30 novembre 2015

R. GIRARD CRITICO LETTERARIO



René Girard e la teoria letteraria

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di Daniele Giglioli
[Il testo che segue è stato letto al convegno Identità e desiderio. Desiderio, rivalità, violenza e riscatto nella letteratura e nella vita, tenutosi a Falconara Marittima il 11-12 marzo 2006, ed è poi confluito in Pierpaolo Antonello, Giuseppe Fornari (a cura di), Identità e desiderio. La teoria mimetica e la letteratura italiana, Transeuropa 2009]
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Presento qui una serie di appunti sul rapporto tra la teoria mimetica di Girard, come si manifesta per la prima volta in Menzogna romantica e verità romanzesca, e quella galassia intellettuale che dagli anni sessanta del Novecento siamo abituati a chiamare “teoria” – prima teoria letteraria, poi teoria tout court. Un rapporto possibile, e in buona parte ancora a venire, perché dopo un iniziale periodo di contiguità le due strade hanno proceduto su direttrici diverse e distanti. Le pagine che seguono sono il tentativo di ridurre la distanza e di mostrare come in realtà quelle strade si intersechino in più punti.
I
Il punto d’avvio non può essere che il concetto di mimesi. Imitazione di qualcuno, secondo Girard, o rappresentazione verosimile di qualcosa, secondo una batteria di precetti aristotelici che restano sostanzialmente vigenti almeno fino alla fine del diciottesimo secolo, e che recitano ancora un ruolo importante, non foss’altro che come testa di turco, nella teoria letteraria novecentesca. Imitazione e rappresentazione, del resto, erano già considerati da Aristotele concetti fortemente apparentati. Nascono dallo stesso istinto, sono la prima e più importante forma di apprendimento (i bambini imitano gli adulti), e ricapitolano in sé funzione estetica e funzione cognitiva perché apprendere è piacevole e tutti gli uomini naturalmente desiderano sapere. Non a caso ci riescono piacevoli anche le imitazioni di cose che nella realtà ci darebbero paura o disgusto, come una belva o un cadavere. Tanto più che per Aristotele la poesia è essenzialmente imitazione di azioni, e dunque di un segmento della realtà umana, non di una generica e indistinta natura. Si imitano sempre le azioni di qualcuno, migliore o peggiore di noi, e questo ridefinisce anche il posto del soggetto, la situazione dell’osservatore, la sua implicazione nell’universo della praxis.
Imitazione e rappresentazione convivono senza troppi drammi anche in quella feconda dislettura della poetica aristotelica che è stato il classicismo antico e moderno. L’imitazione diventa imitazione della natura, ma anche degli autori, degli antichi, dei classici; ancora una volta, dunque, di qualcosa e di qualcuno al tempo stesso. L’ambiguità è solo apparente. Poiché gli antichi erano più vicini alla natura (alla bella natura, alla natura come essenza e non come apparenza, come mero fenomeno sensibile), quanto più ci si approssima al loro modello tanto più ci si accosta alla natura stessa. Un castello teorico di durata plurisecolare, che pur scosso alle fondamenta dalle dottrine romantiche, decadenti e poi avanguardistiche, e dalle teorie letterarie del primo Novecento (i formalisti russi, lo strutturalismo praghese, secondo cui l’arte è una lotta tra forme o una dialettica tra codici), continua ad informare fino agli cinquanta prospettive autorevoli come quelle di Lukács e di Auerbach, ancora attivi al tempo in cui Girard e la koiné teorica strutturalista muovono i primi passi.
II
Con l’avvento degli anni sessanta, però, il paradigma mimetico (nel senso letterario del termine) entra decisamente in crisi. Il realismo diventa una tecnica, il predominio di una serie di procedimenti stilistici, nel migliore dei casi un’ideologia. Già Lucien Goldmann non parla più di imitazione o di rappresentazione ma di omologia tra strutture retoriche, strutture ideologiche e strutture sociali. Il modello pittorico (ut pictura poësis) viene accantonato: nessuna somiglianza sensibile, ma piuttosto un’omogeneità di dispositivi simbolici; un testo, una cultura e una società dati funzionano secondo procedimenti analoghi, e più realista è quell’opera che meglio riesce a metterli in luce.
