Un po' di ostrogoto
Art. apparsi su Tempo e raccolti nel volume Il Caos prima
e in Ostia dopo ( pp. 189-196).
Anche Moravia si
è occupato del "Satyricon", con un articolo grande come un lenzuolo
steso ad asciugare. Vi fa le sue consuete osservazioni acute, vive,
intelligenti e convincenti.
"L'Espresso"
dice, annunciando l'articolo, che Moravia ha visto in "anteprima
mondiale" il film: in realtà, come egli mi ha detto, si è trattato
semplicemente di una delle solite visioni private (di cui Fellini è
maestro), e d'una copia ancora non doppiata in cui gli attori, come mi
diceva appunto Moravia, parlano in romanesco, in svedese, in ostrogoto.
Ora, io sostengo e ho sempre sostenuto che il cinema è una "tecnica audiovisiva". Per spiegarmi, la prendo un po' alla larga.
A dimostrare che il
linguaggio del cinema è autonomo e ha una sua convenzione, o codice, un
ricercatore riportava l'esempio di un film fatto vedere a un pubblico di
selvaggi o quasi (non ricordo se esquimesi o bantú): ebbene, questi
selvaggi non avrebbero capito il film - secondo quel ricercatore -
perché essi non sarebbero stati in possesso delle chiavi del codice
cinematografico.
Ma io ricordo anche una
prima pagina di Beltrame della "Domenica del Corriere", di quando ero
ragazzo, in cui si vedeva una platea sconvolta dal terrore, perché una
locomotiva, sullo schermo, era rappresentata in modo che pareva dovesse
investire gli spettatori, che erano appunto dei semplici, dei quasi
selvaggi.
Se costoro erano così
atterriti da una locomotiva che, da uno schermo, si precipitava su di
essi, vuoi dire che qualcosa, di quella rappresentazione, capivano: solo
che confondevano il codice di interpretazione della realtà col codice
di interpretazione del cinema: cinema e realtà si identificavano come
uno stesso sistema.
Ora, se un selvaggio ha
un suo codice per "leggere" la realtà che gli passa davanti agli occhi -
mettiamo una donna che allatta un bambino - ha naturalmente anche un
codice per leggere la realtà cinematografica: ossia la stessa donna "che
allatta un bambino" ripresa dalla camera e proiettata. Egli non può che
pensare, appunto, :in tutti e due i casi: "Ecco una mamma che allatta
suo figlio: è un fatto che cade naturalmente nel dominio della mia
esperienza". Probabilmente i selvaggi di quel ricercatore erano stati
posti di fronte a un film girato in Europa, nel nostro fortunato mondo
civile, e quindi rappresentava una realtà che essi non conoscevano: essi
erano privi dunque del codice per interpretare quella realtà, non del
codice per interpretare quel film!
Se fosse stato
proiettato loro un film che avesse rappresentato la loro realtà, quella
del loro villaggio e del loro rapporto con le cose, essi l'avrebbero
capito. Ecco il punto: l'avrebbero capito certamente di meno (o
addirittura per niente) se quel film fosse stato muto (o parlato in
ostrogoto).
Voglio dire questo: che
il cinema, a livello linguistico, è audiovisivo: in quanto il codice di
interpretazione della realtà (che è appunto audiovisivo) e il codice di
interpretazione del cinema, in gran parte, coincidono.
A livello estetico (si
sa che le convenzioni estetiche sono sempre restrittive e selettive) si
possono fare dei film muti: e fare dei capolavori assoluti (Dreyer, e
più ancora Murnau, o Buster Keaton). Se un uomo si presenta ai nostri
occhi e tace, noi lo interpretiamo in un modo (secondo la nostra
esperienza); se un uomo si presenta ai nostri occhi e parla in una
lingua ignota, noi lo interpretiamo in un secondo modo; se un uomo si
presenta ai nostri occhi e parla nella nostra lingua, noi lo
interpretiamo in un terzo modo. Questo terzo modo può essere totalmente
diverso dal primo e dal secondo: perché il momento "parlato" può
alterare totalmente il momento "visivo". Quante, dolorose o gioiose
sorprese abbiamo avuto, non appena una creatura, dopo aver taciuto per
un po', ha aperto bocca!
