Palermo belle époque. La musica nell'età dei Florio
Giovanni Vacca
Sembra sia stato destino
comune per molte grandi città quello di avere avuto una scintillante
vita musicale a cavallo tra l'Ottocento e il Novecento. Accadde a
Parigi come a Napoli, a Lisbona come a Buenos Aires (ma anche ad
Algeri, Il Cairo e Tunisi) e un clima da belle époque, con i suoi
teatri e i suoi café-chantant, fu il riflesso comune di una svolta
epocale: l'urbanizzazione di massa, la nascita dell'industria
culturale, l'affermazione di una nuova e gaudente borghesia
imprenditoriale, lontana ormai anni luce da quella parsimoniosa e
spartana che aveva dato origine al capitalismo moderno. Dietro tutto,
ciò lo sventramento degli antichi centri storici e la nascita delle
città moderne, aperte ai flussi delle merci e protette da larghi
stradoni contro possibili barricate improvvisate da eventuali
rivoltosi, come era avvenuto nei moti del 1848 in mezza Europa. E,
con gli sventramenti, il declino delle vecchie culture urbane
aristocratiche e popolaresche e l'affermazione, accanto all'opera e
alle romanze da camera, delle avanguardie musicali e dei nascenti
generi «popular».
Alcune di queste
esperienze hanno lasciato un segno indelebile entrando nel mito (si
pensi a quello che hanno significato l'impressionismo musicale
francese c la canzone napoletana), altre hanno raggiunto notorietà
internazionale e riconoscimento molto tardi (il fado
portoghese, ad esempio, troppo a lungo associato al regime
reazionario di Salazar), altre attendono ancora di essere
opportunamente valutate e riscoperte, o addirittura scoperte: è il
caso del l'effervescente scena palermitana, poco conosciuta fuori dei
confini del capoluogo siciliano, finalmente documentata dal libro La
musica nell'età dei Florio (L'Epos, Palermo 2006), scritto da
Consuelo Giglio, pianista e docente bibliotecario al Conservatorio di
musica di Trapani.
Il volume, di grande
formato e ricco di bellissime illustrazioni, restituisce con una
scrittura piana e di piacevole lettura il clima della Palermo dei
Florio, la famiglia di imprenditori attivi in numerosi settori (in
primis la navigazione) che, insieme ai Whitaker, fece della città
una capitale dell'arte e della bella vita: «Le borghesie urbane di
un'Italia finalmente unita - scrive infatti Rosario Lentini
nell'introduzione al libro - tendevano a celebrare il proprio
ingresso nel palcoscenico della società e nel mondo della
produzione, mobilitando artisti e uomini di scienza; edificando
quartieri nuovi, piazze e viali, luoghi di elaborazione del sapere e
dello svago, università, gabinetti scientifici e teatri;
organizzando mostre ed esposizioni che riflettevano i progressi in
tutti i campi». Non è un caso, dunque, se proprio nel periodo dei
Florio fu effettuata l'apertura di Via Roma, quella lunga arteria che
corre oggi quasi parallela all'antica Via Maqueda e che, sulle rovine
degli antichi e insalubri quartieri popolari, segnò la nascita della
nuova Palermo («un esempio - ha osservato l'architetto Mario
Giorgianni - di innovazione lungimirante ma anche di distruzione
cieca, di emancipazione e nel contempo di segregazione classista, di
rivoluzione urbanistica accompagnata, come troppo spesso avviene,
dalla speculazione edilizia»): ancora un trauma antropologico
insomma, come quasi ovunque, per «fondare» la modernità.
In questo prezioso libro,
Consuelo Giglio fornisce dunque un dettagliato e meticoloso profilo
di questa «belle époque» palermitana, tracciando una vera e
propria «mappa» dei luoghi della musica a Palermo (teatri, circoli,
salotti) per rinvenire e descrivere il sovrapporsi e l'intrecciarsi
delle varie e multiformi pratiche musicali presenti in città: se la
permanenza di Wagner nell'isola aveva gene rato un vero e proprio
culto per la musica del grande compositore tedesco, il modello
parigino di ville lumière, di cui Palermo sembrava quasi, tra
splendori liberty e contraddizioni sociali, una piccola re plica
mediterranea, favorì la penetrazione dei repertori operistici
francesi (Gounod, Bizet, Masse net, Saint-Saens, Offenbach) e di
quelli canzonettistici, con tanto di «chanteuses» e «divettes».
All'egemonia della musica straniera però, il capoluogo siciliano
risponde va anche con la riproposta e nello stesso tempo lo
svecchiamento delle proprie tradizioni: l'inaugurazione di un Circolo
mandolinistico o il rilancio della musica corale, ad esempio; il
rinnovamento della musica da camera o la rivitalizzazione della
musica per banda, dove fu protagonista Raffaele Caravaglios,
direttore della banda di Alcamo, poi trasferitosi a Napoli (e padre
di quel Cesare Caravaglios che è passato alla storia del folklore
per aver raccolto e trascritto le voci dei venditori ambulanti
napoletani); o ancora la riscoperta del canto popolare, a opera
soprattutto delle pionieristiche ricerche che il compositore Alberto
Favara aveva compiuto sulle orme di Béla Bartók e Zoltan Kodàly;
oppure, soprattutto, la nascita di un autentico genere «popular»
locale, quella «Canzone siciliana» che, sul modello della più nota
sorella maggiore partenopea, si organizzò in un vero e proprio
repertorio, sostenuto dalla neonata editoria musicale cittadina e da
concorsi canori con esibizioni sui carri della festa di Santa Rosalia
così come avveniva a Napoli per Piedigrotta. Anche per la canzone
siciliana invalse l'abitudine, come a Napoli e a Parigi, di stampare
spartiti dalla grafica elegante (un segnale importante per
comprendere il processo di estetizzazione globale che investì in
quell'epoca la prassi del fare musica) e di pubblicare riviste
specializzate (La Sicilia musicale), spingendo verso la
creazione di un vero e proprio mercato di consumo di massa della
musica e della canzone; un consumo basato su un dilettantismo
domestico, qui come altrove, prevalentemente femminile.
Certo, come sempre in
quest'epoca, il canto popolare è quasi sempre frainteso nelle sue
strutture formali, nella sua differenza dalla musica tonale e
temperata (e subisce quindi armonizzazioni estranee al suo spirito e
spesso forzate e incongrue) e la canzone, pur amando sentirsi
«popolare» nello spirito, era in realtà spesso oleografica e
paternalistica verso i ceti bassi della società; però è un dato di
fatto che l'eredità romantica di attenzione e di simpatia verso le
forme espressive popolari permise comunque la raccolta e la
catalogazione (e non solo di canti: si pensi, per restare in Sicilia,
al lavoro di Giuseppe Pitrè) di un'immensa quantità di documenti
sulla cultura popolare, e la loro rielaborazione in chiave «popular»,
destinati solo in seguito a essere opportunamente vagliati e
analizzati.
Lungi dal concentrare
l'attenzione su uno specifico genere musicale, questo libro coglie
dunque, nella dimensione molecolare di una singola città,
l'addensarsi e lo stratificarsi di forme musicali diverse che
coesistettero e si amalgamarono in un periodo cruciale per la musica
moderna. In questo senso, pur con un taglio volutamente divulgativo,
La musica nell'età dei Florio è pienamente partecipe di
quella nuova frontiera degli studi musicologici ed etnomusicologici
che esige sempre di più una lettura trasversale dell'attività
musicale, che tenga conto dell'uso multiforme che di essa si fa nelle
società complesse.
alias il manifesto - 28
aprile 2007
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