Simone Weil
La riflessione critica di Simone Weil in Oppressione e libertà, raccolta di testi composti fra il 1933 e il 1943.
Alberto Leiss
Simone Weil, un corpo a corpo con il
lungo Novecento
Nel Preludio ad una
dichiarazione dei doveri verso l’essere umano, il capolavoro
scritto a Londra poco prima di morire mentre infuriava la
seconda guerra mondiale — tradotto in Italia da Franco Fortini con
il titolo La prima radice (L’enracinement) — Simone Weil scrive,
com’è noto, una definizione demolitrice del marxismo. Un
«miscuglio di idee confuse e più o meno false», al quale
«da Marx in poi, hanno contribuito quasi esclusivamente mediocri
intellettuali borghesi». Qualcosa di «inassimilabile»
e inutilizzabile dagli operai ai quali pure sarebbe rivolto, in
quanto «spoglio di ogni valore nutritivo, perché è stato
svuotato di quasi tutta la verità contenuta negli scritti di Marx».
E’ evidente la
distinzione tra Marx e il marxismo, cioè soprattutto le
declinazioni ideologiche, e anche dogmatiche del suo pensiero
che la Weil aveva di fronte nei partiti comunisti e socialisti
europei e nel regime stalinista in Urss. E tuttavia la sua
analisi fu spietata anche nei confronti delle teorie dell’autore
del Capitale.
Una rivisitazione del
profondo e complesso rapporto tra Simone Weil e Karl Marx
è ora più agevole grazie alle nuove traduzioni in italiano nel
libro Oppressione e libertà (edizioni Orthotes,
introduzione di Lia Cigarini e Luisa Muraro, pp. 218, euro 18),
che riprende il francese Oppression et libertè, pubblicato da
Gallimard nel 1955. Vi si possono leggere non solo il famoso saggio
Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione
sociale, ma numerosi articoli, appunti, abbozzi e frammenti,
scritti tra il 1933 e il ’43, ultimo anno di vita della Weil,
diversi dei quali introvabili da decenni, fino al testo incompiuto
Esiste davvero una dottrina marxista? che potrebbe essere il suo
ultimo saggio.
Una vicenda del secolo
breve
Questi scritti, legati
dal filo rosso di un dialogo costante con Marx, sono introdotti da
Lia Cigarini e Luisa Muraro, della Libreria delle donne di
Milano, esponenti di un femminismo che fin dalle sue origini
riattualizza l’opera e la vita di Simone Weil (il titolo del
libro che ne racconta la storia e le pratiche politiche, Non
credere di avere dei diritti, è una citazione della Weil).
Perché questi testi che giungono dalla fase più buia e tragica
del secolo scorso ci parlano ancora, e con grande intensità?
Perché – rispondono
Cigarini e Muraro – il «secolo breve» aperto dal 1914 in
realtà è assai lungo: «non un solo capitolo della storia del
ventesimo secolo può ancora considerarsi risolto». Né il perché
della grande guerra che ne generò una seconda, con l’aggressività
di un colonialismo di cui si scontano ancora oggi gli effetti con
l’incombere di una «terza guerra mondiale a pezzetti», né
la effettiva capacità «autoregolativa» del mercato capitalistico,
né l’esito delle trasformazioni prodotte dalla rivoluzione delle
donne. In definitiva resta in questione il destino della grande
speranza di liberazione che ha percorso a ondate il mondo.
Il dialogo di Simone Weil
con Marx va alla radice di molti di questi interrogativi. Ne legge
gli scritti e il Capitale da adolescente. E subito –
scriverà molto più tardi – «alcune lacune e contraddizioni
di prima importanza mi saltarono agli occhi». Pensava,
quell’adolescente, che certamente «tanti grandi spiriti che
avevano aderito al marxismo» le dovevano aver viste e colmate.
