A cosa servono i libri di poesia?
di Niccolò Scaffai
Quando, alcuni mesi fa, si è diffusa la
notizia della prossima (e ormai attuata) fusione tra Rizzoli e
Mondadori, si è subito temuto che i conseguenti contraccolpi editoriali
potessero minacciare la sopravvivenza di collane storiche. E lo si teme
tuttora. Tra queste, la collana più esposta sembra «Lo Specchio», da
decenni considerata la sede ufficiale della poesia in Italia, la più
frequentata da autori riconosciuti: gli ultimi libri pubblicati sono di
Buffoni, Santagostini, Majorino, De Angelis (e, tra gli stranieri, di
Heaney, Levine, Krüger).
Se n’è parlato sui giornali (per esempio
su «Avvenire», dove il dibattito è stato avviato da un articolo di
Alessandro Zaccuri; e sulla «Lettura» del «Corriere della Sera», con interventi di Paolo Di Stefano, Alberto Casadei, Alessandro Trocino, Giovanna Rosadini, Chiara Fenoglio)
e per radio (ne ho discusso a «Fahrenheit», lo scorso 18 giugno, con
Alfonso Berardinelli e Nicola Crocetti: il podcast della trasmissione, Ultimi versi dell’editoria, si può ascoltare qui), cogliendo l’occasione per riflettere sulla relazione attuale tra poesia, pubblico e mercato.
È una questione, o un nodo di problemi, a
cui s’intrecciano due elementi cruciali: i valori e la mediazione.
Perché ci si allarma se chiude «Lo Specchio»? Poesie se ne scriveranno
ancora e ancora ne verranno pubblicate, in forma di libro o in rete,
dove il genere ha una circolazione notevole, addirittura insospettabile
per chi si limita a frequentare le librerie. Credo allora che la
preoccupazione non riguardi tanto la poesia in sé, quanto la
legittimazione di chi la scrive: sia di coloro che stanno dentro il
campo dei valori affermati, sia di coloro che costruiscono una
rappresentazione alternativa (e, in qualche caso, uno stile originale)
rispetto a quel campo. Perché questa dinamica, scontata (e talvolta
stucchevole) ma tutto sommato salutare, possa attuarsi, è necessaria
l’esistenza di un riferimento cui mirare, per aderirvi o prenderne le
distanze. «Lo Specchio» è questo riferimento, è l’immagine in cui
confluiscono il capitale concreto (la grande Casa editrice) e quello
simbolico (i grandi poeti e di poeti funzionari: Sereni, i
‘santi padri’ del secondo Novecento), senza il quale anche un editore
robusto sul piano industriale non può essere organico alla società in
cui è basato. «Lo Specchio» (cui si affiancano, negli ultimi anni, le
edizioni di poeti contemporanei uscite negli «Oscar») è tradizione, nel
senso di trasmissione di valori e posizioni riconoscibili; è, in
definitiva, mediazione.
Sul versante critico, l’opera di
mediazione più influente si è svolta proprio all’insegna della
‘tradizione del Novecento’. A quarant’anni dall’uscita del primo volume
di Pier Vincenzo Mengaldo così intitolato, persiste il canone implicito
che ha nella linea Montale-Sereni il suo asse; un canone particolarmente
consolidato in ambito accademico ma centrale anche per gli stessi poeti
che si riconoscono nei valori formali (e in certi casi anche
ideologici) degli autori accreditati da Mengaldo. Rientra nel medesimo
solco anche il complesso di autori inseriti nelle antologie criticamente
più organiche degli ultimi anni: in primis quella curata da Enrico Testa (Dopo la lirica,
Einaudi 2005). Non tutti i critici che adottano una prospettiva
prevalentemente formale condividono però la sensibilità di Mengaldo per i
fattori anche extratestuali (la storia e l’esperienza degli autori), né
si pongono come obiettivo più o meno esplicito la formulazione di un
giudizio, la responsabilità di riconoscere una tradizione. Di qui,
l’autoreferenzialità che connota talvolta gli studi stilistici sul
Novecento, tecnicamente anche molto raffinati ma esposti alle reazioni
dei critici di altra scuola, alcuni dei quali legittimamente portati
alla rivalutazione di nomi e opere collocabili lungo altre trafile
rispetto a quelle autorizzate da Mengaldo. A quei critici va
riconosciuto il merito di aver reintegrato dialetticamente, nel campo
della letteratura e specialmente della poesia novecentesca, autori fin
qui rimasti o diventati marginali. Da un lato, ad esempio, conoscono un
motivato revival le voci dell’ermetismo fiorentino e di quello
meridionale; dall’altro, si affermano o riaffermano i valori degli
eslege, per lo più – ma non esclusivamente – prossimi all’area della
neoavanguardia (nei confronti della quale La tradizione del Novecento
era apertamente critica). Le circostanze celebrative – nel 2013 i
cinquant’anni del Gruppo 63, nel ’14 il centenario della nascita di una
generazione di ermetici – hanno accresciuto l’interesse (anche
editoriale) per l’una e l’altra corrente. Ma forse più conta il fatto
che la cosiddetta ‘poesia di ricerca’ di questi ultimi anni, quasi
inafferrabile con gli strumenti analitici e le prospettive storiche
della tradizione, dichiari spesso la propria filiazione dallo
sperimentalismo della neoavanguardia. Non è un caso che a tenere a
battesimo gli autori meglio disposti a sperimentare forme di scrittura
poetica inconciliabili con la tradizione del Novecento siano i reduci
più tenaci e consapevoli della stagione neoavanguardistica e i critici,
anche giovani, che proprio alla sperimentazione attribuiscono il maggior
valore, facendone il discrimine del loro giudizio. La varietà di un
panorama in cui possono convivere, anche non pacificamente, diverse
configurazioni del Novecento e diverse idee di contemporaneo è un segno
di vitalità. Il rischio da evitare è che questa vitalità diventi
disperatamente autoreferenziale, aumentando l’entropia, alimentando un
effetto-labirinto. La tradizione, intesa nel senso che Mengaldo ha
attribuito alla parola, era ed è anche una mediazione. Il critico, più o
meno consentaneo rispetto ai propri autori, dovrebbe fare soprattutto
questo: mediare, con le risorse di metodo che gli sono più congeniali,
tra sé stesso, il proprio oggetto e chi legge e ha diritto di capire
quel che c’è da capire del testo e della sua interpretazione.