All’altezza di Menzogna romantica e verità romanzesca, Girard è da questo punto di vista molto vicino a Goldmann. I romanzi, i grandi romanzi, i romanzi realisti, i romanzi che dicono la verità, non copiano la realtà sociale ma piuttosto la smascherano in quanto sono fatti allo stesso modo, sulla base di un medesimo meccanismo, che è poi il meccanismo del desiderio mimetico. Più che riprodurre la realtà, esibiscono la sua stessa struttura. Sono realisti – mimetici, omologhi – perché inscenano il dispositivo mimetico, la presenza del mediatore, il suo occultamento e la sua rivelazione. Il principio imitativo è già interno alla realtà stessa in quanto realtà umana. Realismo è far emergere in piena luce la natura mimetica del desiderio, la sua falsa innocenza, la sua natura triangolare. Un romanzo coglie tanto più veridicamente la realtà sociale quanto più si incentra sulla rivelazione della modalità mimetica che ne è alla base. Imitazione di una imitazione, il romanzo è una rappresentazione riuscita se e solo se rappresenta il modo distorto attraverso cui gli attori sociali si rappresentano i loro processi imitativi. La rappresentazione di qualcosa è efficace solo se si pensa come una messa in scena dell’imitazione di qualcuno, mentre il mondo sensibile rappresentato, il mondo degli oggetti, delle cose e della natura, non è altro che la posta in gioco di un rapporto tra soggetti imitanti.
III
Fino a qui nulla di inedito. Più sorprendente è invece riscontrare quanto questa idea di Girard abbia molti punti di contatto con le teorie di Harold Bloom, le quali, pur fiorite in quello stesso periodo e come risposta a una stessa crisi del paradigma imitativo tradizionale, attingono però a un retroterra culturale e filosofico che non potrebbe essere più diverso. Anche secondo Bloom, infatti, il motore primo dell’agire poetico è l’imitazione (sia pure perversa) di qualcuno, e va cercato in quel rapporto di emulazione, rivalità e trasformazione che ogni “poeta forte” instaura con il proprio precursore. Non conta cosa si imita ma chi, in una spirale dominata da un oscuro e gnostico senso della temporalità che vede la storia come una perenne riscrittura/dislettura di un patrimonio autorevole, e in quanto tale nello stesso tempo amato e odiato. Il precursore è un modello, e dunque insieme una guida e un rivale, un padre da venerare e da uccidere, una legge resa sacra proprio dal fatto che la si infrange. Anche qui, come in Girard, l’oggetto reale è solo il pretesto di una contesa, e in questa contesa sta la vera essenza, il contenuto di verità della letteratura. L’imitazione non è il fine della rappresentazione, ma la sua causa, il suo lievito, la sua entelechia.
IV
Nella prospettiva di Bloom, la letteratura si fa in primo luogo con la letteratura, imitando altra letteratura. Un assunto destinato, sia pure per altre vie, a dominare la teoria letteraria degli anni sessanta. Certo, posto così Girard non lo sottoscriverebbe mai: ma le affinità sono innegabili. Cos’altro è infatti per Girard la grande letteratura se non la messa in scena della narrazione fallace e menzognera che il soggetto romantico fa di sé? Rilettura e riscrittura di un mito (e cioè di una falsa coscienza; notiamo di passata l’affinità con il Barthes delle Mythologies), la letteratura è anche per Girard un fenomeno costitutivamente dialogico e intertestuale, anche se lui non accetterebbe mai l’estremismo con cui Julia Kristeva ha derivato (un po’ semplicisticamente, a dire il vero) il concetto da Bachtin, nell’intento di sostenere che dall’altra parte della rappresentazione letteraria non c’è l’oggetto reale, il referente, ma una fuga infinita di codici, come chioserà superbamente Barthes in S/Z. C’è invece la parola dell’altro, un fantasma di desiderio che sorge dalle parole di chi ha parlato prima di te. Il “reale” dell’opera d’arte è in questa prospettiva totalmente omologo a ciò che Lacan chiamava l’immaginario. Il “reale” è lo specchio (metafora chiave di tutta la storia del realismo) in cui ti sdoppi, ti riconosci e ti alieni in quanto altri venuti prima di te lo hanno già guardato e  investito del loro desiderio. Reale è l’immaginario in quanto unico vero reale è il desiderio dell’altro. Lo sguardo del soggetto sul mondo è sempre uno sguardo entravé, impedito, ostacolato dalla sua radicale e originaria esposizione allo sguardo altrui; e lo stesso accade alla sua parola, già sempre implicata e precompresa nella parola dell’altro. Non c’è un prius del soggetto al di qua della mimesis, non c’è un referente che prescinde dall’imitazione.
