18 novembre 2015

COSA PUO' NASCONDERE UN PASSAPORTO


Il trappolone

di Helena Janeczek


C’è un arma usata a Parigi che si sta rivelando micidiale come un gas tossico: il passaporto che portava con sé uno degli attentatori, il primo e l’unico documento d’identità a essere stato ritrovato dagli inquirenti.
Benché un ufficiale dell’intelligence americana avesse tempestivamente espresso l’ipotesi d’un falso e anche la polizia francese abbia parlato di un documento contraffatto probabilmente acquistato in Turchia, l’altro ieri il nome di tal Ahmad Almohammad è stato diffuso in maniera ufficiale.
Le importi digitali, s’è scritto, coinciderebbero con quelle prese sull’isola di Leros, dove l’uomo è stato registrato a ottobre prima di transitare per la Serbia.
Questa è esattamente la traccia che gli organizzatori degli attacchi parigini intendevano farci scoprire. Per la riuscita del loro piano era importante ci fosse un terrorista arrivato con i barconi, per dirla con Salvini. Ne bastava uno, uno solo. Gli altri quattro sinora identificati, il quinto in fuga e anche l’organizzatore, sono cittadini francesi e belgi. Ragazzi convertiti al jihadismo e radicalizzati da un soggiorno d’addestramento e indottrinamento in Siria; presenze interne alle nostre società, come gli attentatori di Charlie Hebdo, nemici che non potremo mai sconfiggere chiudendo le frontiere.
Il passaporto intonso trovato presso l’uomo che s’è fatto esplodere fuori dallo Stade de France (sebbene almeno uno degli attentatori abbia cercato di entrarci) rafforza la congettura che agli ideatori della strage di Parigi bastasse usare quel primo attacco come un grande fuoco inziale; efficace per attirare le telecamere in mondovisione, come diversivo per le mattanze affidate agli altri comandi, e infine forse persino come pretesto per far compiere una missione circoscritta. L’uomo con il passaporto siriano non doveva fare altro che ricordarsi di buttarlo via prima di azionare la cintura esplosiva.
È cruciale riconoscere che Daesh ha agito così in modo deliberato, con la piena consapevolezza di come funziona l’informazione, dove conta la notizia data a caldo. Una sua smentita o correzione a distanza non arriva più all’opinione pubblica, non ne cambia la visione formata nel momento di massimo sconvolgimento emotivo. Infatti, con il passare dei giorni, il giallo del passaporto s’infittisce anziché risolversi; a quanto pare l’identità sarebbe riconducibile a un soldato di Assad morto in battaglia, in Serbia hanno registrato diversi passaporti con lo stesso nome, e un giornalista inglese ne ha acquistato in Turchia uno esattamente identico. Soltanto ieri sera la polizia francese ha lanciato un “appello ai testimoni” per identificare “l’individuo deceduto”, usando la fototessera del documento greco come fotografia segnaletica. Il passaporto siriano con i suoi dati anagrafici è stato quindi ufficialmente riconosciuto come falso solo cinque giorni dopo il suo ritrovamento. Viene invece confermata l’identificazione dell’attentatore con l’uomo sbarcato a Leros basata sulla coincidenza delle impronte digitali, di cui tuttavia non è chiaro se riguardano soltanto quelle trovate sul documento falso o anche qualche traccia rilevata dai resti corporei. È presumibile che, prima di farsi esplodere, non abbia usato i guanti noti ai lettori di vecchi romanzi di detection, ma non bisogna sentirsi Agatha Christie per ritenere che siamo caduti in un tranello sempre più simile a una sanguinosa presa in giro, mentre non sappiamo assolutamente nulla sulla vera identità del uomo-bomba, e chissà mai se avremo modo di stabilirla.
L’unica certezza, oggi, è che la manipolazione rafforzativa del terrore è servita a ottenere uno scopo. Marine Le Pen ha chiesto la sospensione immediata dell’ammissione di rifugiati in Francia, seguita dalla dichiarazione dei governatori di ben venticinque o ventisei stati americani, preceduta dal no del nuovo governo polacco che aspettava giusto un segnale per sottrarsi agli accordi UE sottoscritti obtorto collo. Le destre occidentali, sempre più capaci di orientare il discorso in ambito tradizionalmente “moderato” verso i contenuti più estremi, si rivelano non solo oggettive alleate di Daesh, ma il docile strumento che risponde ai suoi progetti con l’affidabilità prevista. Un’Europa e un mondo occidentale che diventa roccaforte dei “crociati”, non più culla e custode d’idee universali espresse nelle carte dei diritti che abbracciano qualsiasi essere umano, assolve esattamente la funzione che gli viene assegnato dalla teleologica politica di Daesh.
