ph. di Elena Papadaki
Arianna Di Genova
Leggende cretesi ad
alta quota
Qualsiasi
viaggiatore perduto tra le fenditure
dei monti e i larghi orizzonti del mare della Grecia,
in navigazione verso i numerosi arcipelaghi
che costellano quel territorio per metà
sommerso dalle acque, capisce a un colpo d’occhio
che l’isola di Creta ha una identità tutta sua. Ha un sapore
di erbe speziate e formaggi freschi come lo
ximomizithra, e un colore eccentrico che
sorprende per le mutazioni repentine.
D’altronde,
è sufficiente ammirare anche solo la
ricostruzione — quella «scenografia
sfacciata», come la stigmatizzò lo storico
dell’arte Cesare Brandi — del fastoso palazzo di Minosse
a Cnosso, per intuirlo. Ovunque, riverbera una
tavolozza che scarta dal resto della Grecia continentale
e isolana. Soprattutto nel versante
occidentale, quello che custodisce nel suo cuore
i resti di una città stato come Aptera (forse un insediamento
coloniale governato dal dorico Apteros, che
partecipò all’occupazione di Creta verso la fine
dell’era minoica), domina il rosso dardeggiante delle
catene montuose e dei sassi incastrati fra bassi
cespugli di timo, rosmarino e dittamo.
Quest’ultimo è una
erbacea perenne aromatica, sacra a Artemide,
che si favoleggia mangiassero anche le capre, fin
dalla notte dei tempi, per far rimarginare le ferite
procurate da frecce e che, in seguito, venne elevata
a pianta per visionari e vaticinanti. C’è
poi il grigio perlaceo dei valichi impervi tra le
rocce, interrotto dall’improvviso candore di chiesette
rupestri abbarbicate ai pendii, e quel
particolare cielo «sbucciato», come lo definì
sempre Brandi nel suo Viaggio nella Grecia
antica, mentre alle insenature bagnate dal mare che
costeggiavano il tragitto tra Chania e Iraklion
attribuì un azzurro «vinoso».
La tavolozza
comprende anche il bianco panna delle nuvole che nasconde
eternamente la cima del monte Ida: è proprio
lassù che nacque la civiltà greca, quando Rea, in un anfratto
(oggi mèta di pellegrinaggio), rifugiò il
piccolo Zeus per sottrarlo al cannibalismo
del padre Crono, dando a quel marito esigente in pasto una
indigesta pietra. Sfuggì il dio-bambino alla sorte
crudele degli altri figli di Rea, venne allevato con miele
e ambrosia dalla capra Amaltea e, una volta
cresciuto, conquistò il potere: detronizzò il
genitore-tiranno e lo costrinse a vomitare i suoi
fratelli, fondando così un intero mondo celeste e,
successivamente, anche una progenie di
uomini e donne che finì sulla terra.
Assai rigogliosa ai
primordi, ora Creta appare più brulla, con vegetazione
rasoterra, costellata però sulle spiagge da piccole
palme, una specie autoctona, oggi protetta,
la phoenix theofrasti. Siamo comunque nella
terra che fin dal tremila avanti Cristo coltivava
gli ulivi. Ce ne sono, sull’isola, circa quattro milioni
e mezzo: tutti, dopo cinque anni, danno i loro frutti,
le olive per il celebre olio extravergine e quelle
da pasto, più grandi, le kalamata. Alcuni alberi sono battuti
dal vento da almeno un millennio, come l’olivo di Vuves,
un villaggio a 30 chilometri dalla
città di Chania, considerato uno dei più
antichi del pianeta tanto da meritare un museo tutto
dedicato alla sua storia e a quella dei suoi «vicini».
Può anche capitare
che, vagando con lo sguardo, si scorgano piantagioni
di banani e altre di avocado: nel paesino di Lapa,
dove si conservano ancora molte vestigia intatte del
modus vivendi veneziano, case soprattutto, l’avocado è un
gran protagonista: si beve, si mangia e si
spalma come unguento rigenerante sulla pelle.
L’anomalia
paesaggistica cretese rispetto all’idea
che ognuno possiede della Grecia «turistica» è tutta
in alcuni numeri: il suo territorio, oltre
naturalmente alle spiagge, presenta circa 500 gole di
montagna — molte delle quali ospitano gli 800
monasteri dell’isola — 1000 cascate, il canyon più lungo
d’Europa (18 chilometri, le gole di Samaria),
60 cime che superano i duemila metri. Numeri che
descrivono una cartografia apparecchiata
per smarrimenti volontari.
