salgado, deserto sahel
[agli uomini e alle donne di carta]
I tre uomini del Sahel fecero conoscenza nel porto petrolifero
scendendo dalla stessa nave che li aveva tratti in salvo
su un barcone putrescente proveniente dalla Libia: cento migranti stipati.]
Chi resse la bussola e il timone della piccola imbarcazione
viaggiò gratuitamente. Gli altri, a peso d’oro.
A corto di carburante, la vecchia carretta imbarcava acqua.
Affondava. Ankindé, disperato, seduto con la testa stretta alle ginocchia]
era sicuro di morire annegato. Il secondo giorno un elicottero li individuò.]
Un cargo indiano li soccorse.
Alaye salì a bordo con una lunga scaletta di imbarco.
Ankindé, stremato, fu sollevato con un argano.
Ci siamo ritrovati tutti a Aidone, al centro dell’isola.
Una terra arida e appartata, distante dalle coste.
Molto lontano, sul versante orientale, il grande vulcano borbotta.
Qui la terra povera respira lentamente.
Alcuni abitanti si cospargono la testa
di manciate di polvere grigia e di paglia sbiancata,
parlano poco, si spaventano per l’ombra di un uccello che passa,
si chiamano per strada senza fermarsi.
C’è ovunque nei cuori una spina, prospera l’amarezza.
Sotto il terreno e la ghiaia spiriti e demoni
non sono del tutto esorcizzati
non sono mai dimenticati.
I tre saheliani alloggiano nella stessa stanza.
Parlano molto. Noi ci parliamo molto.
Le tre coste dell’isola rugosa battono allora le ali
e vengono al mattino a mangiare nelle nostre mani
poi se ne ripartono con qualche segno di turbamento.
Le nostre parole sono putrelle leggere
e travi, luminosa impalcatura
di ciò che realizziamo, di ciò che è necessario costruire.
Parole tavole dell’arca per l’immenso diluvio umano in corso.
Carena o dimora, chi lo sa, carena per una ben diversa traversata
che non è stata finora mai tentata, inadeguata dimora futura
la cui porta non ha chiave
perché il culto degli oggetti non vi avrà più corso, soppiantato
dal dono della parola che fa offerta di sé.
E di sera, ancora, le tre coste dell’isola, in volo,
vengono a bere nei nostri palmi aperti
poi ripartono con altre indicibili sensazioni.
Nella stessa stanza in una stradina di Aidone
sui loro letti disadorni, i tre uomini parlano, dormono,
cominciano a costruire qualcosa
la cui bussola non è né europea né africana.
Le terre che hanno lasciato da un decennio
non sono vuote di anime né prive di parole
ma trovarvi un lavoro non è cosa semplice.
Bisogna andare. Cercando un’altra bussola.
Cercando.
Noi parliamo, andiamo.
Essi parlano e vanno. Solidali ma liberi e senza vincoli,
leggeri e riflessivi, la pelle levigata.
Se uno o l’altro piange certe notti sotto il suo lenzuolo,
insieme cercano i remi e le parole
e l’altra bussola.
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Testo di Yves Bergeret.
Traduzione di Francesco Marotta.
Tratto da Carène, 2016, inedito.
Testo di Yves Bergeret.
Traduzione di Francesco Marotta.
Tratto da Carène, 2016, inedito.
Testo ripreso da https://rebstein.wordpress.com/2017/05/13/letti-bussola-impalcatura/
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