Sennonché, la poesia oggi ha un problema
con la mediazione; si dice, e probabilmente è vero, che se ne scriva
più di quanta se ne legga, il che rende sempre più difficile e parziale
l’espressione di un giudizio non occasionale. La democrazia della rete
contribuisce poi ad abolire, nel bene e nel male, i filtri intermedi.
C’erano e ci sono le antologie, ma ormai le migliori non possono
esercitare una mediazione se non a un livello già alto, dove in effetti
serve di meno: penso ai due esempi eccellenti e opposti, di Dopo la lirica, citata poco sopra, e Parola plurale. Sessantaquattro poeti italiani fra due secoli (Sossella,
2005, a cura di Alfano, Baldacci, Bello Minciacchi, Cortellessa,
Manganelli, Scarpa, Zinelli, Zublena). Uscite entrambe dieci anni fa, le
due antologie sono semplicemente troppo colte perché un lettore medio
(o uno scrivente-non-lettore) di poesia possa servirsene. Peggio per
lui, ma alla fine peggio anche per la poesia.
Credo che ci sia proprio la coscienza di
problemi simili all’origine di alcune recenti iniziative editoriali,
concepite con una formula efficace: un critico e autore di grande
competenza e prestigio, noto anche oltre la cerchia dei professionisti,
sceglie e commenta poesie più o meno canoniche di autori importanti,
italiani e stranieri. Alla finezza delle presentazioni si mescola a
tratti l’understatement, ottenuto attraverso l’uso di un
registro medio e per mezzo di studiati sconfinamenti dai settori di più
diretta competenza, accademica o culturale in genere. L’avvicinamento al
lettore è favorito dall’esercizio libero del gusto e dal privilegio –
vorrei dire: dallo sfizio – della scelta non sistematica, ma sicura e
rappresentativa: tanto dei percorsi intellettuali del critico quanto di
forme e generi della poesia.
Questo tipo di raccolta sta all’antologia come la Wunderkammer
sta al museo: le meraviglie sparse nell’una non hanno la stessa
funzione delle collezioni ordinatamente conservate nell’altro, ma
possono più facilmente invogliare a una visita e impressionare il
curioso. Fanno questo, e lo fanno bene ciascuno a suo modo, due libri
usciti quasi insieme negli ultimi mesi: uno di Valerio Magrelli, l’altro
di Walter Siti.
Il primo è intitolato Millennium poetry (il Mulino) e consiste in una serie di trentanove letture, dall’Indovinello veronese
ad Amelia Rosselli, disposte in base al secolo di nascita dei poeti:
autrici e autori italiani, che hanno scritto nella nostra lingua ma
anche in lingue straniere (il provenzale di Dante, il greco di
Poliziano, il latino di Pontano); autori stranieri che hanno scritto in
italiano (come Milton, di cui Magrelli antologizza qui un sonetto); o
«stranieri italiani», autori in lingue diverse ma attivi negli attuali
confini nazionali (come Ibn Hamadîs, arabo di Sicilia). Il numero –
trentanove – allude proprio alla dialettica nazionale/internazionale,
giocando sul prefisso telefonico dell’Italia, +39: «Se l’espressione forse più commovente dell’esilio – scrive Magrelli nell’Introduzione
– dell’emigrazione, dell’alienazione e dell’espropriazione viene da un
film di fantascienza il cui l’eroe extraterrestre traduce tutta la sua
straziante nostalgia per la patria perduta nell’espressione “telefono
casa”, ebbene vedo nel prefisso 39 la risposta che ogni italiano
all’estero potrebbe suggerire». Sorta di «quaderno
d’interpretazioni», personale nelle scelte e sentimentale nello
svolgimento (come il genere «quaderno di traduzioni», a cui Magrelli
esplicitamente paragona il proprio libro), Millennium poetry nasce
però anche da una committenza istituzionale: un’antologia scolastica di
Zanichelli, dalla quale provengono 29 delle 39 letture qui pubblicate. È
significativo che un volume legittimato dall’autorità del suo curatore,
nei risvolti idiosincratici che sono lo stigma d’autore cui il pubblico
può essere sensibile e interessato, abbia le sue radici nella scuola e
nell’editoria scolastica, luogo e mezzo per eccellenza deputati alla
mediazione primaria tra letteratura e società. Del resto, il tratto
autoriale di Millennium poetry non si manifesta tanto nella
selezione degli autori, per lo più compatibili con un canone anche
scolastico (lo si vede bene anche nella sezione novecentesca, in teoria
la più soggetta all’espressione di gusti non convenzionali: dopo
Ungaretti e Montale, vengono infatti confermati quattro autori tra i più
giustamente accreditati del secono Novecento, cioè Bertolucci, Caproni,
Sereni, Rosselli); quel tratto si nota piuttosto nella scelta delle
singole poesie, spesso canoniche sì, ma anche in qualche misura
‘pre-magrelliane’: penso, tra le altre, alla lauda 81 di Iacopone da
Todi (« O Segnor, per cortesia, / manname la malsania!) o alla rima 26 di Michelangelo («I’ sto rinchiuso come la midolla /da la sua scorza, qua pover e solo, /come spirto legato in un’ampolla»).