In conclusione: il mio
carissimo Alberto ha compiuto un errore critico sostanziale, parlando di
un film senza capire quel che i personaggi dicevano: errore fondato
sulla persuasione, retorica, che il cinema sia immagine. Fellini che è
un mago come Herrera, sa benissimo tutto questo.
Tempo, n. 37 a. XXXI, 13 settembre 1969
Caro Pier Paolo
a proposito del
mio articolo sul "Satyricon" di Fellini mi hai accusato di essere
incorso in un errore sostanziale parlando del film senza capire quel che
i personaggi dicevano. In realtà il film che ho visto non era muto e io
ho capito quello che i personaggi dicevano perché parlavano in lingue
che conosco. Piuttosto bisognerebbe intendersi sul significato della
parola "audiovisivo". Anche il teatro, è audiovisivo. Lo spettatore, a
teatro, guarda e ascolta. Ma il testo teatrale può essere letto senza la
rappresentazione perché ha un valore letterario ossia estetico. Questo
non si può dire delle sceneggiature se non in casi rarissimi.
É evidente che
noi al cinema guardiamo e ascoltiamo come nella realtà. É evidente pure
che la parola rende più "completa" l'immagine. Ma non sono altrettanto
sicuro che la renda "diversa", come mostri di credere. E questo,
appunto, perché la parola al cinema non ha una funzione espressiva cioè
estetica ma informativa. D'altra parte tu dici che "il cinema a livello
linguistico è audiovisivo: in quanto il codice di interpretazione della
realtà (che è appunto audiovisivo) e il codice di interpretazione del
cinema in gran parte coincidono". Ora io penso che il cinema va
decodificato soltanto a livello estetico. A quel livello la parola, nel
cinema, o conta poco o non conta nulla. E infatti tu ammetti che a
livello estetico si possono anche fare dei capolavori muti. Ma che vuol
dire questo se non che il codice di interpretazione della realtà e il
codice di interpretazione del cinema non coincidono?
Naturalmente la parola è
suono. E qui siamo d'accordo. Il cinema è immagine e suono. Un film
giapponese parlato in giapponese (cioè in una lingua che non conosco) mi
sembra più vero, più plastico, più completo e insomma più giapponese
dello stesso film giapponese parlato in svedese (altra lingua che non
capisco). E questo perché la lingua giapponese come "suono" rende più
completi e più giapponesi gli interni, i personaggi, gli eventi
giapponesi. Per questo io sono contrario al doppiaggio in una lingua
diversa da quella originaria.
Detto questo non
pretendo davvero di avere ragione. Vorrei soltanto che tu facessi le
debite distinzioni tra la parola che esprime e la parola che informa.
Tra il livello linguistico e il livello estetico. Tra la realtà e la
rappresentazione. La parola al cinema potrebbe benissimo, è vero, essere
altrettanto e anche più espressiva dell'immagine. Ma allora sarebbe un
doppione dell'immagine.
Amichevolmente il tuo Alberto Moravia
Caro Alberto
mi sembra, per dirti la
verità, che anziché rispondere ai miei appunti, non hai voluto far altro
che ribadire, nel tuo biglietto, le tue precedenti opinioni. Noi siamo
testardi, e va bene; se non fosse così non avremmo neanche un nostro
sistema esclusivo che è sempre chiuso da barriere, fossati, e magari
anche da barricate.
A me sembra che tu a
proposito del cinema, del teatro, ecc., continui imperterrito a essere
un illuminista e un positivista, che ha, giustamente, ignorato Croce. E
fin qui, tutto in comune tra noi due. Ma da qui in poi si apre una...
diacronia. Naturalmente, son convinto di essere nel giusto io: per la
semplice ragione che ho seguito alla meno peggio l'evolversi delle
scienze linguistiche e semiologiche, mentre tu, meno interessato a
questi problemi, per tante ragioni, ignori tale evolversi. Ciò ti
costringe a giudicare i fatti estetici solo sul piano estetico.
