11 novembre 2015

A COSA SERVE LA POESIA?





A cosa servono i libri di poesia?



di Niccolò Scaffai

Quando, alcuni mesi fa, si è diffusa la notizia della prossima (e ormai attuata) fusione tra Rizzoli e Mondadori, si è subito temuto che i conseguenti contraccolpi editoriali potessero minacciare la sopravvivenza di collane storiche. E lo si teme tuttora. Tra queste, la collana più esposta sembra «Lo Specchio», da decenni considerata la sede ufficiale della poesia in Italia, la più frequentata da autori riconosciuti: gli ultimi libri pubblicati sono di Buffoni, Santagostini, Majorino, De Angelis (e, tra gli stranieri, di Heaney, Levine, Krüger).
Se n’è parlato sui giornali (per esempio su «Avvenire», dove il dibattito è stato avviato da un articolo di Alessandro Zaccuri; e sulla «Lettura» del «Corriere della Sera», con interventi di Paolo Di Stefano, Alberto Casadei, Alessandro Trocino, Giovanna Rosadini, Chiara Fenoglio) e per radio (ne ho discusso a «Fahrenheit», lo scorso 18 giugno, con Alfonso Berardinelli e Nicola Crocetti: il podcast della trasmissione, Ultimi versi dell’editoria, si può ascoltare qui), cogliendo l’occasione per riflettere sulla relazione attuale tra poesia, pubblico e mercato.
È una questione, o un nodo di problemi, a cui s’intrecciano due elementi cruciali: i valori e la mediazione. Perché ci si allarma se chiude «Lo Specchio»? Poesie se ne scriveranno ancora e ancora ne verranno pubblicate, in forma di libro o in rete, dove il genere ha una circolazione notevole, addirittura insospettabile per chi si limita a frequentare le librerie. Credo allora che la preoccupazione non riguardi tanto la poesia in sé, quanto la legittimazione di chi la scrive: sia di coloro che stanno dentro il campo dei valori affermati, sia di coloro che costruiscono una rappresentazione alternativa (e, in qualche caso, uno stile originale) rispetto a quel campo. Perché questa dinamica, scontata (e talvolta stucchevole) ma tutto sommato salutare, possa attuarsi, è necessaria l’esistenza di un riferimento cui mirare, per aderirvi o prenderne le distanze. «Lo Specchio» è questo riferimento, è l’immagine in cui confluiscono il capitale concreto (la grande Casa editrice) e quello simbolico (i grandi poeti e di poeti funzionari: Sereni, i ‘santi padri’ del secondo Novecento), senza il quale anche un editore robusto sul piano industriale non può essere organico alla società in cui è basato. «Lo Specchio» (cui si affiancano, negli ultimi anni, le edizioni di poeti contemporanei uscite negli «Oscar») è tradizione, nel senso di trasmissione di valori e posizioni riconoscibili; è, in definitiva, mediazione.
Sul versante critico, l’opera di mediazione più influente si è svolta proprio all’insegna della ‘tradizione del Novecento’. A quarant’anni dall’uscita del primo volume di Pier Vincenzo Mengaldo così intitolato, persiste il canone implicito che ha nella linea Montale-Sereni il suo asse; un canone particolarmente consolidato in ambito accademico ma centrale anche per gli stessi poeti che si riconoscono nei valori formali (e in certi casi anche ideologici) degli autori accreditati da Mengaldo. Rientra nel medesimo solco anche il complesso di autori inseriti nelle antologie criticamente più organiche degli ultimi anni: in primis quella curata da Enrico Testa (Dopo la lirica, Einaudi 2005). Non tutti i critici che adottano una prospettiva prevalentemente formale condividono però la sensibilità di Mengaldo per i fattori anche extratestuali (la storia e l’esperienza degli autori), né si pongono come obiettivo più o meno esplicito la formulazione di un giudizio, la responsabilità di riconoscere una tradizione. Di qui, l’autoreferenzialità che connota talvolta gli studi stilistici sul Novecento, tecnicamente anche molto raffinati ma esposti alle reazioni dei critici di altra scuola, alcuni dei quali legittimamente portati alla rivalutazione di nomi e opere collocabili lungo altre trafile rispetto a quelle autorizzate da Mengaldo. A quei critici va riconosciuto il merito di aver reintegrato dialetticamente, nel campo della letteratura e specialmente della poesia novecentesca, autori fin qui rimasti o diventati marginali. Da un lato, ad esempio, conoscono un motivato revival le voci dell’ermetismo fiorentino e di quello meridionale; dall’altro, si affermano o riaffermano i valori degli eslege, per lo più – ma non esclusivamente – prossimi all’area della neoavanguardia (nei confronti della quale La tradizione del Novecento era apertamente critica). Le circostanze celebrative – nel 2013 i cinquant’anni del Gruppo 63, nel ’14 il centenario della nascita di una generazione di ermetici – hanno accresciuto l’interesse (anche editoriale) per l’una e l’altra corrente. Ma forse più conta il fatto che la cosiddetta ‘poesia di ricerca’ di questi ultimi anni, quasi inafferrabile con gli strumenti analitici e le prospettive storiche della tradizione, dichiari spesso la propria filiazione dallo sperimentalismo della neoavanguardia. Non è un caso che a tenere a battesimo gli autori meglio disposti a sperimentare forme di scrittura poetica inconciliabili con la tradizione del Novecento siano i reduci più tenaci e consapevoli della stagione neoavanguardistica e i critici, anche giovani, che proprio alla sperimentazione attribuiscono il maggior valore, facendone il discrimine del loro giudizio. La varietà di un panorama in cui possono convivere, anche non pacificamente, diverse configurazioni del Novecento e diverse idee di contemporaneo è un segno di vitalità. Il rischio da evitare è che questa vitalità diventi disperatamente autoreferenziale, aumentando l’entropia, alimentando un effetto-labirinto. La tradizione, intesa nel senso che Mengaldo ha attribuito alla parola, era ed è anche una mediazione. Il critico, più o meno consentaneo rispetto ai propri autori, dovrebbe fare soprattutto questo: mediare, con le risorse di metodo che gli sono più congeniali, tra sé stesso, il proprio oggetto e chi legge e ha diritto di capire quel che c’è da capire del testo e della sua interpretazione.
Sennonché, la poesia oggi ha un problema con la mediazione; si dice, e probabilmente è vero, che se ne scriva più di quanta se ne legga, il che rende sempre più difficile e parziale l’espressione di un giudizio non occasionale. La democrazia della rete contribuisce poi ad abolire, nel bene e nel male, i filtri intermedi. C’erano e ci sono le antologie, ma ormai le migliori non possono esercitare una mediazione se non a un livello già alto, dove in effetti serve di meno: penso ai due esempi eccellenti e opposti, di Dopo la lirica, citata poco sopra, e Parola plurale. Sessantaquattro poeti italiani fra due secoli (Sossella, 2005, a cura di Alfano, Baldacci, Bello Minciacchi, Cortellessa, Manganelli, Scarpa, Zinelli, Zublena). Uscite entrambe dieci anni fa, le due antologie sono semplicemente troppo colte perché un lettore medio (o uno scrivente-non-lettore) di poesia possa servirsene. Peggio per lui, ma alla fine peggio anche per la poesia.
Credo che ci sia proprio la coscienza di problemi simili all’origine di alcune recenti iniziative editoriali, concepite con una formula efficace: un critico e autore di grande competenza e prestigio, noto anche oltre la cerchia dei professionisti, sceglie e commenta poesie più o meno canoniche di autori importanti, italiani e stranieri. Alla finezza delle presentazioni si mescola a tratti l’understatement, ottenuto attraverso l’uso di un registro medio e per mezzo di studiati sconfinamenti dai settori di più diretta competenza, accademica o culturale in genere. L’avvicinamento al lettore è favorito dall’esercizio libero del gusto e dal privilegio – vorrei dire: dallo sfizio – della scelta non sistematica, ma sicura e rappresentativa: tanto dei percorsi intellettuali del critico quanto di forme e generi della poesia.
Questo tipo di raccolta sta all’antologia come la Wunderkammer sta al museo: le meraviglie sparse nell’una non hanno la stessa funzione delle collezioni ordinatamente conservate nell’altro, ma possono più facilmente invogliare a una visita e impressionare il curioso. Fanno questo, e lo fanno bene ciascuno a suo modo, due libri usciti quasi insieme negli ultimi mesi: uno di Valerio Magrelli, l’altro di Walter Siti.
Il primo è intitolato Millennium poetry (il Mulino) e consiste in una serie di trentanove letture, dall’Indovinello veronese ad Amelia Rosselli, disposte in base al secolo di nascita dei poeti: autrici e autori italiani, che hanno scritto nella nostra lingua ma anche in lingue straniere (il provenzale di Dante, il greco di Poliziano, il latino di Pontano); autori stranieri che hanno scritto in italiano (come Milton, di cui Magrelli antologizza qui un sonetto); o «stranieri italiani», autori in lingue diverse ma attivi negli attuali confini nazionali (come Ibn Hamadîs, arabo di Sicilia). Il numero – trentanove – allude proprio alla dialettica nazionale/internazionale, giocando sul prefisso telefonico dell’Italia, +39: «Se l’espressione forse più commovente dell’esilio – scrive Magrelli nell’Introduzione – dell’emigrazione, dell’alienazione e dell’espropriazione viene da un film di fantascienza il cui l’eroe extraterrestre traduce tutta la sua straziante nostalgia per la patria perduta nell’espressione “telefono casa”, ebbene vedo nel prefisso 39 la risposta che ogni italiano all’estero potrebbe suggerire». Sorta di «quaderno d’interpretazioni», personale nelle scelte e sentimentale nello svolgimento (come il genere «quaderno di traduzioni», a cui Magrelli esplicitamente