25 maggio 2017

HIPPY REVOLUTION



Nella confusione psichedelica della nostra giovinezza c'è stato spazio anche per la beat generation, i romanzi di Kerouac, le poesie di Ginsberg, le camicie a fiori e il sogno di una San Francisco assolata e libera. Un libro ricostruisce quella storia.

Massimo De Feo

Hippy sapiens sapiens

Con Hippy Revolution (Edizioni 24 Ore Cultura, 154 p.) Matteo Guarnaccia torna all’estate del 1967 per raccontare, a chi non l’ha vissuta in prima persona e a chi ha bisogno di una ripassata, fatti, personaggi e storie della reale Summer of Love. É un libro-oggetto molto illustrato dalla psichedelica mano del suo autore, dagli anni 70 tra i pionieri della nuova arte visionaria, grafico, pittore, scrittore, psiconauta, grande viaggiatore e parecchie altre cose ancora.

La Beat Generation, gli hippies, il jazz, il rock, gli happenings, le droghe, la rivoluzione sessuale, le comuni, la California, l’Oriente, le manifestazioni contro la guerra in Vietnam… ad ogni pagina un disegno in bianco e nero da colorare e/o ritagliare, in cima a ogni capitolo una canzone da indovinare, a chiusura del manuale un Gioco dell’Oca per hippies doc.

Nel 1967 all’Human Be-In erano in 30 mila nel Golden Gate Park a San Francisco quando Timothy Leary pronunciò la famosa frase «Turn on, tune in, drop out» (più o meno: accenditi, sintonizzati, lasciati andare).
Come si è «acceso» Matteo Guarnaccia?

È stata fondamentale l’epifania cromatica delle copertine dei dischi, che mi hanno messo in contatto con mondi alieni eppure così vicini al mio sentire. Ascoltando le copertine di artisti come Rick Griffin (Aoxomoxoa), Martin Sharp (Disraeli Gears) o Peter Blake (Sgt. Pepper) e guardando la musica dei Dead, dei Cream e dei Beatles, ho iniziato a tendere le antenne, anzi devo dire che è stata una bella sorpresa scoprire di essere provvisto di organi sensoriali del genere. Un corto circuito psichico che ha ristabilito il contatto – forte e chiaro – con il prezioso mondo interiore, o con lo sguardo infantile se si preferisce; un contatto che la società conformata – scuola, famiglia, chiesa, tv – stava facendo svanire. Avevo 14 anni, un bel prurito esistenziale e un desiderio di percorrere il lato soleggiato della vita, che di lì a breve mi avrebbe trascinato, in autostop come si usava allora, ad Amsterdam. Un luogo a cui sarò sempre grato per avermi offerto lo spazio «protetto» per ascoltare il colore dei miei pensieri. Lo zeitgeist (spirito del tempo, ndr.) sgambettava felice tra i suoi canali, e avere a che fare con arcobaleni e unicorni era una faccenda quotidiana. Migliaia di pischelli come me sognavano lo stesso sogno, materializzandolo sul posto. Avete in mente la scena del film Woodstock quando inizia a piovere e la gente si mette a cantare insieme «no rain», ecco la situazione era esattamente quella: per qualche anno non ha piovuto – in senso metaforico ovviamente visto che eravamo in Nord Europa.

Invece che perder tempo a seguire il classico copione distruttivo, la gente si impegnava, un po’ stonata, a far funzionare meglio le relazioni tornando a un medioevo idealizzato, formando allegre bande di fuorilegge psichici contro lo sceriffo di turno. Ad Amsterdam ho iniziato la mia rivista psichedelica Insekten Sekte, due parole lette su un muro del Paradiso, un locale multimediale gentilmente concesso dal Comune per attività creative, dai light show ai corsi di cucito ed esoterismo, dai concerti dei Pink Floyd alla pasticceria, che si adattava perfettamente alle dolci tribù mutanti che stavano trasformando la città in disarmo in un centro magico, uscendo come farfalle variopinte dai loro impolverati sacchi a pelo/bozzoli militari. Una lunga estate dell’amore, vissuta in una comune internazionalista su un barcone colorato ancorato in un canale, con tanto di orto rigoglioso e capre stranite sul ponte, senza dormire e perduti in interminabili jam di musica, disegno, meditazione, cucina e carezze. Senza corazze, senza aggressività, bastava uno sguardo per intendersi con gli altri. È stata la prova, al di là del cinismo odierno e della cancellazione della memoria, che gli esseri umani possono trovare un modo di interagire gradevole non dettato dal modello «difesa territoriale, avidità, controllo». Si può realmente fluttuare rilassati e farsi trascinare dalla corrente.

Cosa c’è dietro la formula «sex drug & rock’n’roll»?

Tolta l’ironia dell’omonimo brano di Ian Dury, scritto in pieno periodo punk, rimane una stupida semplificazione giornalistica, che continua a fare danni perché riduce le coordinate di una rivoluzione a un clichè mercantile. Le parole dei Jefferson Airplane, grandi protagonisti della Summer of Love di San Francisco, suonano meglio: «Free love, Free Dope, Free Music». Comunque per correttezza bisognerebbe sostituire il termine «sex» con «intima comunicazione sensoriale e spirituale fra individui». Come si diceva ad Amsterdam: l’amore è stereo il sesso è mono. «Drugs» con «esperienze di stati allargati di coscienza», «rock’n’roll» con «liberazione delle energie creative presenti in ogni essere».
Che rapporti tra il 1967 Usa e il 1968 europeo?

