29 novembre 2015

LO STUDIO DEI GRANDI ARTISTI




Lo studio come specchio dell'animo dell'artista.
Franco Marcoaldi

Spiando il maestro all'opera nel suo studio
Qualche anno fa uscì un bel libro di Michael Peppiatt sullo studio parigino di Alberto Giacometti. «Tra quelle quattro mura», sosteneva il critico, «erano visibili tutte le diverse tracce della battaglia intrapresa dall'artista nel corso di quarant'anni di indefesso lavoro per esprimere una peculiare visione dell'uomo».
Insomma, niente di meglio del famoso "buco" di rue Hyppolite, per capire l'amore di Giacometti per l'ombra, oltre che per una vita povera, spoglia, monacale. Quello studio grigio e polveroso, in un edificio dall'aspetto derelitto, «era allo stesso tempo teatro e archivio, scenario di sublimi realizzazioni e, cosa forse ancor più interessante, deposito di ripetute sconfitte ». Ecco perché la sua visione, e la sua accurata descrizione, rappresentano – secondo Peppiatt – il modo migliore per affrontare il labirinto Giacometti.

A pensarci bene, non accade lo stesso con tutti gli artisti? Il loro studio-antro, o stanza dei giochi e degli incubi, o Wunderkammer, che si trasforma in personalissima fabbrica d'arte, non è forse lo specchio più fedele della loro anima? Ci sarà una ragione se la "familiarità" degli oggetti raffigurati da Giorgio Morandi si andava accumulando nel contesto altrettanto familiare della sua casa bolognese, dove l'artista viveva con madre e sorelle. Per contro: il caos assoluto dello studio londinese di Francis Bacon, con fotografie e tele stracciate e calpestate, abbandonate a terra al loro destino, non rimanda in qualche modo alle disiecta membra dei corpi martoriati che compaiono sulle sue tele? E l'immagine del radioso studio di Calder a Parigi, non rivela immediatamente qualcosa della sua specialissima arte – così aerea, gioiosa, circense?

    Courbet, La bottega del pittore
Per non parlare poi di tutti gli innumerevoli casi in cui lo studio, l'atelier, diventa esso stesso soggetto dell'opera. A partire dal misterioso quadro di Courbet, La bottega del pittore , affollato delle persone più diverse («è il mondo che viene a farsi dipingere da me»), per arrivare al nostro Gianfranco Ferroni, dove l'umano invece è ormai scomparso e sulla moquette del proprio spazio di lavoro rimangono soltanto cicche di sigaretta, fili della luce strappati, bottiglie rovesciate.
La questione del rapporto studio-artista, con la ricostruzione dello spazio creativo, si ripropone ora nella mostra di Villa Manin dedicata all'ultima fase di Miró, quella del suo trasferimento a Maiorca. Finalmente il sogno di un grande ambiente suo e solo suo sta per realizzarsi. La moglie di Miró – si legge nel catalogo – convince l'amico e architetto Josep Lluís Sert a disegnare un edificio che combini i tratti della nuova architettura razionalista con il gusto mediterraneo.

    Mirò nel suo studio

La luce naturale viene sfruttata al massimo grazie a "lucernari zenitali", in ambienti che dialogano costantemente con il territorio circostante. Stilemi tradizionali si alternano all'uso del calcestruzzo a vista. E, non pago di questo spazio tanto grande e luminoso, nel 1959 Miró acquista anche una costruzione maiorchina a poche centinaia di metri dalla precedente, dove poter «creare tele e sculture monumentali oltre che per decongestionare lo studio».
A suo tempo, Leonardo da Vinci aveva sostenuto che lo studio dell'artista «dovrebbe essere piccolo, perché gli spazi piccoli favoriscono la concentrazione mentale, mentre quelli grandi spingono alla distrazione ». Miró, evidentemente, non la pensava allo stesso modo.
La repubblica – 18 ottobre 2015

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