Ma non era così. A cominciare da quella per lei più vistosa,
la contraddizione «evidente, eclatante, tra il metodo d’analisi di
Marx e le sue conclusioni. E non c’è da meravigliarsi:
egli infatti, ha elaborato le conclusioni prima del metodo. La
pretesa del marxismo di essere una scienza è quindi del tutto
bizzarra». Ma ciò nonostante Simone è irresistibilmente
attratta, è come ipnotizzata dal pensiero e dalla
scrittura di Marx.
Una immagine descritta
nella biografia di Simone Pétrement (La vita di Simone Weil,
Adelphi): la Weil, insegnante di filosofia, che durante la
ricreazione tra una lezione e l’altra è notata da un
ispettore scolastico seduta in aula, china a leggere Marx.
«Aveva il volto pieno di macchie di inchiostro. Quando le allieve
rientrarono in classe, si sforzarono di far bella figura davanti
all’ispettore per cancellare l’impressione sgradevole che poteva
aver prodotto l’aspetto della loro insegnante». Che ammiravano
intensamente.
Un cuore generoso
Simone stava lavorando
alla Riflessione sulle cause della libertà e dell’oppressione
sociale, si distaccava dai compagni sindacalisti rivoluzionari, e già
meditava di lasciare la scuola per provare il lavoro in fabbrica
(1934–1935).
Che cosa l’attraeva
dell’opera di Marx? La scoperta geniale di un nuovo metodo per
l’analisi della società, con il ruolo fondamentale dei rapporti di
forza. E forse ancor più la spinta etica – così simile alla
sua – e l’indignazione per le sofferenze subite dagli
operai. Il suo – scrive nell’ultimo saggio incompiuto che nega
l’esistenza di una «dottrina marxista» – era un «cuore
generoso. Lo spettacolo dell’ingiustizia lo faceva soffrire
realmente, si può anzi dire carnalmente soffrire». Una sofferenza
che probabilmente gli avrebbe impedito di vivere, se non avesse
potuto credere in un futuro di liberazione. Ecco il motore di quella
teoria – che pretende di essere scientifica ma è indimostrabile
– secondo la quale il proletariato avrebbe liberato l’umanità
intera.
Ma Marx – ripete in
tanti passaggi la Weil – aveva anche saputo vedere l’origine
dell’oppressione in quelle «funzioni» del governo dello stato
e della produzione – apparati repressivi e burocratici,
organizzazione di fabbrica, divisione tra lavoro manuale
e intellettuale – che, dirà più lucidamente Weil, non sono
legate direttamente alla proprietà. E che infatti si sono
tragicamente riprodotte nello stato che aveva abolito la proprietà
privata dei mezzi di produzione. Uno stato – litigherà a viso
aperto con Trotzky – che quindi non poteva più definirsi
«operaio».
Perché – come
sottolineano Cigarini e Muraro – la vicinanza anche fisica
e affettiva della Weil con gli operai, con gli oppressi,
rovescia la soggettivazione collettivistica, «di classe», del
marxismo e delle sue vulgate: «noi vogliamo fare
dell’individuo, e non della collettività, il valore supremo»,
scrive Weil nell’articolo Prospettive (1933). Per cui «la
subordinazione della società all’individuo, ecco la definizione
della vera democrazia e anche quella del socialismo».
Ci sarà, nel ’38, la
svolta religiosa: l’insanabile contraddizione tra la necessità che
costringe gli uomini, e il bene che gli uomini desiderano ma non
sanno riconoscere, colloca l’origine del bene nel «soprannaturale».
Per Cigarini e Muraro ci può essere una risposta politica
diversa: il potere simbolico della parola può cambiare i rapporti
di forza «in relazioni in cui scorra un filo di libertà». Simone
comunque non interruppe mai il confronto con Marx: tra le sue carte
forse l’ultimissimo appunto recita «Se Marx avesse saputo…
Angoscia; Marx e Platone». Del resto aveva indicato, anni
prima, i rari uomini che cercano di conoscere il «bene
assoluto»: «spiriti di diversissimo valore, quali Platone, Pascal
e, per quanto possa sembrare strano, Marx»
il manifesto – 26 novembre 2015
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