Il secondo libro, La voce verticale. 52 liriche per un anno
(Rizzoli), raccoglie le schede composte per la rubrica settimanale «La
poesia del mondo», tenuta da Siti su «Repubblica» nel corso del 2014.
Siti può contare sul ritmo originario della collaborazione giornalistica
per scandire il libro in base al calendario, quasi alludendo, più o
meno fortuitamente, a una forma nobile e canonica: in La voce verticale,
tante poesie quante sono le settimane in un anno; nel Canzoniere di
Petrarca, tanti fragmenta quanti i giorni più uno, 366. Anche in coda al
libro di Siti c’è una giunta: Cinque rimpianti, cioè poesie di cinque
autori (Brecht, Sylvia Plath, Borges, Pasternak, Mallarmé) rimaste fuori
dalla rubrica e ora recuperate. La voce verticale spazia dall’antichità
(Saffo, Orazio) alla contemporaneità, passando per epoche e tradizioni
diverse; le poesie non sono presentate in ordine cronologico né vengono
adottati altri evidenti criteri organizzativi. Il maggiore eclettismo
può apparire una concessione al gusto midcult; ma qui, accanto ai
classici (da Dante a Tasso, da Leopardi a Pascoli e Montale) e ai grandi
‘soliti’ Nobel (Brodskij, Walcott), si trovano autori inattesi
(Contessa di Dia, ‘trovatrice sospetta’ – che fosse un uomo in realtà? –
tra le poche voci femminili che la raccolta include), o ai margini del
canone (Noventa, Penna), o di culto, sì, ma highbrow (come Kavafis,
Larkin, ancora Rosselli). L’obiettivo dichiarato da Siti nella
prefazione è quello di ricordare, nel generale contesto d’insignificanza
sociale cui la poesia sembra relegata, l’«ampiezza del ventaglio, la
varietà delle opzioni possibili». In comune, gli autori e le poesie
convocati da Siti hanno la prossimità al limite, oltre il quale «il
linguaggio suggerisce una pienezza che rimanda oltre il linguaggio» e il
controllo del senso sfugge in parte agli stessi poeti: non eletti per
vocazione, come l’opinione comune vorrebbe, ma al servizio della propria
stessa ambizione espressiva, della parola verticale che li raggiunge. È
un’idea suggestiva, che entra in relazione con una poetica e
un’ermeneutica della lirica che ammettono e valorizzano il suo nucleo di
mistero: la poesia come «regno della metafora» e della «condensazione
onirica». Non a caso, anni fa, Siti ha dato un’affascinante lettura di
Iride, la sola lirica di Montale che, a detta dello stesso autore,
meritasse «appunti di obscurisme».
Non tendono all’oscurità, per fortuna,
le spiegazioni delle poesie: Siti mette sempre in evidenza i particolari
rilevanti, i dati necessari, gli elementi essenziali del contesto (qua e
là semplificando e attualizzando); sulla forma e sugli aspetti
artigianali si ferma quanto basta per mettere il lettore in grado di
capire. In questo, La voce verticale mostra un’efficacia comunicativa e
didattica senza la quale non si dà mediazione. Ciò anche grazie a
qualche ricordo significativo, che letto oggi è quasi un auspicio, come
questo sull’esordio di Milo De Angelis (Somiglianze, 1976): «ecco,
un poeta venticinquenne era lì, con una voce sua e con testi che […]
non somigliavano a nessuno, che non si abbandonavano alla futile orgia
del metalinguaggio e non si prendevano tartufescamente sottogamba; che
si spingevano al sublime della lirica usando le parole di tutti i
giorni. Dunque si poteva ancora fare?».
Testo ripreso da http://www.leparoleelecose.it/?p=20950#more-20950
Nessun commento:
Posta un commento