È labirintica Creta, proprio come indica la sua mitologia, con quella simbolica prigione per il Minotauro (figlio di Pasifae, moglie di Minosse ma nato da un tradimento insufflato dagli dèi) che l’architetto Dedalo costruì a protezione del «mostro» regale. Stratificata, abitata fin dal neolitico, poi «raccontata» in un palinsesto vertiginoso di dominazioni che la storia ha sovrapposto — da qui la civiltà minoica si è propagata, qui sono arrivati micenei, dori, romani, bizantini, veneziani, turchi — l’isola bagnata dal mar Egeo e da quello libico non può rispondere a nessuna esigenza di controllo.
«Avevo quella
sensazione di certe pagine dei romanzi di Dickens, di
un mondo strano, con una gamba sola, rischiarato da una luna
sfinita: una terra sopravvissuta a ogni
catastrofe e ora palpitante di un battito
sanguigno, una terra di gufi e aironi e di
bizzarre reliquie, quali i marinai riportavano
da lidi stranieri». La ricordava così nel suo Il
Colosso di Marussi lo scrittore americano Henry
Miller che, nel 1941, si imbarcò da Marsiglia per il
Pireo, procedendo tappa dopo tappa fino a Creta,
restituendo al lettore un luogo remoto, che a un
viaggiatore d’oltreoceano doveva apparire di
difficile decifrazione.
Le spiegazioni
raziocinanti, qualsiasi tentativo di
incasellamento di una realtà multiforme,
vennero prontamente sostituite da un torrente
di impressioni fisiche. All’inizio, col solo
pronunciare una prima parola «bellissima come
nero, acqua», poi tratteggiando un ritratto compiuto:
«La Grecia è ciò che ognuno sa, anche in absentia,
anche da bambino, o da idiota o nascituro. Ma
Creta è un’altra cosa — scriveva ancora Miller —
è una culla, uno strumento, una vibrante provetta in
cui è stato eseguito un esperimento
vulcanico». In più, ogni luogo possiede una sua
forte personalità: Chania, per esempio,
è veneziana, eclettica e individualista.
Per un altro
viaggiatore eletto come Brandi, che affidò le sue
sensazioni al libriccino pubblicato da
Vallecchi nel 1954, Chania ha «un porto che sembra
un templio smantellato. Nel senso che ha le sue belle
strutture naturali, calve naturalmente, e una
mostra insipida di città qualunque che una volta
dovette essere cospicua. Sorte amara, non di una città sola, di
un’isola che, dopo essere stata la depositaria di
una civiltà primeva, misteriosa, e raffinatissima,
in anticipo su quasi tutti i rivieraschi del
Mediterraneo; dopo aver vivacchiato
onorevolmente fino alla fortuna, insperata,
di divenire veneziana, proprio all’ultimo quando
sembrava che ce l’avesse fatta a scampare dai
turchi, i turchi se la pigliano, e in meno di due
secoli ne distruggono ventisette».
Veneziano
è proprio uno dei monasteri più belli —
Tzagarolon — dal cognome dei due fratelli
Lorenzo e Geremia che lo fecero costruire. Si trova nella
penisola di Akrotiri, lì dove, andando verso il mare
s’incontra anche la spiaggia di Stavros, divenuta
un’ambitissima location dell’immaginario dopo che, nel
film Zorba il greco, Anthony Quinn vi ballò per la prima il
sirtaki, battezzando con il suo corpo una danza
popolare, sulle note di Mikis Theodorakis. Era il
1964 e il sirtaki vedeva la luce ispirandosi
all’hasapiko, un’antica danza chiamata anche «dei
macellai», risalente all’impero bizantino. Nato per
testimoniare la libertà e l’energia vitale, è stato
la bandiera della rivolta della popolazione greca alle
leggi finanziarie delle troika.
Eppure Creta è nutrice
e matrice europea, un luogo delle origini, come viene
ribadito più volte dalle sue leggende. È da qui che
il Vecchio continente ha preso in prestito il suo
nome, nonostante la posizione geograficamente
così marginale dell’isola stessa. Fu la principessa
fenicia Europa, infatti, a generare Minosse con Zeus,
spostandosi da oriente verso occidente e gettando
le fondamenta di una nuova civiltà, che all’epoca
mitologica non temeva di mescolare est e ovest:
bella e sofisticata, veniva dalla città di Tiro, fu
abbindolata dal dio sotto le spoglie di un toro
all’apparenza mansueto e trasportata
attraverso il mare a Creta, dove si unì a Zeus dando
alla luce tre figli.
Il Manifesto – 31
ottobre 2015
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