paragona il proprio libro), Millennium poetry nasce però anche da una committenza istituzionale: un’antologia scolastica di Zanichelli, dalla quale provengono 29 delle 39 letture qui pubblicate. È significativo che un volume legittimato dall’autorità del suo curatore, nei risvolti idiosincratici che sono lo stigma d’autore cui il pubblico può essere sensibile e interessato, abbia le sue radici nella scuola e nell’editoria scolastica, luogo e mezzo per eccellenza deputati alla mediazione primaria tra letteratura e società. Del resto, il tratto autoriale di Millennium poetry non si manifesta tanto nella selezione degli autori, per lo più compatibili con un canone anche scolastico (lo si vede bene anche nella sezione novecentesca, in teoria la più soggetta all’espressione di gusti non convenzionali: dopo Ungaretti e Montale, vengono infatti confermati quattro autori tra i più giustamente accreditati del secono Novecento, cioè Bertolucci, Caproni, Sereni, Rosselli); quel tratto si nota piuttosto nella scelta delle singole poesie, spesso canoniche sì, ma anche in qualche misura ‘pre-magrelliane’: penso, tra le altre, alla lauda 81 di Iacopone da Todi (« O Segnor, per cortesia, / manname la malsania!) o alla rima 26 di Michelangelo («I’ sto rinchiuso come la midolla /da la sua scorza, qua pover e solo, /come spirto legato in un’ampolla»).
Il secondo libro, La voce verticale. 52 liriche per un anno (Rizzoli), raccoglie le schede composte per la rubrica settimanale «La poesia del mondo», tenuta da Siti su «Repubblica» nel corso del 2014. Siti può contare sul ritmo originario della collaborazione giornalistica per scandire il libro in base al calendario, quasi alludendo, più o meno fortuitamente, a una forma nobile e canonica: in La voce verticale, tante poesie quante sono le settimane in un anno; nel Canzoniere di Petrarca, tanti fragmenta quanti i giorni più uno, 366. Anche in coda al libro di Siti c’è una giunta: Cinque rimpianti, cioè poesie di cinque autori (Brecht, Sylvia Plath, Borges, Pasternak, Mallarmé) rimaste fuori dalla rubrica e ora recuperate. La voce verticale spazia dall’antichità (Saffo, Orazio) alla contemporaneità, passando per epoche e tradizioni diverse; le poesie non sono presentate in ordine cronologico né vengono adottati altri evidenti criteri organizzativi. Il maggiore eclettismo può apparire una concessione al gusto midcult; ma qui, accanto ai classici (da Dante a Tasso, da Leopardi a Pascoli e Montale) e ai grandi ‘soliti’ Nobel (Brodskij, Walcott), si trovano autori inattesi (Contessa di Dia, ‘trovatrice sospetta’ – che fosse un uomo in realtà? – tra le poche voci femminili che la raccolta include), o ai margini del canone (Noventa, Penna), o di culto, sì, ma highbrow (come Kavafis, Larkin, ancora Rosselli). L’obiettivo dichiarato da Siti nella prefazione è quello di ricordare, nel generale contesto d’insignificanza sociale cui la poesia sembra relegata, l’«ampiezza del ventaglio, la varietà delle opzioni possibili». In comune, gli autori e le poesie convocati da Siti hanno la prossimità al limite, oltre il quale «il linguaggio suggerisce una pienezza che rimanda oltre il linguaggio» e il controllo del senso sfugge in parte agli stessi poeti: non eletti per vocazione, come l’opinione comune vorrebbe, ma al servizio della propria stessa ambizione espressiva, della parola verticale che li raggiunge. È un’idea suggestiva, che entra in relazione con una poetica e un’ermeneutica della lirica che ammettono e valorizzano il suo nucleo di mistero: la poesia come «regno della metafora» e della «condensazione onirica». Non a caso, anni fa, Siti ha dato un’affascinante lettura di Iride, la sola lirica di Montale che, a detta dello stesso autore, meritasse «appunti di obscurisme».
Non tendono all’oscurità, per fortuna, le spiegazioni delle poesie: Siti mette sempre in evidenza i particolari rilevanti, i dati necessari, gli elementi essenziali del contesto (qua e là semplificando e attualizzando); sulla forma e sugli aspetti artigianali si ferma quanto basta per mettere il lettore in grado di capire. In questo, La voce verticale mostra un’efficacia comunicativa e didattica senza la quale non si dà mediazione. Ciò anche grazie a qualche ricordo significativo, che letto oggi è quasi un auspicio, come questo sull’esordio di Milo De Angelis (Somiglianze, 1976): «ecco, un poeta venticinquenne era lì, con una voce sua e con testi che […] non somigliavano a nessuno, che non si abbandonavano alla futile orgia del metalinguaggio e non si prendevano tartufescamente sottogamba; che si spingevano al sublime della lirica usando le parole di tutti i giorni. Dunque si poteva ancora fare?».

Testo ripreso da   http://www.leparoleelecose.it/?p=20950#more-20950

Nessun commento:

Posta un commento