Sarebbe d’accordo Girard con questi enunciati? Se così fosse avremmo un Girard non troppo lontano dalla decostruzione, mentre lui si è sempre voluto un realista. E certo, anche se subordina l’oggetto al mediatore, non Girard non nutre dubbi circa la realtà del reale, ed è fautore di un’estetica e di un’epistemologia realista. La sua teoria, soprattutto quella sviluppatasi a partire da La violenza e il sacro, non si percepisce come un modello, un idealtipo, un’interpretazione, ma come il rispecchiamento più fedele della realtà umana in quanto mette in luce, smascherandola, la logica immanente su questa cui si fonda, la rivalità mimetica che conduce alla mistificazione sacrificale.
Si tratta però di un realismo d’essenza, non di fenomeni. I fenomeni senza teoria mentono, la natura delle cose ama nascondersi. Se il romanzo è imitazione di un’imitazione, la teoria è per così dire la sua coscienza dall’esterno, una coscienza che non potrà mai assurgere al grado di autocoscienza se non si libera dalle pastoie della rappresentazione. Realismo è andare oltre la rappresentazione che il desiderio mimetico fa di se stesso. E si tratta di un realismo che opera per via di levare, che toglie veli, che demistifica, che nega sostanza al referente e scava e retrocede fino a trovare che cosa? Il desiderio, e cioè una mancanza, un vuoto, un non essere, una relazione, un conflitto cui l’oggetto fa soltanto da pretesto.
V
E’ questo il più forte punto di contatto con la decostruzione. Con il suo retroterra filosofico, intanto, e cioè con quella che è stata chiamata da Paul Ricoeur “la scuola del sospetto”, la triade Marx/Nietzsche/Freud, e con la critica all’idea dell’essere come presenza che informa il pensiero di Heidegger. Le cose non sono come sembrano, come dicono, come desiderano di essere. Le cose, forse, non sono nemmeno come sono. Sollevato il velo di Maia – la falsa coscienza della rappresentazione, dell’ideologia, del mito, della metafisica – si accede a un’idea di verità intesa in primo luogo come distruzione della menzogna, come necessità dello scandalo, come pietra d’inciampo della cultura. Realismo è smascheramento, è il teschio sotto la vanitas, non consiste nell’imitare apparenze ma imitazioni di apparenze, e cioè menzogne. E’ mimesi della mimesi, è mimesi contro la mimesi, per parafrasare quel “teatro contro il teatro” che era secondo Georges Didi-Huberman il grande apparato messo in atto da Charcot alla Salpêtrière per intercettare il desiderio delle sue isteriche. Realismo è la decostruzione del mito che vuole il desiderio innocente e la vittima sacrificale colpevole. La verità, più che dietro si trova dentro la menzogna, perché la menzogna è la verità dei rapporti umani imprigionati nella trappola della mediazione.
Ora, cosa significa questo se non che la verità viene dopo la menzogna? La menzogna, e non la verità, si trova all’origine della cultura umana, delle sue rappresentazioni e della sue istituzioni. Non è qualcosa che sfigura il soggetto, che lo strappa da un suo supposto stadio di purezza primitiva, ma piuttosto un dispositivo che lo costituisce, che lo fonda sia come individuo (il desiderio) che come collettività (il sacrificio come protorito). Non è una degradazione dell’origine: è l’origine stessa; un’origine zero, un vuoto fondativo che può essere appreso e rappresentato, direbbe Derrida, solo attraverso una catena infinita di supplementi, di sostituzioni imperfette e di aggiunte insufficienti. Non c’è una “cosa reale” da cui tutto si genera: c’è solo una catena di sostituzioni, linguistiche per Derrida, sacrificali per Girard. E non c’è alcuna autenticità da rappresentare, giacché autentica è solo la mediazione. La cultura stessa nasce come menzogna addomesticata, contrattata, santificata. La mediazione imitativa, e cioè la condanna alla non-originalità, è essa stessa l’unica origine possibile.
