalla
rimozione provoca ineluttabilmente il suo contrario: la costrizione al
godimento imposto da una norma obbligante come lo era la norma divina,
ma perversa e inesorabile proprio perché non è più contenuta nei limiti
della Legge. Il Dio rimosso – vale a dire la Legge, la Necessità –
ritorna come imposizione perentoria a godere, come necessità di godere,
guastando però inevitabilmente il godimento stesso. In questa nuova
situazione il godimento, un tempo considerato segreta soddisfazione di
pulsioni inconfessabili, diventa qualcosa che la società si aspetta da
noi, qualcosa cui non ci si può rifiutare. Diventa un atteggiamento di bon ton: ossia «una questione di costume», per dirla con il narratore delle Particelle elementari.
Per
comprovare questo insolito parallelo tra Houellebecq e Lacan (via
Žižek), mi sembra molto utile evocare un assunto dello stesso
Houellebecq contenuto in una sezione del saggio Approches du désarroi (1997), intitolata Le monde comme supermarché et comme dérision.
Dopo aver elaborato una parziale confutazione delle tesi di
Schopenhauer (annunciata dal titolo parodico), Houellebecq considera qui
la tragica «dissoluzione d’essere» che coinvolge gli occidentali
contemporanei. E riconosce la causa di questo disfacimento proprio nella
celebre «morte di Dio in Occidente», fenomeno che avrebbe «costituito
il preludio di una formidabile telenovela metafisica, che continua fino
ai nostri giorni»[14].
Grazie ad una prodigiosa sintesi, lo scrittore riassume qui le tappe
fondamentali di questa appassionante telenovela. Secondo lui solo il
cristianesimo è riuscito a realizzare il «colpo da maestro di
combinare la credenza ostinata nell’individuo – tutta la cultura antica,
rispetto alle epistole di San Paolo, ci appare oggi curiosamente
garbata e desolata – con la promessa della partecipazione eterna
all’Essere assoluto» (p. 76). Ma questo sogno a un certo punto è svanito
e successivamente, a partire dunque – potremmo dire – dalla seconda
mutazione metafisica, sono state elaborate diverse ipotesi per
«promettere all’individuo un minimo di essere; per conciliare il sogno
di essere che l’individuo stesso portava in sé con l’onnipresenza
ossessiva del divenire» (p. 76). Tutti questi tentativi – afferma con
decisione Houellebecq – sono sistematicamente falliti, «e l’infelicità
ha continuato ad estendersi» (p. 76). L’ultimo di questi tentativi in
ordine di tempo è la «pubblicità» che, nelle riflessioni delle Particelle elementari,
si offre come emblema della società edonista e consumista prodotta e
«organizzata» dal Sessantotto. Ma cos’è la pubblicità per Houellebecq?
La sua descrizione del fenomeno pubblicitario, precisa e penetrante, non
può non sorprendere per la somiglianza (quasi ne fosse una sottile,
quantunque involontaria, perifrasi) con il grande Altro di Lacan (via
Žižek):
Benché
[la pubblicità] miri a suscitare, a provocare, a essere il desiderio, i
suoi metodi sono in fondo assai simili a quelli che caratterizzano la
vecchia morale. In effetti la pubblicità istituisce un Super-io
terrificante e duro, molto più spietato di ogni altro imperativo mai
esistito, che aderisce alla pelle dell’individuo e gli ripete
continuamene: «Devi desiderare. Devi essere desiderabile. Devi
partecipare alla competizione, alla lotta, alla vita del mondo. Se ti
fermi, non esisti più. Se resti indietro, sei morto». Negando ogni
nozione di eternità, definendosi lei stessa come processo di
rinnovamento permanente, la pubblicità mira a vaporizzare il soggetto
per trasformarlo in fantasma obbediente del divenire. E questa
partecipazione epidermica, superficiale, alla vita del mondo, si suppone
che prenda il posto del desiderio di essere (p. 76).
Eppure, se
le diagnosi convergono, terapia e prognosi sono totalmente opposte.
Perché nella prospettiva di Lacan, e di Žižek, la psicanalisi si propone
come discorso nel quale è insita la possibilità di fronteggiare il
grande Altro, in quanto sarebbe l’unico discorso a concedere il diritto
«di non godere». Non certo nel senso che proibisce di godere, ma perché
libera dal carattere costringente del godimento:
Oggi
il godimento funziona effettivamente come uno strano dovere etico: gli
individui si sentono in colpa non tanto perché, nel darsi a piaceri
illeciti, violano le proibizioni morali, quanto perché non sono capaci
di godere. In una situazione del genere, la psicoanalisi è il solo
discorso nel quale ti è consentito di non godere; non che sia vietato
godere: solo, è alleviata la pressione di doverlo fare» (p. 120).
