01 novembre 2015

UN VIAGGIO A CRETA

ph. di Elena Papadaki


Arianna Di Genova

Leggende cretesi ad alta quota

Qual­siasi viag­gia­tore per­duto tra le fen­di­ture dei monti e i lar­ghi oriz­zonti del mare della Gre­cia, in navi­ga­zione verso i nume­rosi arci­pe­la­ghi che costel­lano quel ter­ri­to­rio per metà som­merso dalle acque, capi­sce a un colpo d’occhio che l’isola di Creta ha una iden­tità tutta sua. Ha un sapore di erbe spe­ziate e for­maggi fre­schi come lo ximo­mi­zi­thra, e un colore eccen­trico che sor­prende per le muta­zioni repentine.

D’altronde, è suf­fi­ciente ammi­rare anche solo la rico­stru­zione — quella «sce­no­gra­fia sfac­ciata», come la stig­ma­tizzò lo sto­rico dell’arte Cesare Brandi — del fastoso palazzo di Minosse a Cnosso, per intuirlo. Ovun­que, river­bera una tavo­lozza che scarta dal resto della Gre­cia con­ti­nen­tale e iso­lana. Soprat­tutto nel ver­sante occi­den­tale, quello che custo­di­sce nel suo cuore i resti di una città stato come Aptera (forse un inse­dia­mento colo­niale gover­nato dal dorico Apte­ros, che par­te­cipò all’occupazione di Creta verso la fine dell’era minoica), domina il rosso dar­deg­giante delle catene mon­tuose e dei sassi inca­strati fra bassi cespu­gli di timo, rosma­rino e dit­tamo.

Quest’ultimo è una erba­cea perenne aro­ma­tica, sacra a Arte­mide, che si favo­leg­gia man­gias­sero anche le capre, fin dalla notte dei tempi, per far rimar­gi­nare le ferite pro­cu­rate da frecce e che, in seguito, venne ele­vata a pianta per visio­nari e vati­ci­nanti. C’è poi il gri­gio per­la­ceo dei vali­chi impervi tra le rocce, inter­rotto dall’improvviso can­dore di chie­sette rupe­stri abbar­bi­cate ai pen­dii, e quel par­ti­co­lare cielo «sbuc­ciato», come lo definì sem­pre Brandi nel suo Viag­gio nella Gre­cia antica, men­tre alle inse­na­ture bagnate dal mare che costeg­gia­vano il tra­gitto tra Cha­nia e Ira­klion attri­buì un azzurro «vinoso».

La tavo­lozza com­prende anche il bianco panna delle nuvole che nasconde eter­na­mente la cima del monte Ida: è pro­prio lassù che nac­que la civiltà greca, quando Rea, in un anfratto (oggi mèta di pel­le­gri­nag­gio), rifu­giò il pic­colo Zeus per sot­trarlo al can­ni­ba­li­smo del padre Crono, dando a quel marito esi­gente in pasto una indi­ge­sta pie­tra. Sfuggì il dio-bambino alla sorte cru­dele degli altri figli di Rea, venne alle­vato con miele e ambro­sia dalla capra Amal­tea e, una volta cre­sciuto, con­qui­stò il potere: detro­nizzò il genitore-tiranno e lo costrinse a vomi­tare i suoi fra­telli, fon­dando così un intero mondo cele­ste e, suc­ces­si­va­mente, anche una pro­ge­nie di uomini e donne che finì sulla terra.

Assai rigo­gliosa ai pri­mordi, ora Creta appare più brulla, con vege­ta­zione raso­terra, costel­lata però sulle spiagge da pic­cole palme, una spe­cie autoc­tona, oggi pro­tetta, la phoe­nix theo­fra­sti. Siamo comun­que nella terra che fin dal tre­mila avanti Cri­sto col­ti­vava gli ulivi. Ce ne sono, sull’isola, circa quat­tro milioni e mezzo: tutti, dopo cin­que anni, danno i loro frutti, le olive per il cele­bre olio extra­ver­gine e quelle da pasto, più grandi, le kala­mata. Alcuni alberi sono bat­tuti dal vento da almeno un mil­len­nio, come l’olivo di Vuves, un vil­lag­gio a 30 chi­lo­me­tri dalla città di Cha­nia, con­si­de­rato uno dei più anti­chi del pia­neta tanto da meri­tare un museo tutto dedi­cato alla sua sto­ria e a quella dei suoi «vicini».

Può anche capi­tare che, vagando con lo sguardo, si scor­gano pian­ta­gioni di banani e altre di avo­cado: nel pae­sino di Lapa, dove si con­ser­vano ancora molte vesti­gia intatte del modus vivendi vene­ziano, case soprat­tutto, l’avocado è un gran pro­ta­go­ni­sta: si beve, si man­gia e si spalma come unguento rige­ne­rante sulla pelle.

L’anomalia pae­sag­gi­stica cre­tese rispetto all’idea che ognuno pos­siede della Gre­cia «turi­stica» è tutta in alcuni numeri: il suo ter­ri­to­rio, oltre natu­ral­mente alle spiagge, pre­senta circa 500 gole di mon­ta­gna — molte delle quali ospi­tano gli 800 mona­steri dell’isola — 1000 cascate, il canyon più lungo d’Europa (18 chi­lo­me­tri, le gole di Sama­ria), 60 cime che supe­rano i due­mila metri. Numeri che descri­vono una car­to­gra­fia appa­rec­chiata per smar­ri­menti volon­tari.