La Summer of Love, nei suoi aspetti più radicali, ha elaborato segnali provenienti dalla scena provo olandese e dal surrealismo, godendo di un margine di manovra sconosciuto in Europa. Da parte sua l’America poteva contare su grandi spazi, un atteggiamento di grande disponibilità verso le novità, la presenza stregata della tradizione nativa americana, uniti alla forza propulsiva e comunicativa del rock’n’roll. La particolarità più evidente, e la differenza con quanto accadrà in Europa l’anno successivo, è una totale refrattarietà alle ideologie politiche (escluso un certo anarchismo alla Thoreau) e la capacità di mettere immediatamente in atto forme di aggregazione spontanea, famiglie allargate su basi solidaristiche e progettuali, figlie dello spirito di frontiera rilanciato dal famoso discorso di John Kennedy. La Nuova Frontiera, recepita dagli spiriti ribelli non come metafora ma come realtà crepitante nel sistema nervoso. Il 1967 californiano è stato uno dei tanti focolai di una rivolta giovanile che si andava diffondendo a macchia d’olio in tutto il mondo.
Gli hippies hanno resuscitato  Dioniso….

Quello che i grandi saggi degli albori della psichedelia avevano intuito, da Hoffman a Huxley, il legame tra l’esperienza con l’LSd e i culti eleusini, veniva messo in pratica nella Summer of Love. I party esperienziali, gli acid test, i be-in, gli happening riproponevano in maniera chiara e inequivocabile il ritorno di Dioniso, un tuffo nello sciamanesimo. «Uno strano lungo viaggio» come cantavano i Grateful Dead. Scosse, Scatenamenti («Shake, Rattle and Roll») perdita dell’ego, fusione nel Tutto, ritorno, consapevolezza… avvenivano non più con la colonna sonora dei cimbali e dei flauti ma con le chitarre elettriche distorte. «Non è morire, non è morire» salmodiavano i Beatles. Erano pittoreschi e pasticciati tentativi di riportare i Misteri nella modernità. Le giovani hippies erano la versioni moderne delle menadi del mondo classico, senza truculenza annessa. Se guardiamo le loro rappresentazioni nelle pitture greco-romane e le foto delle figlie dei fiori nei festival pop, c’è una somiglianza incredibile.
Cosa è rimasto della Summer of Love?

Molto più di quanto comunemente si creda. L’atteggiamento responsabile verso le tematiche ambientali, i diritti delle donne – più dee che suffragette – dei bambini, la tribù più maltrattata del pianeta, e delle minoranze in genere. La percezione di interdipendenza tra tutte le forme di vita, considerare la tenerezza come un valore e non come una debolezza. L’arte intesa come collante sociale, celebrazione e liberazione, non solo decorazione o mercato. La fine della demonizzazione dell’uso di certe sostanze sacre, nella terapia medica e nella ricerca scientifica. Piccoli passi: la scienza abbandona la geometria euclidea e si apre a quella frattale, allo studio dei delfini con John Lilly; la nascita del personal computer con Steve Wozniak, l’inventore della Apple; il Tao della fisica di Fritjof Capra; le terapie psicoanalitiche unite al lavoro sulle energie sottili del corpo dell’Esalen Institute; gli studi sugli stati pre-morte di Stanislas Grof, e la Politica dell’esperienza di Ronald Laing. La rivoluzione hippy continua…
Sei mai stato  a San Francisco?

Certo parecchie volte, avevo dei cari amici che stavano in città. Haight Ashbury in via di gentrificazione ma con ancora nell’aria qualcosa di particolare, deliziose bottegucce, librerie con i pavimenti imbarcati dal peso dei volumi e gattoni pigri che proteggevano i pezzi più desiderati, poeti che vivevano come indiani tra le piante di Golden Gate Park, i disegni di Rick Griffin contemplati con reverenza, il piacere degli incontri pieni di salsedine e buddhismo nelle house boat di Sausalito. Andare a un concerto di gamelan usando un carrello del supermercato come mezzo di trasporto, scivolando giù dalle colline con la mia dolce compagna. Una gelateria con i gusti dedicati agli eroi della Summer of Love: Cherry Garcia, Wavy Gravy.

Ma la magia vera si era conservata più a nord a Bolinas, una meraviglia persa dietro una muraglia di nebbia, protetta dal mantra incessante dell’oceano e abitata da arditi carpentieri, artisti e poeti – tra cui Joanne Kyger (già compagna di Gary Snyder) – che avevano tolto i cartelli stradali che portavano al paese per evitarsi turisti e scocciatori.
Una tua storia hippy?

In Sardegna vago con un paio di amiche alla ricerca di una comune (Madria) dove siamo stati invitati, ma di cui ignoriamo l’indirizzo. Ci siamo persi e ci ripariamo dal sole nell’antro dove una vecchina faceva lo yogurth come ai tempi di Ulisse. Dal nulla sbucano una banda di freak colorati come una scatola di cioccolatini, gente del Living Theatre. Fratellanza istantanea. Sollevandoci letteralmente da terra ci caricano sul loro furgone dipinto, dove un mangianastri quasi scarico suona All Right Now dei Free. Arriviamo in mezzo al nulla, in una fantastica villa costruita su una spiaggia e circondata da un tappeto di ginestre. Passiamo una nottata funambolica, poi al pomeriggio ci svegliamo, abbiamo delle penne tra i capelli, gli occhi truccati, c’è un mio disegno sul muro, siamo soli in questa casa enorme che profuma di primavera, con accanto una borsa di paglia piena di cibo, un libro sui preraffaelliti e un foglio con scritto «love». Dopo un bel bagno salutiamo le sagge capre che fanno colazione sulla strada e ci rimettiamo fischiettando a cercare Madria. Naturalmente non abbiamo più incontrato i nostri ospiti.


Il manifesto – 13 maggio 2017

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