Tu giudichi dunque i
film solamente come puro fatto estetico. Mentre, come ogni altra
espressione "metalinguistica", i film presuppongono anche un approccio
di carattere puramente linguistico (o meglio semiologico): che non è
obbligatorio, s'intende. Ma, una volta che si sia accettato di
affrontarlo, bisogna farlo con chiarezza, possibilmente. Tu ti sei
lasciato trascinare da me a discutere al livello linguistico e
semiologico sul cinema; ma non ti sei accorto ingenuamente che, a tale
livello linguistico e semiologico, tu hai continuato a usare modelli di
giudizio estetico o genericamente culturale. Il che significa che con un
grammatico che parla di "aggettivi", appunto da grammatico, tu ti metti
a discutere sul valore "formale" degli aggettivi. Il grammatico ti
guarderebbe stupefatto. Che gliene importa a lui se l'aggettivo "bello" o
"brutto" è usato esteticamente e culturalmente al modo giusto? Per lui
"bello" e "brutto" sono due aggettivi qualificativi e basta.
Ora, io penso che un
critico non possa ignorare la grammatica, anche se il fine del suo
giudizio sia estetico. Io devo sapere, come critico letterario, non solo
che "bello" e "brutto" sono due aggettivi qualificativi ecc., ma devo
conoscere anche le più impensabili sottigliezze del codice grammaticale
(che non è solo quello che si impara a scuola; e che è descrittivo, e
non normativo, non normativo, caro Alberto!
Così per il cinema: io
sarò un miglior critico a livello estetico quanto più sarò un
intenditore di grammatica cinematografica: ossia saprò tanto meglio
analizzare i fatti formali quanto più saprò farne anche un'analisi
grammaticale.
La grammatica del cinema
è ancora da fare; ma, da qualche anno, la semiologia da una parte e la
teoria delle comunicazioni dall'altra, hanno aperto straordinarie
possibilità di sapere cos'è il cinema come "sistema di segni".
Ecco, la ridefinizione
di ogni forma di comunicazione, ivi compresa la lingua scritto-parlata,
come "sistema di segni", è stata la grande rivoluzione di questi anni,
che non può, come fai tu, essere ignorata. La nozione di "sistema di
segni", applicata al cinema e al teatro, vanifica le costruzioni
pseudo-razionali sul cinema e sul teatro, costruite a puro livello
estetico o genericamente culturale, cui tu sei ancora fedele.
Naturalmente le tue idee valgono per la loro intelligenza, non per la
loro attendibilità.
Come "sistema di segni"
il cinema ha, tra le altre caratteristiche, quella di esser
"audiovisivo". Ciò è un dato di fatto. Vorresti per caso discuterlo? Al
cinema (non dico, bada bene, nei film) i personaggi parlano. Il
semiologo potrebbe scrivere volumi su tale fatto. Io riassumo la cosa
così: il cinema è un sistema di segni, in cui la realtà di un "uomo che
parla" è espressa, anziché attraverso un simbolo, attraverso quello
stesso "uomo che parla". E quindi lo spettatore "riconosce" quell'uomo
(giovane o di mezza età, milanese o napoletano, cretino o intelligente,
operaio o piccolo borghese ecc. ecc.) attraverso lo stesso codice con
cui mi riconosce un analogo uomo nella realtà.
Tutto questo è detto al
di fuori di ogni giudizio estetico. Al semiologo del cinema non
interessa se "quell'uomo che parla" sia esteticamente o culturalmente un
valore: per lui è un "uomo che parla" e basta, come per il grammatico
"bello" o "brutto" sono due aggettivi qualificativi e basta.
Oh, e adesso veniamo (saliamo o scendiamo) al livello estetico.
In un film (non dico
più, ora, nel cinema) "un uomo che parla", esteticamente, è una forma.
Puoi ignorare la volontà dell'autore di aver dato una "forma" attraverso
una tecnica audiovisiva - l'immagine dell'uomo e la sua parola? No, non
puoi ignorare questo. Non puoi operare una dissociazione che fa solo
comodo a te! Non puoi ignorare la totalità di quella forma. Essa, come
diresti tu, "è quella che è": se tu ne ignori o ne scindi un solo
elemento, non è più se stessa: cioè non è più una forma, che è sempre il
campione di una totalità, ed è sempre autonomamente esaustiva di una
realtà.