VI
Non è per questo d’altronde che anche ciò che le si oppone in nome della verità – il romanzo da un lato, l’antisacrificio di Cristo dall’altra – può operare soltanto mimando i procedimenti della menzogna? Il romanzo imita la realtà sociale in quanto trionfo del desiderio mediato. La morte di Cristo sulla croce, l’innocente che smonta e decostruisce il mito della colpevolezza della vittima, mima le forme e le modalità del sacrificio reale. Le mima alla lettera, non per metafora. E non reca in sé alcun segno visibile, alcuna marca distintiva che ne definisca in modo inequivoco il valore illocutivo: per poterla individuare, è necessario ricorrere a una cornice esterna all’enunciato. Solo la convenzione paratestuale distingue il romanzo da una storia vera – e non a caso, al tempo in cui lottava per farsi largo nel sistema dei generi, il romanzo ha giocato perversamente con questa ambiguità presentandosi, lungo tutto il diciottesimo secolo, nella forma del manoscritto ritrovato. Analogamente, solo il kerygma neotestamentario e poi paolino della fede nella risurrezione distingue la messa in scena del sacrificio da un sacrificio reale. Proprio come il romanzo, la passione di Cristo ha uno statuto ontologico estremamente problematico. Da una parte è un vero sacrificio, perché Cristo nella sua natura umana muore per davvero – almeno nell’ortodossia cristiana, che rigetta come eretici i tentativi monofisiti di sostenere che sulla croce fu esposta in realtà solo un’immagine di Cristo, un eidolon e non una vera presenza. Dall’altra parte, però, è un sacrificio che viene accettato dalla vittima innocente come unica possibilità di mandare in pezzi la logica sacrificale, e dunque un sacrificio di segno rovesciato, un antisacrificio, non una sua esemplificazione ma una sua negazione.
Solo attraverso la mimesi della menzogna romanzo e crocifissione mettono a nudo per Girard la menzogna medesima, e così facendo la invalidano. Ma se è così, è inevitabile concluderne che la verità è una parte della menzogna, un suo derivato, un suo correlativo più che un suo contraddittorio. Un rovesciamento, meglio ancora, in cui non la menzogna è il rovescio della verità, ma la verità è il rovescio della menzogna (qui si potrebbe trovare un punto di contatto con l’estetica di Adorno: nel mondo del totalmente falso la verità si lascia intravedere solo come deformazione della deformazione che il falso imprime non a un supposto vero originario, ma alla redenzione che giudicherà con la sua pienezza futura le manchevolezze del presente). Se la verità viene dopo, se si aggiunge come supplemento, se non è un’origine ma piuttosto una meta, non la si deve pensare come un fatto ma come un evento (e non a caso il cristianesimo parla di avvento e di pienezza dei tempi). Un evento, per di più, performativo, una performance profondamente apparentata col teatro, da cui mutua non a caso la necessità catartica dell’identificazione (e su questo invece exit Adorno, che al pari di Brecht, anche se per ragioni diverse, diffidava dell’identificazione). Senza identificazione con la colpevolezza, non potrebbe esserci liberazione. Che diremmo di un romanzo che non riesce a produrre empatia, immedesimazione, identificazione con l’eroe intrappolato nel dispositivo mimetico? Per criticare l’eroe stregato dalla fascinazione del mediatore, il romanziere deve istituirlo a oggetto di fascino; deve erigerlo cioè, in altre parole, a mediatore e insieme a capro espiatorio. Il personaggio deve essere colpevole di desiderio mimetico onde potersi liberare, e noi con lui, dalla schiavitù, proprio come l’umanità doveva essere colpevole di accecamento sacrificale affinché la storia della salvezza potesse compiersi (perché poi un dio creatore onnipotente e benigno abbia dovuto escogitare un meccanismo così tortuoso e sanguinario Girard non se lo chiede; la teodicea non è evidentemente affar suo). Procedimento omeopatico che cura il simile attraverso il simile: mimesi contro mimesi, sacrificio contro sacrificio. Se è necessario che l’eroe e l’umanità si smarriscano nel labirinto della mimesi, la mappa per uscire dal labirinto coincide con il labirinto stesso.
VII
Testimonianza e incarnazione della verità, romanzo e cristianesimo sono un evento, una pratica, un segmento dell’accadere. Ma se questo è vero, e in Girard è certo vero, che resta da fare alla teoria? Dove si colloca, che posto occupa nell’arredo del mondo? Che relazione intrattiene col suo oggetto? E’ possibile distinguerla da esso? Oppure si tratta, come avrebbe detto Spinoza, della modificazione di una medesima sostanza, di una leibniziana identità degli indiscernibili?