Insomma all’interno di questa prospettiva il grande Altro si presenta sempre come «barrato»[15]:
cioè in perdita. Mentre per Houellebecq non è possibile realizzare
alcun gesto di pensiero in grado di difenderci dalla impersonale e
inflessibile ingiunzione al godimento. E in questo senso, la
ridicolizzazione degli sforzi speculativi di Foucault, Lacan, Derrida,
Deleuze, che lo scrittore propone alla fine del libro è tutt’altro che
ingenua [16].
Il fatto è che, per Houellebec, non esiste alcuna via d’uscita per la
società attuale. Anzi, più radicalmente: non c’è alcuna una via d’uscita
per l’umanità. Per questo motivo Houellebecq proclama con impeto la
necessità e l’urgenza di un cambiamento totale di paradigma realizzabile
soltanto tramite l’istituzione di una nuova ontologia. Così, attraverso
il testamento intellettuale di Michel, lo scrittore invoca la necessità
di una trasformazione genetica dell’umanità, al fine di giungere alla
creazione di una nuova specie:
Spirito
inquieto, arruffone, mercuriale, egli batté l’Europa in lungo e in
largo per diversi anni (come confermano le sue consecutive iscrizioni
presso le università di Praga, Göttingen, Montpellier e Vienna) alla
ricerca, secondo le sue parole, «di un nuovo paradigma, ma non solo: di
un altro modo di vedere il mondo, ma anche di un altro modo di situarmi
in rapporto ad esso». In ogni caso egli fu il primo, e per molti anni
l’unico, a difendere questa tesi radicale scaturita dai lavori di
Djerzinski: l’umanità deve scomparire; l’umanità deve dar vita a una
specie nuova, asessuata e immortale, una specie al di là
dell’individualità, della separazione e del divenire (p. 308).
Non si
tratta certo di un procedimento fondato su una visione progressista
della storia perché Houellebecq nutre una profonda sfiducia verso
qualsivoglia avanzamento della storia, come testimoniano le riflessioni
di Michel:
[Gli
uomini] cedevano alla fissazione che fosse utile far procedere la
storia, cioè in pratica provocare rivoluzioni e guerre. A parte le
sofferenze assurde che provocavano, rivoluzioni e guerre distruggevano
il meglio del passato, obbligando ogni volta i popoli a fare tabula rasa
per ricostruire. Così deviata dall’andamento lineare di un’ascensione
progressiva, l’evoluzione umana finiva per adottare un andamento
caotico, destrutturato, irregolare e violento (p. 166).
In altre
parole i tentativi di cambiamento operati dagli uomini, al di là delle
mutazioni metafisiche (prodotte, come abbiamo visto, da un agente
impersonale), hanno condotto e conducono soltanto ad un peggioramento
della situazione. Tuttavia questo principio pessimistico non vale per la
terza mutazione metafisica, quella elaborata in modo cosciente sulla
base delle ricerche scientifiche di Michel. Perché lo scopo di questa
trasformazione non è certo quello di far avanzare l’umanità – finalità
irrealizzabile e del resto poco auspicabile – ma piuttosto di demolirla
per dar vita ad un’altra forma di vita.
Allora, senza formulare qui un giudizio di valore sulle due prospettive[17],
nelle quali insospettate consonanze danno luogo a conclusioni opposte,
si può notare che i riferimenti filosofici spessoo sollecitati da
Houellebecq per fondare le sue analisi e le sue conclusioni – Comte,
Tocqueville, Fourier – potrebbero indurre la tentazione di attribuire a
lui il severo giudizio che Foucault aveva rivolto a Sartre all’uscita
della Critica della ragione dialettica: «Il magnifico e patetico sforzo di un uomo dell’Ottocento per comprendere il Novecento»[18].
Ma la questione è ben più complessa. A titolo di esempio mi sembra opportuno evocare un articolo di Žižek stesso, Masturbation, or Sexuality in the Atonal World, dove il filosofo psicanalista elabora un parallelo tra la post-umanità immaginata alla fine delle Particelle elementari e
gli ultimi lavori di Foucault, che avrebbero come denominatore comune
l’idea di uno spazio di piacere liberato della differenza sessuale:
Quasi
quarant’anni fa Michel Foucault aveva squalificato l’«uomo» in quanto
figura disegnata nella sabbia in procinto di essere spazzata via,
introducendo il concetto (poi diventato di moda) della «morte
dell’uomo». Anche se Houellebecq racconta questa scomparsa in termini
letterari molto più ingenui, come è il caso della sostituzione
dell’umanità con una nuova specie post-umana, c’è un comune denominatore
tra i due: la scomparsa della differenza sessuale. Nei suoi ultimi
lavori Foucault aveva prefigurato lo spazio dei piaceri liberato dal
Sesso, e si è tentati di affermare che la società postumana dei cloni di
Houellebecq sia la realizzazione del sogno foucaultiano degli Stessi
che praticano l’«uso dei piaceri»[19].