È labi­rin­tica Creta, pro­prio come indica la sua mito­lo­gia, con quella sim­bo­lica pri­gione per il Mino­tauro (figlio di Pasi­fae, moglie di Minosse ma nato da un tra­di­mento insuf­flato dagli dèi) che l’architetto Dedalo costruì a pro­te­zione del «mostro» regale. Stra­ti­fi­cata, abi­tata fin dal neo­li­tico, poi «rac­con­tata» in un palin­se­sto ver­ti­gi­noso di domi­na­zioni che la sto­ria ha sovrap­po­sto — da qui la civiltà minoica si è pro­pa­gata, qui sono arri­vati mice­nei, dori, romani, bizan­tini, vene­ziani, tur­chi — l’isola bagnata dal mar Egeo e da quello libico non può rispon­dere a nes­suna esi­genza di controllo.

«Avevo quella sen­sa­zione di certe pagine dei romanzi di Dic­kens, di un mondo strano, con una gamba sola, rischia­rato da una luna sfi­nita: una terra soprav­vis­suta a ogni cata­strofe e ora pal­pi­tante di un bat­tito san­gui­gno, una terra di gufi e aironi e di biz­zarre reli­quie, quali i mari­nai ripor­ta­vano da lidi stra­nieri». La ricor­dava così nel suo Il Colosso di Marussi lo scrit­tore ame­ri­cano Henry Mil­ler che, nel 1941, si imbarcò da Mar­si­glia per il Pireo, pro­ce­dendo tappa dopo tappa fino a Creta, resti­tuendo al let­tore un luogo remoto, che a un viag­gia­tore d’oltreoceano doveva appa­rire di dif­fi­cile deci­fra­zione.

Le spie­ga­zioni razio­ci­nanti, qual­siasi ten­ta­tivo di inca­sel­la­mento di una realtà mul­ti­forme, ven­nero pron­ta­mente sosti­tuite da un tor­rente di impres­sioni fisi­che. All’inizio, col solo pro­nun­ciare una prima parola «bel­lis­sima come nero, acqua», poi trat­teg­giando un ritratto com­piuto: «La Gre­cia è ciò che ognuno sa, anche in absen­tia, anche da bam­bino, o da idiota o nasci­turo. Ma Creta è un’altra cosa — scri­veva ancora Mil­ler — è una culla, uno stru­mento, una vibrante pro­vetta in cui è stato ese­guito un espe­ri­mento vul­ca­nico». In più, ogni luogo pos­siede una sua forte per­so­na­lità: Cha­nia, per esem­pio, è vene­ziana, eclet­tica e indi­vi­dua­li­sta.

Per un altro viag­gia­tore eletto come Brandi, che affidò le sue sen­sa­zioni al libric­cino pub­bli­cato da Val­lec­chi nel 1954, Cha­nia ha «un porto che sem­bra un tem­plio sman­tel­lato. Nel senso che ha le sue belle strut­ture natu­rali, calve natu­ral­mente, e una mostra insi­pida di città qua­lun­que che una volta dovette essere cospi­cua. Sorte amara, non di una città sola, di un’isola che, dopo essere stata la depo­si­ta­ria di una civiltà pri­meva, miste­riosa, e raf­fi­na­tis­sima, in anti­cipo su quasi tutti i rivie­ra­schi del Medi­ter­ra­neo; dopo aver vivac­chiato ono­re­vol­mente fino alla for­tuna, inspe­rata, di dive­nire vene­ziana, pro­prio all’ultimo quando sem­brava che ce l’avesse fatta a scam­pare dai tur­chi, i tur­chi se la pigliano, e in meno di due secoli ne distrug­gono ventisette».

Vene­ziano è pro­prio uno dei mona­steri più belli — Tza­ga­ro­lon — dal cognome dei due fra­telli Lorenzo e Gere­mia che lo fecero costruire. Si trova nella peni­sola di Akro­tiri, lì dove, andando verso il mare s’incontra anche la spiag­gia di Sta­vros, dive­nuta un’ambitissima loca­tion dell’immaginario dopo che, nel film Zorba il greco, Anthony Quinn vi ballò per la prima il sir­taki, bat­tez­zando con il suo corpo una danza popo­lare, sulle note di Mikis Theo­do­ra­kis. Era il 1964 e il sir­taki vedeva la luce ispi­ran­dosi all’hasapiko, un’antica danza chia­mata anche «dei macel­lai», risa­lente all’impero bizan­tino. Nato per testi­mo­niare la libertà e l’energia vitale, è stato la ban­diera della rivolta della popo­la­zione greca alle leggi finan­zia­rie delle troika.

Eppure Creta è nutrice e matrice euro­pea, un luogo delle ori­gini, come viene riba­dito più volte dalle sue leg­gende. È da qui che il Vec­chio con­ti­nente ha preso in pre­stito il suo nome, nono­stante la posi­zione geo­gra­fi­ca­mente così mar­gi­nale dell’isola stessa. Fu la prin­ci­pessa feni­cia Europa, infatti, a gene­rare Minosse con Zeus, spo­stan­dosi da oriente verso occi­dente e get­tando le fon­da­menta di una nuova civiltà, che all’epoca mito­lo­gica non temeva di mesco­lare est e ovest: bella e sofi­sti­cata, veniva dalla città di Tiro, fu abbin­do­lata dal dio sotto le spo­glie di un toro all’apparenza man­sueto e tra­spor­tata attra­verso il mare a Creta, dove si unì a Zeus dando alla luce tre figli.


Il Manifesto – 31 ottobre 2015

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