Come scrive Alessandro Leogrande, i peggiori nemici di quel disegno sono coloro che costituiscono la zona grigia degli “apostati”. Tra questi, s’annoverano i gestori d’origine algerina del caffè “Le Carillon”, il ragazzo egiziano gravemente ferito davanti allo stadio, il cui passaporto è stato inizialmente attribuito a un terrorista; le sorelle tunisine ammazzate sulla terrazza di un bar popolare in Rue de Charonne dove festeggiavano il compleanno, la cugina del calciatore Lasanna Diarra che quella sera era in campo con la Nazionale, il violinista algerino che stava rientrando a casa, e tante vittime di nazionalità diverse, a cominciare da quella francese. Ma accanto a queste donne e questi uomini dediti al perverso stile di vita dei “crociati”, la colpa mortale dell’apostasia tocca anche gli uomini e le donne in fuga da Siria, Iraq, Libia, Somalia, Nigeria, Pakistan e così via. In breve, da ogni parte del mondo dove è in atto uno scontro che vede coinvolti eserciti brutali, da poco o da molto affiliati al vincente outsourcing di Daesh per la realizzazione di un dominio totalitario sulle terre dell’Islam. Quegli uomini e quelle donne rappresentano uno scandalo per il solo fatto di voler fuggire dalla società perfetta che li attende come sudditi fedeli, e ancor più perché cercano riparo presso le terre degli infedeli. Vale a dire: l’Europa (e l’Occidente) che nella sua chiusura identitaria non è solo disposta a lasciarli morire sotto le bombe o marcire in condizioni disumane nei campi dei paesi arabi e africani, potrebbe in più rendersi complice di consegnarli alla vendetta punitiva dei tanto aborriti tagliagola. Viceversa l’Europa e l’Occidente che accoglie i rifugiati senza cadere nella trappola della paranoia, non dimostra soltanto di possedere dei “valori” fondativi e non solo difensivi, nonché una memoria storica che non si riduce a vuota retorica, ma esercita in aggiunta una politica immediatamente efficace per combattere l’estremismo islamista, invalidando con l’azione più concreta e pacifica la sua visione manichea. La posta in gioco è molto alta. Appare quasi matematico che se oggi respingiamo come “potenziali terroristi” persone che giungono alle nostre coste piene di disperazione e di speranza, sarà solo una questione di tempo che molti di costoro o i loro figli radicalizzati in un campo profughi, ci tornino indietro come un boomerang trasformati, stavolta sì, in jihadisti vendicativi.
Quindi anche l’argomento della sicurezza, l’argomento oggi brandito con successo dai portavoce della chiusura necessaria, conosce un’interpretazione esattamente opposta che non bisogna avere timidezza di sostenere neanche di fronte all’eventualità di un attentatore arrivato attraverso le rotte dei profughi. Questa visione non riguarda soltanto le prospettive preoccupanti per il futuro, ma può essere tradotta in proposte politiche e operative già avanzate e applicabili sin da adesso: non lasciare che i rifugiati cerchino di raggiungere clandestinamente l’Europa, alla mercé delle organizzazioni criminali – capaci anche di fornire false identità, come è stato dimostrato – e dei pericoli di morte in mare e in terra. Organizzare invece sin dalla Turchia, o in altre realtà accessibili, monitoraggi e registrazioni non emergenziali e infine trasbordi sicuri, gestiti e concertati tra gli Stati membri. Questa alternativa non sarebbe solo una scelta umanitaria o, peggio, un atto scriteriato di “buonismo”, bensì un’opzione razionale per tutelare quelle vite tanto quanto la nostra sicurezza. Basta capire che se un terrorista può arrivare con i barconi, questo accade perché di tutto ciò che succede con quei barconi, su quei barconi e prima e dopo che la gente vi s’imbarchi, la nostra politica così sensibile alle preoccupazioni popolari ha deciso, quanto meno, di lavarsi le mani.

ho deciso di non usare l’immagine del passaporto trovato a Parigi ma il montaggio satirico con cui dei siriani prendono di mira la conservazione di un documento “resistente all’acqua, al fuoco, alle esplosioni”.   
18 novembre 2015 
 
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