Note:
[1] Secondo la madre di Janine: «[…] doveva esserci uno sbaglio. Da qualche parte doveva esserci uno sbaglio» (Michel Houellebecq, Le particelle elementari,
Milano, Bompiani, 1999, p. 42; d’ora in poi le indicazioni di pagina di
questa edizione verranno inserite tra parentesi direttamente nel
testo); Christiane osserva: «È andato storto qualcosa; non so cosa, ma
nella mia vita è andato storto qualcosa» (p. 150); Bruno si chiede:
«Com’era stato possibile che le cose arrivassero a quel punto?» (p.
167); Annabelle, a sua volta: «Non riesco a capire come abbiano fatto le
cose a rovinarsi a questo punto. Non riesco ad accettarlo» (p. 236).
[2] Per Aurélien Bellanger si tratterebbe di una filosofia della storia «romantica». Cfr. A. Bellanger, Houellebecq écrivain romantique, Parigi, Léo Scheer, 2010, pp. 45-49.
[3] «Qualcosa
di radicalmente nuovo» (p. 31); «una nuova tendenza ben più concreta di
una semplice moda e destinata a scuotere l’intera civiltà occidentale»
(p. 81); una «inedita trasformazione» (p. 121); «Nel 1974-75 […] nella
società occidentale si era prodotto uno slittamento sottile ma
definitivo» (p. 155).
[4] Secondo
Liza Steiner «L’opera di Houellebecq appare come la costatazione
critica delle conseguenze del Sessantotto, in particolare di quelle che
riguardano la liberazione dei costumi», (L. Steiner, Sade-Houellebecq, du boudoir au sex-shop,
Paris, L’Harmattan, coll. «Approches littéraires», 2009, pp. 48;
traduzione mia). E più precisamente: «L’antiumanismo caratteristico dei
protagonisti houellebechiani appare uno sviluppo logico dell’evento
Sessantotto» (ibid., p. 68).
[5] Secondo Bruno Viart, Houellebecq mutua la nozione di «individualismo», sia pur riattualizzandola, da Comte; cfr. B. Viard, Houellebecq au laser. La faute à Mai 68,
Nizza, Les Éditions Ovadia, coll. « Chemins de la pensée », 2008, p.
36-37. Secondo Pierre Jourde la problematica principale di Houellebecq è
costituita proprio dalla «differenza individuale»; cfr. Pierre Jourde, La Littérature sans estomac, Parigi, L’Esprit des péninsules/Pocket, 2002, p. 277-278.
[6] Sul concetto di «déliaison» (frattura o assenza di legami) tra gli individui nelle Particelle elementari, cfr. Ph. Muray, Et, en tout, apercevoir la fin…, «L’Atelier du roman», n. 18, 1999, pp. 23-32.
[7] Il
prolungamento della competizione economica nell’ambito sessuale era
stato diagnosticato e analizzato da Houellebecq nel suo primo romanzo Estensione del dominio della lotta (1994). Sulla dimensione economica nell’opera di Houellebecq cfr. E. Dion, La Comédie économique. Le monde marchand selon Houellebecq, Parigi, Le Retour aux Sources éditeur, 2011.
[8]
Secondo Marek Bieńczyk, «[…] Houellebecq descrive il mondo –
riprendendo un’espressione di Baudrillard – “après l’orgieˮ, quando la
velocità della liberazione (di tutto: del sesso, dell’informazione,
della comunicazione) ha superato se stessa e, a causa del suo eccesso, è
uscita dalla sua traiettoria: la liberazione (= esaurimento delle
possibilità) porta alla distruzione di ciò che era stato liberato, la
frenesia dei limiti ha ceduto all’estinzione degli stimoli, alla
frantumazione del desiderio, alla passività sentimentale e genitale» (M.
Bieńczyk, Sur quelques éléments (particuliers) de l’art romanesque, in «L’Atelier du roman», n. 18, 1999, p. 36; traduzione mia).
[9]«Jacques Lacan era un ciarlatano. Lanciarsi in teorie che non si conoscono, è ciarlataneria » (intervista concessa a Laure Adler, trasmessa nel programma Permis de penser dal canale «Arte» il 20 settembre 2005; traduzione mia).
[10] S. Žižek, Leggere Lacan. Guida perversa al vivere contemporaneo, Torino, Bollati Boringhieri, coll. «Nuova Cultura – Introduzioni», p. 108.
[11] Il desiderio, o il tradimento della felicità, intervista con Slavoj Žižek, in «Magazine littéraire», n. 455, luglio- agosto 2006, p. 31 (traduzione mia).