La forma "uomo che
parla" (nella fattispecie un napoletano biondo che parla in svedese,
mettiamo) richiede un giudizio che tenga conto dell'equilibrio di tutto
ciò di cui è composta. Potrei farti uno scherzo, se avessimo soldi e
tempo da perdere: girerei una scena, e poi la doppierei, non dico con
parole diverse, ma con sfumature di intonazioni diverse. Ebbene,
vedresti, molto semplicemente, che quella scena non sarebbe più la
stessa scena, sia a livello dell'espressione che a livello
dell'intonazione.
No, caro Alberto, vieni
con me a un turno di doppiaggio, e poi vedrai che la parola non completa
soltanto l'immagine, ma la rende "formalmente" diversa.
E smettila di pensare
dunque che il cinema vada decodificato solo a livello estetico, perché,
scusami, è impossibile: è impossibile fingere che il cinema non sia un
"sistema di segni", e che i film, solo i film, siano metalinguistici,
cioè consentano una interpretazione estetica. E smettila anche di
pensare che le parole nelle sceneggiature non abbiano un valore
letterario ossia estetico.
Perché ciò mi offende
personalmente: e non me ne importa niente di essere eventualmente uno di
quei casi rarissimi di cui parli. Ci sono: e questo per me, ahimè, è
importante.
Tempo, n. 39 a. XXXI, 27 settembre 1969
Caro Pier Paolo
non è vero
niente. Non mi sono lasciato trascinare da te a discutere di cinema a
livello linguistico e semiologico. Come non mi lascerei trascinare a
discuterne a livello sociologico, a livello psicanalitico, a livello
politico, a livello antropologico, a livello ideologico e così via.
Tutti livelli legittimi almeno quanto quello linguistico. Del resto non
sono entusiasta neppure del livello estetico che ho citato forse per
pigrizia. Non posso dimenticare infatti che non molti anni fa la critica
peggiore decodificava, appunto, l'opera d'arte a livello estetico.
Diciamo
piuttosto che il solo livello al quale bisogna tenersi è quello
dell'intelligenza delle cose. Anche tu sembri pensarlo quando dici che
le mie idee valgono per la loro intelligenza, non per la loro
attendibilità.
Quanto al fatto che io
ignorerei "l'evolversi delle scienze linguistiche e semiologiche",
vorrei ricordarti che ho scritto addirittura una commedia sul problema
se per cambiare il mondo basta cambiare le parole oppure bisogna
cambiare la realtà: "Il mondo è quello che è".
Secondo me, applicare la
nozione di sistema di segni al cinema, al teatro e in genere all'arte è
una operazione conservatrice. Anche la realtà sociale sarebbe un
sistema di segni. E allora, addio contestazione.
Il tuo Alberto Moravia
Caro Alberto
d'accordo, occorre prima
di tutto l'intelligenza delle cose. Ma avrai notato come tutti coloro
che si basano esclusivamente sull'intelligenza delle cose sono degli
sciocchi. Bisogna sempre avere un pretesto, che è poi una mediazione
culturale per quanto illusoria; bisogna sempre essere specialisti (la
parzialità può essere esaustiva) anche sapendo che la specializzazione
non è che un "movimento di approccio", come nei riti delle antiche
"sofie".
Perché dici che la
nozione di "sistema di segni" applicata ai mezzi di comunicazione è
un'operazione conservatrice? Lo è; in certo modo, se fai coincidere la
parola sistema con la parola struttura come la usa Lévi-Strauss, il
cartesiano, il razionalista, il matematico; ma pochi l'usano così. Ogni
sistema o struttura è in realtà un processo. Tu, dicendo per deduzione
"anche la realtà sociale sarebbe un sistema di segni", dici quello che
dico io già da anni, impotente di andare oltre a simile definizione. Ma
non ho mai detto che si tratti di un sistema di segni immobile! Fosse
pure un'entropia coi suoi valori assoluti, viene sempre il momento in
cui essa produce, dall'interno di se stessa, i nuovi valori, e quindi i
nuovi segni. Dici: addio contestazione! Ma lo sai benissimo: il
linguaggio della contestazione si produce dall'interno del linguaggio
dell'establishment, così come il messaggio espressivo di un poeta si
produce dall'interno del codice linguistico. Ma insomma, è vero, ciò che
importa è che ci sia prima di tutto la crudele, aristocratica grazia
dell'intelligenza delle cose.
Tempo, n. 40 a. XXXI, 4 ottobre 1969
Testi ripresi da http://videotecapasolini.blogspot.it/
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