18 maggio 2017

L. CANFORA SUL TEATRO DI ARISTOFANE







Ad Atene il teatro aveva una forte impronta politica. Con effetti molto pericolosi. Luciano Canfora rivela il senso politico del teatro di Aristofane.

Mauro Bonazzi

L’arma letale di Aristofane

Che cosa succede quando un comico comincia a fare politica? Che vuol dire «popolo» in democrazia? Sono le domande intorno a cui ruota il nuovo libro di Luciano Canfora Cleofonte deve morire (Laterza). Protagonista indiscusso è Aristofane, il più noto commediografo di Atene, uno dei più grandi di tutti i tempi. L’ideatore di storie strampalate (città costruite in cielo, viaggi nell’oltretomba) con personaggi esilaranti (ossessionati dal sesso o dai tribunali, inseguiti dai creditori, che si depilano petto e gambe: una bella descrizione degli italiani, tra l’altro). Le battute si susseguono con ritmo vorticoso, su piani linguistici diversi, ora volgari ora raffinati, più spesso entrambi insieme. Senza riguardo per niente e nessuno, perché l’unico obiettivo è la risata, e la vittoria nella competizione teatrale.

Tutte cose note, per chi si è divertito con le sue commedie. Meno note sono invece le implicazioni politiche che si nascondono nei suoi versi, soprattutto dove meno ce lo si aspetta. Di questo si occupa Canfora, e improvvisamente si squaderna davanti agli occhi del lettore la vita di una città in permanente fibrillazione, lacerata da scontri sempre più violenti, incapace di resistere alle passioni che la travolgono. Ad Atene tutto è politico.


In alcuni casi la polemica è tanto virulenta quanto esplicita — nei Cavalieri il Paflagone che i cavalieri devono sconfiggere allude smaccatamente all’odiato Cleone, il leader democratico erede di Pericle. Ma è nelle commedie cosiddette d’evasione che il discorso si fa più interessante. Nella Lisistrata ad esempio, in cui la trama boccaccesca — uno sciopero del sesso fino a che i maschi non firmeranno la pace con Sparta — serve anche a descrivere il colpo di Stato oligarchico del 411. La parola d’ordine, che deve legittimare la congiura di fronte all’assemblea popolare, è la stessa che Lisistrata ha difeso in scena: è solo per poter concludere il più in fretta possibile una guerra vantaggiosa per pochi che bisogna destituire gli attuali governanti democratici. La commedia, insomma, non è solo una descrizione, ma anche una difesa della necessità del putsch .

Ancora, nelle Rane del 406 lo strampalato viaggio di Dioniso agli Inferi è ripetutamente interrotto da proclami che invitano all’unità e alla concordia, per restituire i diritti civici a quei cittadini che li avevano persi. Un invito lodevole, se preso in termini generici. Un invito più problematico, quando si pensa chi sono i cittadini che vanno reintegrati nel corpo della città: i responsabili delle sedizioni degli anni precedenti, che in quei mesi stavano orchestrando l’assassinio del democratico Cleofonte e che di lì a poco avrebbero nuovamente abbattuto il governo, grazie all’intervento spartano. Aveva le idee chiare, Aristofane, e sapeva come esprimerle.


In palio c’è il controllo del «popolo», che è poi l’obiettivo di tutti i conflitti politici. Inventori della democrazia, gli Ateniesi lo hanno capito per primi: «popolo» è un termine vuoto, che attende di essere riempito di un contenuto. È una entità la cui natura sarà determinata da chi prevale nello scontro politico. Per i democratici il popolo è la collettività, che insieme stabilisce le leggi e i princìpi che permetteranno a tutti di prosperare. Niente di più fuorviante per gli oligarchici, di cui Aristofane sembra condividere le idee, che nel popolo vedono invece una parte soltanto del corpo sociale: quella maggioranza silenziosa che abita nelle campagne e che si riconosce nei sani valori della tradizione. Una maggioranza destinata ad essere sopraffatta dal blocco sociale urbano (dedito agli affari e ai commerci, e per questo bisognoso di un impero globale), se non saprà affidarsi alle persone giuste: «Dementi, cambiate sistema e tornate a servirvi delle persone per bene!», tuona il coro delle Rane . 

Sono dibattiti che non mancano di attualità, viene da osservare. E Aristofane — raffinato e moderno maestro di comunicazione politica, che indossa una maschera popolana per accreditarsi come la guida capace di salvare la città — ha tanto da insegnarci oggi, in un mondo in cui il dibattito politico è sempre più influenzato dall’adozione di registri comici e satirici. Perché se in politica tutto passa per le parole, la commedia, grazie alla libertà che le è concessa, acquista un peso notevole: con le sue battute può parlare di quello di cui gli altri devono tacere; e può colpire dove le difese sono più sguarnite.

Il gioco, però, è rischioso. Fino a che si tiene sopra le parti, questa libertà ha un che di meraviglioso: smaschera le ipocrisie del potere, svelando le realtà poco nobili che si nascondono dietro ai proclami altisonanti. Ma quando passa a difendere gli interessi di una fazione, il potere di cui dispone e gli eccessi in cui inevitabilmente cade (deve pur far ridere, altrimenti è solo noioso moralismo) rischiano di scatenare passioni che poi è difficile controllare. Contribuendo nell’immediato al successo della sua parte, sulla lunga distanza alza il livello della conflittualità, rendendo normale quello che normale non dovrebbe essere: l’attacco diretto, la battuta greve, la deformazione non più divertente — tutte cose di cui poi ci si pente, sorpresi di aver potuto osare tanto. Sempre troppo tardi, però. Sono dinamiche che non hanno aiutato gli Ateniesi. Speriamo di essere più saggi. 


Il Corriere della sera/La Lettura – 14 maggio 2017

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