[12] S. Žižek, Leggere Lacan, cit., pp. 111-112. Già
nel suo libro su Lovecraft, del 1991, Houellebecq sosteneva: «Il
capitalismo liberale ha allargato la propria presa sulle coscienze; di
pari passo sono andati affermandosi il mercantilismo, la pubblicità, il
culto bieco e grottesco dell’efficienza economica, l’appetito esclusivo e
immorale per le ricchezze materiali. Peggio ancora, il liberalismo è
passato dal campo economico al campo sessuale. Tutte le convenzioni
sentimentali sono andate in pezzi. La purezza, la castità, la fedeltà,
la decenza sono diventate marchi infamanti e ridicoli» (M. Houellebecq, H. P. Lovecraft. Contro il mondo, contro la vita, Milano, Bompiani, coll. «pasSaggi», 2001).
[13] Il desiderio, o il tradimento della felicità, art. cit., p. 33.
[14] M. Houellebecq, Approches du désarroi, in Interventions, Paris, Flammarion, 1998, p. 76; traduzione mia.
[15] S. Žižek, Il Grande Altro. Nazionalismo, godimento, cultura di massa, a cura di M. Senaldi, Milano, Feltrinelli, coll. «Campi del sapere», 1999, p. 195.
[16]«Ciò
dimostra altresì a qual punto le questioni filosofiche avessero
perduto, nello spirito del pubblico, qualsiasi referente ben definito.
La risibilità globale in cui erano improvvisamente precipitati, dopo
decenni di insensata sopravvalutazione, i lavori di Foucault, di Lacan,
di Derrida e di Deleuze, non aveva sul momento lasciato il campo libero
ad alcun pensiero filosofico nuovo, bensì al contrario aveva gettato
discredito sull’insieme degli intellettuali che si definivano di
“scienze umane”; sicché la crescita di potere degli scienziati in tutti i
campi del pensiero era diventata ineluttabile» (p. 313-314).
[17] Prospettive
che implicano tra l’altro due visioni ben diverse del Sessantotto.
L’interpretazione di Houellebecq è molto vicina a quella di Régis Debray
(Mai 68 une contre-révolution réussi, Parigi, Mille et une nuit,
2008) secondo la quale il Sessantotto è un movimento connivente del
liberismo capitalista (che personalmente non condivido). Žižek, per
contro, distingue tra il Sessantotto e il recupero che ne ha effettuato
il capitalismo: «Il nuovo spirito del capitalismo ha recuperato
trionfalmente la retorica egualitaria e antigerarchica del ’68,
presentandosi come una vittoriosa rivolta libertaria contro le
organizzazioni sociali oppressive caratteristiche sia del capitalismo
corporativo sia del socialismo reale. Un nuovo spirito libertario
personificato da capitalisti vestiti casual e “cool” come Bill Gates e i
fondatori del Ben And Jerry’s Ice Cream» (S. Žižek, Dalla tragedia alla farsa. Ideologia della crisi e superamento del capitalismo,
Milano, Ponte alle Grazie, 2010, p. 75). Poi, seguendo le analisi di
Jean-Claude Milner sul Sessantotto, Žižek afferma: «Mentre il Maggio ’68
mirava a un’attività totale (e totalmente politicizzata), lo “spirito
del ‘68” ha trasposto questo scopo in una pseudo-attività
depoliticizzata (nuovi stili di vita ecc.), la forma stessa della
passività sociale» (p. 79).
[18] M. Foucault, L’homme est-il mort? (intervista con C. Bonnefoy), in Dits et écrits, vol. 1, a cura di D. Defer, F. Ewald, Paris, Gallimard, coll. «Bibliothèque des Sciences humaines», 1994, p. 542 ; trad. it., È morto l’uomo ?, in Archivio Foucault 1. Interventi, colloqui, interviste, Milano, Feltrinelli, coll. «Campi del sapere», 1996, pp. 147-152.
[19] S. Žižek, Masturbation, or Sexuality in the Atonal World, in Lacan.com, disponibile anche nel sito: www.egs.edu/faculty/slavoj-zizek/articles/masturbation-or-sexuality-in-the-atonal-world/ (traduzione mia). In
un altro articolo, in cui riprende il tema, Žižek aggiunge: «[…] nel
nostro mondo postmoderno “disincantato” permissivo, la sessualità libera
è ridotta ad una partecipazione apatica ad orge collettive descritte
nelle Particelle – la costitutiva impasse della relazione
sessuale (il “non c’è rapporto sessuale” di Lacan) sembra raggiungere
qui il suo culmine devastante» (S. Žižek, No sex, please, we’re post-human!, www.lacan.com/nosex.htm; traduzione mia).
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