E’ qui che le strade tra Girard e la “teoria” si divaricano davvero. In parziale contraddizione con quanto egli stesso ci ha permesso di affermare (la verità come evento, il romanzo e Cristo come sua incarnazione), Girard ritiene dualisticamente che la teoria sia depositaria della verità dell’accadere, viva e operi cioè su un piano ontologico che è altro rispetto quello della prassi. Su questo né Bloom né Kristeva né Barthes né Derrida sarebbero d’accordo; e nemmeno Marx, Nietzsche e Freud. Nessuno di loro ha mai pensato la teoria come qualcosa di separato dalla pratica di cui aspirerebbe a porsi come autocoscienza. Girard sì. Girard crede che alla teoria sia riservato uno spazio aletico che prescinde dalla sua implicazione, dalla sua compromissione con l’oggetto. Che prescinde cioè, altrimenti detto, dal desiderio, dal suo desiderio, che è in primo luogo desiderio di essere vera. Di qui l’ambizione smisurata delle sue pretese olistiche, la sua voracità onnicomprensiva – dalla teoria letteraria all’antropologia, alla psicoanalisi e da ultimo anche alla genetica neodarwiniana, tutte rivedute e corrette come anticipazioni o verità parziali al servizio di una verità più generale, la sua. Di qui, anche, una spregiudicatezza ermeneutica davanti alla quale ci si divide tra invidia e irritazione. Il materiale in cui Girard si imbatte non ha scampo: o conferma la teoria mimetica, oppure la ignora e la respinge e proprio per questo le offre una conferma rafforzata, così come i miti che non parlano del sacrificio lo fanno per meglio occultarne l’infondatezza originaria. Di qui, infine, il suo realismo epistemologico francamente un po’ ingenuo, fondato com’è su un’idea di verità come adaequatio e non come un processo in cui essere e coscienza sono due traiettorie dello stesso divenire.
VIII
Una mossa tipica del procedere argomentativo di Girard è quella di sostenere che gli autori in cui vede dei precursori della sua teoria, se non giungono alle sue stesse conclusioni, è perché se ne ritraggono spaventati. Tipica e spesso irritante: non gliela ritorceremo contro. Diremo invece che, anche se di certo non era sua intenzione arrivare agli esiti che gli abbiamo attribuito e in parte estorto, non sempre la fecondità di un pensiero coincide con la realizzazione delle intenzioni del suo autore. Contano anche e forse soprattutto le crepe, gli effetti di deriva, le riprese e le riarticolazioni che permette. Nessun dubbio che Girard non avrebbe mai accettato di includere tra quegli effetti anche una possibile contaminazione col nichilismo ermeneutico, con la riduzione della realtà a discorso, con la teoria come finzione e altri topoi postmoderni. Ma non è così facile sfuggire al proprio tempo. Col suo sostanzialismo tetragono e in apparenza inscalfibile, Girard ha contribuito a forgiarlo almeno quanto i partigiani della cosiddetta e mal denominata “svolta linguistica”. Il suo realismo ha contribuito tanto quanto il costruzionismo postmoderno all’emarginazione del soggetto agente dal centro della scena in cui si recita il dramma della prassi umana. Entrambi ne minano le pretese di assolutezza, autofondazione, presenza a se stesso, sovranità epistemologica e autonomia pratica, e questo è un bene: se il compito più urgente che oggi le scienze umane hanno di fronte è una ridiscussione radicale del ruolo del soggetto, nulla è più utile in fase di pars destruens di una decostruzione delle sue false certezze. Il problema è cosa mettere al suo posto, o meglio in quale posto insediarlo, quale ruolo assegnargli che non sia, caduto il despota, quello di esecutore inconsapevole, sintesi passiva di matrici universali, che lo si pensi come mera funzione in una catena di significanti (il soggetto è ciò che rappresenta un significante per un altro significante, diceva Lacan), o, seguendo Girard, come passaggio all’atto di una serie di possibilità immanenti, e in quanto tali necessarie. Che ci si arrenda a Cristo o al linguaggio (entrambi logos, tra l’altro) fa di certo differenza, ma pur sempre di una resa si tratta. Tra Girard e il postmoderno ci sono più analogie di quante se ne immagini, se è vero che per postmoderno bisogna intendere in primo luogo la fine della pretesa di uscita dall’eteronomia che aveva caratterizzato la modernità, e che per Girard il guaio della modernità consiste giustappunto nell’aver ceduto alla lusinga di demistificare il cristianesimo non capendo che esso era già di per sé una demistificazione della logica sacrificale, col risultato che invece di salutare l’avvento del Regno l’umanità si trova esposta alla minaccia costante dell’apocalisse – inimicizia assoluta, rivalità generalizzata, bellum omnium contra omnes – senza più nemmeno la possibilità di far ricorso al freno, imperfetto ma a suo modo efficace, che l’età precristiana aveva trovato nel sacrificio arcaico.
Non è un caso dunque se in questi ultimi anni si è parlato così poco di soggettività, e così tanto, troppo, di identità. Un’identità performativa, giura e spergiura l’episteme postmoderna. Un’identità sostanziale, categoriale, destinale, ribatte la philosophia perennis di Girard. Prospettive che parrebbero opporsi, e in cui però a guardar bene le affinità sopravanzano le differenze, pur evidenti, se è vero che in entrambi i casi si tratta comunque di un’identità che, proprio in quanto si pretende tale, riconosce un saldo primato al “chi sono” sul “che faccio”: fai quel che sei, non sei quello che fai. E non è un caso nemmeno se oggi a questa esigenza rispondono in primo luogo quelle narrazioni vittimarie che sono diventate il principale generatore di identità della cultura contemporanea, l’unico dispositivo discorsivo in grado di dar voce non tanto a un bisogno di avere (diritti, sicurezza, giustizia), quanto piuttosto a un desiderio di essere. Solo nella forma cava della vittima – e della vittima innocente, incolpevole, non responsabile e dunque irresponsabile, come sostiene appunto Girard – troviamo oggi un’immagine verosimile, anche se rovesciata, della pienezza di essere cui aspiriamo. L’immaginario della vittima ha finito per assumere il carattere di quella che Furio Jesi chiamava una “macchina mitologica”, una macchina che a partire dal centro vuoto di una mancanza genera incessantemente una mitologia, un corpus di figure capace di soddisfare un bisogno che proprio da quel vuoto ha tratto origine. Io sono ciò che ho subito, ciò che mi hanno fatto, ciò che può essermi tolto; non ciò che faccio, ciò che voglio, ciò che mi riesce o non mi riesce. La mia posizione storica non è una casamatta in cui mi insedio responsabilmente, e da cui rispondo delle mie vittorie e delle mie sconfitte, ma una costante eterogenesi da cui non posso far altro che chiamarmi fuori in quanto attore mancato, e prima ancora che mancato supposto, apparente, inessenziale. La riduzione della soggettività a identità è una perdita secca, a scongiurare la quale non basterà mai il volenteroso ottimismo dei cantori dell’identità performativa, della cultura come invenzione, del meticciato come libera circolazione delle merci simboliche da ricombinare a piacimento. Lungi dall’opporglisi, l’ossessione identitaria di cui l’immagine della vittima si fa interprete è solo il rovescio speculare dell’insistenza post-strutturalista sull’idea di un sapere senza soggetto, di un archivio di enunciati senza autore, di un mormorio anonimo, diceva Foucault, di processi senza agente, disseminati magari sui mille plateaux di un rizoma zuzzurellone.
IX
Su tutto questo, in ogni caso, Girard offre molto da riflettere anche a chi non crede con lui che la vittima innocente sia divenuta, come gli è capitato di scrivere, “il nuovo assoluto”. Ma solo a patto di discernere, nella sua eredità, non tanto “ciò che è vivo e ciò che è morto”, ma ciò che possiamo o non possiamo rivendicare per un pensiero critico che non si rassegni alla scomparsa del suo principale campione, il soggetto. A patto cioè di leggere Girard contro Girard, a contropelo, illuminandolo da un prospettiva che non è e non può essere la sua, come sempre si deve fare con i veri maestri. E’ stato detto che la grandezza di un pensiero coincide necessariamente col suo limite, e Paul De Man ha mostrato come la capacità di visione di un autore coincida essenzialmente con il suo punto di cecità. Il miglior modo di essere fedeli a Girard è forse quello di giocare deliberatamente la carta dell’infedeltà, riconducendo le sue pretese di totalità alla contingenza inevitabile di una verità che in quanto umana può darsi solo come sempre a venire.

Testo tratto da  http://www.leparoleelecose.it

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